Voluto soprattutto dal Vescovo Gioieni per favorire la commercializzazione dei prodotti locali e in particolare quelli dell’agricoltura (come ricorda anche una bella elegia dell’agrigentino Lo Presti), il Molo di Girgenti durante il periodo borbonico divenne uno dei maggiori scali per la esportazione dello zolfo in Sicilia.
Grazie alla commercializzazione dello zolfo diverse famiglie agrigentine raggiunsero un discreto benessere. Ciò è particolarmente messo in rilievo da un documento dell’archivio di Stato a firma di Antonino Lanza: “non s’ignorano le mutate fortune che avvengono in ognuna delle classi che in un modo qualunque vivono da questa industria, e se non è nuovo vedere un modesto borghese divenire in pochi anni ricchissimo produttore e grande proprietario, non è meno un caso ordinario nei comuni vicini alle zolfare ove si domandi di un magnifico palazzo di recente innalzato a sentire che appartenghi a tale che non era altro che un semplice picconiere o un vetturale trasportatore di zolfi” (Archivio di Stato di Agrigento, inv. 4, vol. 236).
Tutti ci aspetteremmo pertanto un’attenta gestione di un porto tanto importante per un settore economico così promettente. Basta invece leggere anche solamente le descrizioni dei viaggiatori per rendersi conto della perenne crisi in cui il Molo agrigentino versava durante tutta la prima metà dell’Ottocento (e anche oltre). Un inglese nel 1824 trovava assolutamente fatiscente la struttura del molo e delle altre costruzioni e poneva attenzione soprattutto al male maggiore di cui il porto agrigentino soffriva: l’infiltrazione di sabbia, che era tale che “un gran numero di galeotti è tenuto lì (nella torre di Carlo V, allora reclusorio) allo scopo di togliere il progressivo accumularsi della sabbia e per la pulizia del porto”.
E dire che spesso la stessa decuria di Girgenti aveva reclamato l’intervento dei Cavafondo, navi attrezzate per espurgare i porti. Ne venne uno nel 1852, il Sandalo, cavafondo a vapore, che intervenne per pochi giorni e se ne ripartì per Milazzo prima di completare il lavoro. Venne richiesta inoltre inutilmente la costruzione di un nuovo braccio, una nuova banchina, una diga, ma inutilmente.
Anche la luminosità delle “lanterne” era considerata insufficiente dai marinai e “i vascelli che arrivano di notte – scrive il nostro viaggiatore inglese – più facilmente confondono questi millantati fari con alcune delle stelle che brillano luminose in cielo e che sembrano contendere (ai fari del porto di Girgenti) il diritto di guida”.
Accadde così che il 20 febbraio 1860, mentre una bufera “imperversava con tutto l’impeto della rabbia degli sconvolti elementi: otto legni esteri si trovavano ancorati sulla rada ad un miglio di distanza dal molo …oh! se aveste potuto mirare tutta l’opera di quegli abili marinai per superare l’impeto della furibonda procella: oh! se aveste inteso le grida di dolore e di disperazione al vederci impotenti a lottare colla rabbia dell’infido elemento …ma tutto fu vano poiché essendo questa rada molto ingolfata non vi è mezzo a poter superare l’impeto del vento che vi caccia là dentro, né vi è leggerezza di legno o manovra di abile marinaio che possa portar la prora fuori le due punte che chiudono a semicerchio questo golfo”.
(Relazione del Controllore attivo del Molo di Girgenti Antonino Lanza, Archivio di Stato di Agrigento, inv.4, fascicolo 236).
Elio Di Bella