I Chiaramonte furono tra le più alte espressioni del feudalesimo in Sicilia. Agrigento fu certamente la città chiaramontana per eccellenza. Da qui uscì un ramo di questa nobile famiglia, discendente dalla nobile Marchisia Prefolio e da Federico I Chiaramonte.
Ad Agrigento sorsero anche i monumenti della loro potenza: lo Steri sul punto più alto della città, contrapposto al castello, centro della potenza regia; il grande monastero di Santo Spirito dove le donne chiaramontane concludevano le loro vite terrene; i sontuosi palazzi, sparsi per la città, della magnifica Isabella, di Costanza, di Beatrice; i conventi istituiti dai Chiaramonte: di San Domenico, di San Francesco, dei cavalieri Teutonici, di Santa Maria Maddalena; gli ospedali di Santa Croce e di San Giovanni; le costruzioni del Rabato fuori la parte occidentale della città; le mura e le porte che circondarono Girgenti, come la porta del Marchese, ove era lo stemma della famiglia Chiaramonte.
Molti di questi edifici conservano ancora oggi le tracce di quell’arte che venne detta chiaramontana.
Nel periodo in cui loro dominarono, certamente i vescovi agrigentini non potevano essere nominati senza il loro consenso; bastava essere sotto la loro protezione per sfuggire ai processi, anche a quelli per eresia.
I Chiaramonte ingrandirono la città di Girgenti, la ripopolarono, diedero impulso alla sua economia.
Probabilmente erano presenti nella Città dei Templi sin dal 1267, ma il primo che diede lustro alla nobile casata fu Manfredi primo, il primogenito di Marchisia Prefolio e Federico I.
Nella ribellione scoppiata contro la “mala signoria” degli Angiò, i Chiaramonte di Girgenti furono dalla parte del re francese e contro Pietro d’Aragona che nel 1282 era approdato in Sicilia con 50 navi per conquistare l’Isola. La casa aragonese fu particolarmente generosa nei confronti dei Chiaramonte, che poterono esercitare già in quegli anni un vasto dominio sulle terre che stavano fra il fiume Akragas (San Biagio) e il fiume Naro.
Nel 1286 Manfredi Chiaramonte sposò Isabella, figlia del conte di Modica, ed ereditò dieci anni dopo (a seguito della morte del suocero) quella ricca contea, divenendo, pertanto, conte di Modica e per volere del re Siniscalco del regno. Assai potenti divennero anche i fratelli di Manfredi, Giovanni detto il Vecchio e Federico II. Il primo s’imparentò con la famiglia dei Palizzi e divenne così conte in Val di Noto (era già signore di Bivona).
Dopo la morte della loro madre, Marchisia, avvenuta nel 1300, i suoi tre figli divennero gli incontrastati signori di Girgenti.
Nel corso delle lotte in Sicilia tra Angioini ed Aragonesi, i catalani dovettero molto alla potenza dei Chiaramonte che avevano deciso intanto di passare dalla loro parte e vennero ancora ricambiati con molti onori. Conclusa la guerra con gli accordi di pace siglati nell’anno 1302, i Chiaramonte poterono dedicarsi ai loro molti affari con più tranquillità e soprattutto al governo di Girgenti. Tentò di opporsi a loro il vescovo di Girgenti Bertoldo de Labro, ma inutilmente.
Federico II Chiaramonte, signore di Racalmuto, Favara e Siculiana diede in sposa la figlia Costanza ad Antonio del Carretto, marchese di Savona e Finati e costruì il convento di San Domenico a Girgenti.
Qualche anno dopo, nel 1301, si spense e lasciò i suoi beni alla figlia Costanza e ai suoi fratelli, dando disposizioni per essere sepolto a San Domenico. Manfredi edificò lo Steri grande (l’attuale Seminario vescovile) e diede in sposa la figlia Costanza a Francesco Ventimiglia, conte di Gerace e Golisano. L’altro fratello, Giovanni, venne insignito delle più alte cariche del Regno, quali quella di vicario generale dell’impero in Italia da parte di Enrico VII e quella di capitano giustiziere della città di Palermo.
Nel 1321 il figlio di Manfredi, Giovanni II sposò la figlia naturale del re Federico II. Per i Chiaramonte è l’apogeo della loro potenza, ma nello stesso tempo inevitabilmente destarono l’invidia delle altre famiglie baronali siciliane.
I Ventimiglia intanto avevano accresciuto il loro potere in diverse province dell’Isola e vennero in contrasto con i Chiaramonte.
Giovanni Chiaramonte assalì e ferì gravemente il conte di Ventimiglia perché questi aveva ripudiato Costanza Chiaramonte e venne bandito dal regno.
Dopo la morte del sovrano Federico II, che nel suo testamento non fece alcun cenno ai Chiaramonte, al trono salì il debole Pietro, che reintegrò Giovanni Chiaramonte nei suoi titoli e nei suoi possedimenti nel 1337, mentre condannò il Ventimiglia con l’accusa di tramare con gli Angioini.
Nel 1338 riprese in Sicilia la guerra tra Aragonesi e Angioini e i Chiaramonte erano ancora schierati contro questi ultimi. Il re spagnolo convocò a Girgenti il consiglio dei magistrati del Regno per studiare il da farsi dinanzi alle nuove minacce francesi.
Giovanni Chiaramonte, nella sua qualità di Siniscalco del Regno, fu tra i più vicini al sovrano Pietro e venne inviato con una flotta a sbarrare la strada agli Angioini nelle acque di Messina (1339), ma ebbe la peggio e venne fatto prigioniero. Fu liberato solo dopo aver pagato un forte riscatto.
Nel 1341 un altro Chiaramonte, Federico III, figlio di Giovanni, sconfisse gli Angioini a Milazzo.
Dal 1342 Enrico e Federico III Chiaramonte governarono Girgenti in nome del Re.
La città ha di fatto perduto l’autonomia propria di una città demaniale. Federico III si presentava come governatore di Girgenti e unico vero signore della valle di Girgenti.
Morto il 15 agosto 1342 il re Pietro, i Chiaramonte si unirono agli altri baroni nella insurrezione fomentata dalla famiglia Palizzi contro i baroni catalani. Uno scontro quindi che contrapponeva i baroni fedeli al re spagnolo, ma probabilmente fomentato dagli Angioini. Anche Girgenti insorse contro i Catalani.
Al re Pietro intanto succedeva il figlio Ludovico e anche durante il suo regno la Sicilia fu scossa dai gravi rivolgimenti dovuti agli scontri tra la fazione dei Catalani, guidata da Blasco Alagona, e quella dei latini, della quale i Chiaramonte erano l’anima.
La famiglia agrigentina però si rese presto conto che quei sanguinosi scontri non giovavano a nessuno e si adoperò per stabilire una nuova pace tra le fazioni. L’intesa venne firmata a Palermo il 25 gennaio 1252.
Durante quel breve periodo di pace i Chiaramonte poterono realizzare nuove alleanze. Matteo Chiaramonte diede in sposa la propria figlia, Luchina, a Enrico Rosso, un nobile del partito catalano e un altro sposalizio avvenne tra Venezia Rosso, sorella del suddetto Enrico, e Simone Chiaramonte, primogenito di Matteo. Si cercava anche così di attenuare le tensioni tra Catalani e Latini. Il popolo agrigentino partecipò in massa ai festeggiamenti organizzati per tali matrimoni.
Manfredi III Chiaramonte morì nell’ottobre del 1353 e così spariva una delle maggiori figure di quella potente famiglia: gran Siniscalco del Regno, Vicario generale, unico arbitro di Palermo, indiscusso despota di Girgenti.
Il tentativo di Matteo Chiaramonte di rendere più sereni i rapporti tra le nobili famiglie siciliane fallì in pochi anni.
Giunse infatti a Girgenti una richiesta da esuli messinesi che erano particolarmente invisi ai Palizzi. Costoro chiesero a Federico III Chiaramonte di agire contro Matteo Palizzi. Un esercito partì da Agrigento alla volta della città dello Stretto dove da qualche tempo i Palizzi tenevano praticamente in ostaggio il re Ludovico. Dopo varie vicende al sovrano venne concesso di lasciare Messina, ma neppure così tornò libero. Cadde, infatti, nelle mani dei nemici dei Palizzi. A Messina restava il figlio del Re, l’infante Giovanni, e i Palizzi esercitarono contro il giovane la loro vendetta avvelenandolo. Il re Ludovico con l’aiuto dei Chiaramonte volle sbarazzarsi definitivamente dei Palizzi. Messina venne attaccata e Matteo Palizzi venne ucciso insieme alla moglie e ai figli.
Nei mesi seguenti troviamo il Re a Catania sotto la protezione di Blasco Alagona, mentre Simone Chiaramonte, dopo aver consumato la propria vendetta contro Matteo Palizzi, fece ritorno a Girgenti, anche se era ben poco felice del fatto che il Re Ludovico avesse preferito la protezione dell’Alagona a quella dei Chiaramonte e decise di vendicarsi anche di questo torto. Infatti, pochi mesi dopo Simone Chiaramonte dichiarò di essersi alleato con gli Angioini di Napoli.
Nel 1355 morivano il re Ludovico e il nobile Blasco Alagona. Al trono saliva il fratello del re, il quattordicenne Federico III. Venne scelto quale tutore del nuovo sovrano il figlio di Blasco Alagona, Artale, che trascinò con sé a Catania Federico III.
Nel febbraio del 1355 il re di Napoli spedì a Simone Chiaramonte 400 fanti per iniziare l’occupazione della Sicilia occidentale. Sembra che prima di avviarsi gli armati angioini abbiano spogliato il Vescovo di Girgenti di molti beni. Dopo aver sottomesso gran parte della valle di Mazzara, i Chiaramonte e gli Angioini si volsero contro Siracusa minacciando adesso da vicino Catania, dove si trovavano il Re e Artale Alagona.
Federico III si vide costretto a rappacificarsi con i Palizzi e con altri nobili nel tentativo di trovare nuovi alleati. Ma intanto anche Messina cadeva nelle mani dei Chiaramonte. Il Re spagnolo appresa la notizia, si vendicò dell’offesa devolvendo i beni dei nobili agrigentini che seguivano i Chiaramonte a quei baroni che gli erano rimasti fedeli.
Il 16 marzo 1357 Simone Chiaramonte venne avvelenato e morì. Ad architettare il delitto era stato Enrico Rosso, che catturò anche Mafredi III Chiaramonte e lo imprigionò. Il Rosso aveva infatti deciso, all’insaputa dei Chiaramonte, di sostenere la causa del Re Federico III. Il sovrano angioino allora inviò subito delle truppe per liberare Manfredi III Chiaramonte, mentre a Catania il re Federico III e i baroni a lui fedeli radunarono le truppe e si prepararono allo scontro con gli Angioini. E ad Aci i due eserciti si diedero battaglia. Federico III ebbe la meglio e da lì avviò la sua riscossa. Il re spagnolo aveva però bisogno degli aiuti degli Aragonesi per liberarsi dalla dipendenza dai baroni siciliani e mandò ambasciatori in Spagna per chiedere sostegno.
I Chiaramonte compresero che per gli Angioini in Sicilia non vi erano che poche speranze e quindi si rappacificarono con il re Federico III, che fu particolarmente magnanimo con la famiglia agrigentina, confermando i titoli e i privilegi antichi e concedendo a Federico Chiaramonte nuovi beni e territori.
Tornata la pace in Sicilia, il re Federico III convolava a nozze con la cugina Costanza di Aragona, figlia di Pietro IV. Ma tale matrimonio sanciva l’alleanza tra il sovrano e la casa spagnola, e i baroni siciliani compresero che in futuro non avrebbero più potuto godere del potere e dell’indipendenza degli anni precedenti perché il sovrano adesso aveva nuove potenti protezioni. Riprese quindi nell’Isola la ribellione dei baroni e Artale Alagona condusse nello stesso tempo una guerra personale per accrescere il suo potere e limitare quello dei Chiaramonte e dei Ventimiglia, che si erano intanto alleati in questa nuova fase dell’anarchia baronale siciliana.
Nel 1363 si spegneva Federico III Chiaramonte e poco tempo dopo la nobile famiglia di Girgenti decideva di sospendere la nuova guerra e si riappacificava con il re Federico III. Al governo della città di Girgenti troviamo in questo periodo Matteo Chiaramonte, figlio di Federico e di Costanza Moncada, a cui il re confermò privilegi e titoli.
Nel 1377 il sovrano Federico III si spense a Messina il 27 luglio 1377 e l’autorità sovrana si trasferì in una fanciulla di 15 anni, Maria, e suo padrino venne nominato Artale Alagona, conte di Mistretta, gran giustiziere del Regno, al quale l’infante veniva affidata sino al diciottesimo compleanno.
Artale Alagona convocò a Caltanissetta i principali personaggi del Regno e fu presa di comune accordo la decisione di ripartire il vicariato, per tutta la durata della minore età di Maria, tra lo stesso Alagona e Manfredi Chiaramonte, conte di Modica, Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta.
Lo scopo principale di Alagona era quello di impedire l’unione del regno iberico, dominato dal ramo principale della famiglia aragonese, con quello di Sicilia.
A questo scopo Artale offrì la mano di Maria a Giangaleazzo Visconti per dare una svolta “italiana” alla vita politica in Sicilia. Il conte di Augusta, Guglielmo Raimondo Moncada, che era rimasto escluso dal vicariato, fece fallire i piani di Artale e rapì Maria che si trovava a Catania, trasferendola a Licata, città che cadeva sotto la giurisdizione dei Chiaramonte. Subito dopo il Moncada si recò a Barcellona, in Spagna, da Pietro IV, proponendogli di assumere la custodia della fanciulla reale. Il re spagnolo accettò e inviò un suo ambasciatore, Ruggero Moncada, a Licata per mettere sotto tutela Maria.
Manfredi Chiaramonte tentò di rapire la fanciulla, ma il suo tentativo fallì e Maria venne condotta ad Augusta. Intanto in Spagna venne deciso di far sposare Maria con Martino, nipote del re Pietro IV. Venne quindi ordinato a Ruggero Moncada di lasciare la Sicilia e di portare con sé Maria in Sardegna, per metterla al riparo dalle minacce dei baroni siciliani. Per dieci anni la regina sarebbe rimasta in quella regione, mentre la Sicilia sarebbe stata governata dai quattro vicari. Intanto Martino mandava ambasciatori in Sicilia e preparava la spedizione contro l’Isola.
Nel 1388 la regina Maria venne trasferita a Barcellona e messa sotto la protezione della casa aragonese, mentre si preparavano le nozze con Martino. Era morto nel frattempo Francesco Ventimiglia e nel 1389 si spense anche Artale Alagona. Finalmente nel 1390 si celebrarono le nozze tra Maria e Martino.
Iniziarono allora i preparativi per lo sbarco in Sicilia. Il 10 luglio 1391, a Castronuovo, in Sicilia, si riunirono i grandi personaggi dell’Isola per manifestare ai nuovi regnanti il loro assenso alle nozze e riconoscere ufficialmente Maria come sovrana legittima. Guglielmo e Niccolò Peralta, Enrico Ventimiglia dissero di essere disposti a trattare con i Martini. L’opinione di Andrea Chiaramonte, figlio di Manfredi, non si conosceva ancora con precisione. Il 22 marzo 1392 la regina e il suo giovane sposo Martino sbarcarono in Sicilia, a Favignana, e molti baroni andarono subito ad accoglierli.
Una sola voce continuava a tacere, quella di Andrea Chiaramonte, padrone di Palermo. I reali gli inviarono una lettera intimandogli di raggiungerli, ma il Chiaramonte non si mosse. I sovrani e l’esercito si mossero quindi verso Palermo e Andrea Chiaramonte si chiuse dentro le mura della città, che venne assediata. Il Chiaramonte rivendicava alla feudalità le prerogative del governo della Sicilia, non godeva né dell’appoggio delle città, né di quello della sua classe. Quando a Palermo la situazione cominciò a farsi difficile per la mancanza di viveri, il Chiaramonte decise di chiedere il perdono ai regnanti. Furono facilmente pattuite l’assoluzione, insieme alle decisioni riguardanti la conferma dei precedenti privilegi del Chiaramonte sulla città di Palermo. Anche Girgenti, che si era ribellata, seguendo Andrea Chiaramonte, ottenne il perdono.
Il 17 maggio il nobile Andrea Chiaramonte fu davanti ai sovrani e venne accolto molto benevolmente. Il giorno seguente il conte di Modica venne richiamato nel palazzo ove erano i sovrani e mentre esponeva le ragioni della sua precedente ribellione venne arrestato. Si disse che la conciliazione del Chiaramonte era solo apparente e che aveva già preparato a Palermo una ribellione contro i conti più fedeli alla regina. Lo Steri dei Chiaramonte a Palermo venne occupato e saccheggiato dalla truppa e divenne la residenza reale dei nuovi sovrani. Nello stesso giorno vennero arrestati Manfredi e Giacomo Alagona.
Il primo giugno venne resa pubblica la sentenza di morte di Andrea Chiaramonte, che venne eseguita nella piazza della Marina, a Palermo, dinanzi allo Steri dei Chiaramonte. A Girgenti arrivò un nuovo signore, designato dal re, Bernardo Caprera, capo della spedizione in Sicilia e da adesso anche conte di Modica. Ma Girgenti si ribellò e il Caprera dovette piegare la resistenza della città per potervi entrare ed imporre il nuovo ordine.
Elio Di Bella