Agrigento è stata indicata con vari nomi nel tempo :
Akragas, Agrigentum, Kerkent e Karkin, Girgenti, leggo nella “guida all’Italia leggendaria… Eccetera” Mondadori edizione Milano 1971, capita letto dedicato a “Agrigento – otto nomi in 25 secoli” e trascrivo, senza alcuna responsabilità:
“greco Akragas, latino Agrigentum, arabo Girgent e Karkint, Grigentum e Gergentum (secolo undicesimo). Dal 1130 al 1927, Girgenti. Un viaggiatore francese, Dominique Fernandez, ha suggerito un curioso nesso tra questo svariare di nomi di Agrigento e la filosofia di uno fra i più illustri figli della città”
sostiene dunque quel viaggiatore, non saprei con quanta precisione: “I pirandellismo, che si riduce poi alla constatazione dell’impossibilità per un uomo di essere solo quello lì e non un altro e non 10 altri nello stesso tempo, ha dovuto imporsi prestissimo alla mente dell’agrigentino… A che specie, a che comunità può sentire d’appartenere il cittadino di una città che fu Akragas sotto i greci, Agrigentum sotto i romani, Kerkent sotto i musulmani. A quale verità che aggrapparsi ? Come sfuggire alle proprie contraddizioni?”
Mi chiedo se di qualche sdoppiamento di personalità soffrono ad esempio anche i parigini, abitanti di una città che si chiamò Lutetia, ma ma cominciamo dalle nostre insufficienze, e rileviamo intanto che Akragas non fu “sotto” i greci, ma fu bensì greca, così intimamente greca da indurre Guy de Maupassant che la visitò nel 1885 ad una sorta di estasi dell’antichità (“La Sicilia”, traduzione di Simona Modica, Sellerio edizione, Palermo 1990): “seduti lungo la strada che corre ai piedi di questo incredibile per, si rimane a sognare dinanzi a queste meravigliose vestigia del più grande popolo di artisti. Si ha l’impressione di avere davanti a sé l’intero Olimpo, l’Olimpo di Omero, di Ovidio, di Virgilio, l’Olimpo degli dei affascinanti, carnali, appassionati come noi, fatti come noi, che impersonavano poeticamente tutti i sentimenti del nostro cuore, i sogni della nostra mente, gli istinti dei nostri sensi.
E l’antichità intera che si innalza verso questo c’è l’antico. Una mozione potente singolare vi prende assieme la voglia di inginocchiarmi davanti a queste memorie lasciate dai maestri dei nostri maestri”.
Per secoli questa città era stata minacciata dal pericolo rappresentato dai cartaginesi, fino a quando un’alleanza fra agrigentini siracusani non sconfisse rivali ai Himera, nel 480 avanti Cristo, nello stesso anno in cui a Salamina la flotta comandata da Temistocle sbaragliò la persiana di Serse: in uno sforzo comune i greci si liberarono nel medesimo tempo dei pericolosi vicini oriente di Occidente.
Ma cartaginesi ritornarono e furono i romani, come narra Polibio, ad espellerli al tempo della prima guerra punica (264 – 241 avanti Cristo) e ne uscì mutato anche il nome della città che si chiamò Agrigentum. Molto più tardi, quando cominciò a vacillare anche l’ultima potenza imperiale che era sopravvissuta a Bisanzio, di nuovo dall’Africa settentrionale venne il nemico, questa volta musulmani, a contendere la Sicilia gli abitanti diventati cristiani.
Invece da tramontana, com’era giusto per gli uomini del Nord, vendere normanni e sbaragliarono musulmani ed ebrei chiudendo sul colle di Girgenti nella piccola città che sopravvisse nella memoria storica come “Terravecchia”; ai non cristiani rimasero da abitare borghi sui margini, fino a quando anche borghi non furono inclusi nel perimetro cittadino ridisegnato dalle mura costruita nel 1293: “anno milleno triceno non bene pleno, septem sublatis”, precisava un’iscrizione che nel secolo scorso si conservava sul prospetto del municipio di allora, ed era una lapide presumibilmente il settecento che feci in tempo a vedere nei depositi del museo civico, molti anni fa.
E spero che sia sempre lì quel cimelio, ma in ogni caso il testo dell’epigrafe tratto da un poema in versi leonini dedicato evidentemente la storia d’Agrigento, si trova trascritto nelle memorie storiche agrigentine pubblicate dall’avvocato Giuseppe piccone nel 1866 all’indomani cioè dell’annessione al regno d’Italia, in un momento storico nel quale urgeva la ricerca delle più originali tradizioni di ciascun popolo è territorio che concorreva a formare la nuova nazione. L’opera del Picone, opportunamente ristampata anastaticamente nel 1982, trascrive altri brani di quel poema, e di un altro in esametri latini contenente tra l’altro la notizia del crollo dell’ultima struttura del tempio di Giove avvenuto il 9 dicembre del 1401.
Le mura della città medievale sul colle di Girgenti furono rifatti a cura della famiglia Chiaramonte capeggiata da una gran dama, Marchisia Prefoglio fondatrice benefattrice di tutte le istituzioni monastiche, e in genere ecclesiastiche, di Agrigento. I borghi allora, fusi alla città normanna, furono attraversati dalle grandi vie urbane, come la via fodera o la via Atenea che è rimasta con gli sviluppi e gli ammodernamenti successivi la principale arteria cittadina.
La via che dalla città portava la Valle dei Templi diventò il triste stradone percorso dal capitano Placido Sciaralla in apertura del romanzo di Pirandello “vecchi e giovani” del 1913: “La pioggia, caduta di luglio durante la notte, aveva reso impraticabile con lungo stradone di campagna, tutto a volte risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il guasto dell’intemperie appariva tanto più triste…”; E la giumenta bianca montata dal capitano della guardia del principe Don Ippolito Laurentano, si aveva forse qualcosa a che fare coi cavalli affaticati di Salvatore Quasimodo, in “strada di Agrigentum” (Là dura un vento che ricordo acceso/delle criniere dei cavalli obliqui/in corsa lungo le pianure, vento/che macchia rode l’arenaria il cuore/dei telamoni lugubri, riversi/sopra l’erba…), Nulla più aveva in comune con le razze equine allevate dagli antichi agrigentini per le gare di Olimpia ed esportate fino in Cappadocia. Riferisce il Fazello che “anche Timeo ricorda che fino al suo tempo (circa 326 – 260 avanti Cristo) esistevano in Agrigento parecchi sepolcri in forma di piramide per cavalli che erano stati più veloci “: non m’immagino sia finita sotto una piramide sepolcrale, come l’antico faraone, la povera “compassionevole” giumenta di Sciaralla, che vecchia e stanca, sbruffava ogni tanto dimenando la testa bassa, come se non potesse più di sfangare per quello stradone”.
Per quelle strade degli agrigentini, dopo il lungo isolamento medievale, tornarono a contatto con la loro origine greca giù nella Valle dei Templi, “il lieve declivio della città antica – come Goethe fece in tempo a vedere – tutto rivestito di orti di vigneti, sotto la cui verzura non si supporrebbe nemmeno la traccia dei quartieri urbani un tempo così vaste così popolosi”. E gli artefici Chiaramontani, come già prime normanni, si lasciarono subito coinvolgere nella civiltà classica con la quale tornavano a contatto, trasformando secondo le forme da loro elaborate con raffinata perizia, in chiese e oratori gli antichi templi, ad esempio l’antico tempietto noto come oratorio di Falaride, lì accanto rimaneggia and o anche la grande chiesa di San Nicola.
Dopo quella normanna era un’altra rinascita della storia classica che con i Chiaramonte si compiva nel segno di una continuità culturale che si affermava all’interno di un progetto politico di autonomie conservazione. Frattanto la famiglia feudale aveva occupato la cima del colle di Girgenti con l’hosterium magnum, lo Steri agrigentino del quale oggi solo qualche elemento si riconosce sotto le trasformazioni subite nell’adattamento al seminario vescovile, la di fronte alla cattedrale, a guardia della quale, o sotto la cui guardia, i Chiaramonte avevano posto il loro fortilizio urbano. E molte tracce lasciarono nella stessa cattedrale del loro predominio sulla città, rifacendo cappelle decorazioni non dissimili, almeno quanto a stile motivi, pur se più povere provinciali, da quelle che adornarono il loro palazzo palermitano.

Purtroppo, tutti gli abbellimenti eseguiti al tempo dei Chiaramonte e nelle forme tipiche della loro architettura furono asportati nel restauro che investì la maggior Chiesa agrigentina del momento in cui la cultura dominante, mediante il cosiddetto restauro di liberazione, andava alla ricerca accanita delle “più antico”, e quindi della struttura normanna che era assolutamente da liberare ogni costo, senza tener conto che nemmeno al tempo dei vescovi normanni le muratura si presentavano prive delle decorazioni, che semplicemente erano state modificate o sostituite nel corso del tempo, ed erano pertanto irrecuperabili; che così facendo si metteva a nudo uno scheletro, come ancor di recente è stato fatto nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila e e chissà in quanti altri luoghi contro l’istanza storica che esige rispetto delle testimonianze lasciate dal “passaggio” nella storia, come è stato già vari decenni or sono lucidamente teorizzato da Cesare Brandi.
Comunque, le Cattedrale agrigentina fece malauguratamente in tempo ad essere privata delle modifiche chiaramontane, le cui spoglie furono gettate in un ambiente, come mi pare di ricordare da una rapida e disagevole visita, sottostante alla navata di sinistra sul lato settentrionale, e li spero che tuttora giacciono che a nessuno sia venuto in mente di disfarsene definitivamente.
Una testimonianza di questa fase chiaramontane della cattedrale rimane nella torre, che rappresenta una specie di sintesi della storia del potere in Agrigento, dei vescovi normanni, che ne furono i primi costruttori, ai feudatari Chiaramontani, le corporazioni di arti e mestieri le cui insegne Intagliate nella friabile pietra calcarea sul lato meridionale sono state lentamente ma inesorabilmente cancellate dal tempo e dalle intemperie, di nuovo ai vescovi infine che nel ‘400 ripresero a far valere i propri privilegi, espressi dagli stemmi che comparvero sulla base della torre al di sopra di quelli delle corporazioni medievali
di Dante Bernini