Il 19 luglio del 1966, qualche minuto dopo le sette del mattino, un ampio settore della città di Agrigento, comprendente ben cinque quartieri del centro storico (i tratti terminali della via Dante e della via Santo Stefano, la salita Porto Empedocle, la via Garibaldi, le zone del Duomo, di Giardinello, della Bibbirria, e di San Michele) franarono, lasciando senza casa ben cinque mila Agrigentini, oltre 1.200 famiglie.
La frana interessò una superficie di circa 0,450 chilometri quadrati sulla quale tra l’altro si trovavano la Cattedrale, il Museo Diocesano, il Seminario, la Chiesa di Sant’Alfonso, il Palazzo vescovile, la Biblioteca Lucchesiana, la Chiesa di san Michele, le strade provinciali Spina Santa – Villaseta e Fondacazzo – Montaperto, la rete ferroviaria Agrigento Centrale – Agrigento Bassa che subirono seri danni.
Diverse famiglie ebbero salva la vita grazie ad un netturbino, Francesco Farruggia, che, accortosi di quanto stava accadendo, diede l’allarme, giusto in tempo prima di vedere ben tre palazzi sbriciolarsi come costruzioni di cartapesta e crepe aprirsi dappertutto.
Gli sfollati vennero sistemati nei giorni seguenti nelle scuole e nelle tendopoli e il 25 luglio ricevettero la visita del presidente della Repubblica, on. Giuseppe Saragat, e del capo del governo, on. Aldo Moro, che assicurarono un pronto intervento dello Stato per dare una nuova casa a tutti e una seria indagine per individuare le responsabilità per quanto era avvenuto.
La stampa intanto parlava di “sacco di Agrigento“. Negli anni precedenti si erano costruiti senza regole nel centro storico palazzi anche piuttosto alti, spesso gli uni accanto agli altri, su terreno che poi si è scoperto essere franoso.
Anche la commissione costituita con decreto del ministro del lavori pubblici il 3 agosto 1966 e presieduta da Michele Martuscelli concluse affermando tra l’altro”. Gli accertamenti in merito alla situazione urbanistico-edilizia determinatasi nella città di Agrigento hanno dimostrato uno stato diffuso e generalizzato di illegalità, la colpevole inerzia dell’amministrazione a vari livelli, l’assenza di qualsiasi cura per la realizzazione di un assetto urbanistico civile, lo scempio di un paesaggio che, per il felice innesto di un complesso archeologico tra i più celebrati, può considerarsi unico”.
Un centinaio circa di amministratori comunali, funzionari del Comune, della Regione e statali, professionisti edili vennero rinviati a giudizio. Ma solo pochi sono stati condannati.
Più lungo e tormentato è stato il calvario delle molte famiglie rimaste senza casa. Le prime famiglie hanno ottenuto un indennizzo o un nuovo alloggio a Villaseta solo diversi anni dopo, alcune famiglie non sono state ancora indennizzate.
Il 16 maggio 1968 un decreto ministeriale (Gui-Mancini) poneva concreti vincoli allo sviluppo di Agrigento, vincolando la Valle dei Templi e numerose altre zone a una rigorosa salvaguardia. Uno degli effetti del decreto fu praticamente il blocco quasi totale delle attività edili e la disoccupazione per moltissimi operai. Inoltre, la mancanza di un piano regolatore urbano, negli anni successivi ha favorito il fenomeno dell’abusivismo edilizio che non ha risparmiato neppure alcuni tratti della zona di assoluta inedificabilità della Valle dei Templi. Ancora oggi il problema della perimetrazione della Valle dei Templi, della realizzazione del parco archeologico e dell’abusivismo nella Valle dei Templi e nelle zone adiacenti costituiscono alcuni dei maggiori temi della vita politica agrigentina.
Finalmente, con l’approvazione da parte del Consiglio comunale, il 14 aprile 1972, di un nuovo regolamento edilizio e di un nuovo piano di fabbricazione, è stato possibile realizzare un vasto piano di edilizia pubblica e sovvenzionata, che negli ultimi due decenni ha portato alla nascita di quartieri satellite (Monserrato, Fontanelle, San Giusippuzzu, Amagione), oltre che all’espansione di nuovi insediamenti alle spalle del Villaggio Mosè. Tali quartieri sono stati collegati alla città da una serie di viadotti.
Elio Di Bella