di Dante Bernini
Non è facile nelle condizioni attuali tentare di ricostruire anche solo idealmente quale fosse l’aspetto di Girgenti sul finire del XIV secolo, quando tragicamente cadde la signoria dei Chiaramonte con la morte dell’ultimo della famiglia, Andrea, giustiziato per ordine di re Martino sulla piazza Marina di Palermo, davanti a quella sua splendida dimora nota col nome di Steri, abbreviazione dialettale forse del basso latino hosterium, che fu il nome pomposamente attribuito da quella aristocratica famiglia alle proprie residenze, quella della città d’origine Agrigento e l’altra eretta quando splendeva la sua fortuna nella stessa capitale del regno.
Lo Steri agrigentino, o forse meglio girgentino, era (ed è nei suoi resti) in cima al Colle di Girgenti, proprio di fronte alla cattedrale normanna, e in tale sua collocazione vuole affermare il senso di potenza da cui la famiglia feudale è animata, quando non esita a porsi sullo stesso piano della massima autorità religiosa, a sua volta investita fin dalla fondazione dei vasti possessi che si dilatano dall’uno all’altro mare, nei confini tracciati dal discusso diploma rilasciato dal conte Ruggero nel 1093 in favore del vescovo Gerlando e dei suoi successori.
Questo parallelismo in cui il palazzo si pone col rappresentante massimo del potere si ripete con forte analogia e con maggiore risalto nello Steri palermitano situato al capo opposto del lungo asse viario che, partendo dal Piano del Palazzo, residenza reale, si conclude nel Piano della Marina dominato dalla mole del palazzo chiaramontano, di modo che i due poteri a quel tempo fra loro avversi, il re e la classe baronale rappresentata dal Chiaramonte si contrappongono sullo stesso livello ai due capi della via che segna l’estensione della città “caput regni”.
La famiglia feudale dei Chiaramonte, partendo da Agrigento aveva raggiunto Palermo (o forse il tragitto era stato compiuto all’inverso?), attraversando tutto il territorio che era stato della diocesi agrigentina, fin quasi alle porte della capitale, tra la sorgente del fiume “sotto Corleone”, come dice il citato diploma ruggeriano, e la foce del Salso, disseminando terre e paesi di castelli e torri, a segno del potere e quindi del controllo che essa esercitava su quella importante porzione dell’isola.
I chiaramonte costruirono torri, castelli e lussuose dimore
Torri e castelli, come le lussuose dimore cittadine, sono edificati in uno stile del tutto caratteristico che solitamente viene definito dagli studiosi d’arte appunto “chiaramontano“, facendo risalire la sua elaborazione agli stessi feudatari committenti, o meglio ai loro artefici. Dal castello di Naro o da quello di Favara, fino a quello di Mussomeli e all’altro di Misilmeri, di fondazione normanna ma riedificato dai Chiaramonte, una tipica architettura contrassegnata dalla prevalenza di alcuni vistosi elementi decorativi, che vanno sempre più arricchendosi e complicandosi, come avviene in tutta l’architettura gotica italiana ma qui seguendo schemi propri, si diffonde nel corno occidentale dell’isola, connotandolo inconfondibilmente.
Ma in tanta ricchezza, qual era la città di Girgenti, nido sicuro della potente famiglia? Qual era il suo assetto urbanistico e quale il suo aspetto monumentale? Tramontato lo splendore diffuso dalla signoria chiaramontana, e conclusa tragicamente, come s’è visto, la storia della famiglia baronale che aveva arricchito la città di nobili edifici, Girgenti venne decadendo in modo irrimediabile, preda dei più grandi flagelli, dalla peste alla carestia, dal banditismo alla pirateria, tutti fenomeni catastrofici, prodotti da quei tempi come dalla politica di rapina esercitata da un potere egoistico quanto assoluto.
Impietosamente si venne erodendo così il suo patrimonio monumentale, di cui riuscì a salvarsi solo qualche piccola scheggia rimasta a testimoniare un’antica grandezza che forse avrebbe voluto misurarsi con la vera sostanza storica e monumentale che la città continuava a possedere nella Valle ai piedi del doppio colle su cui l’abitato cittadino si era a mano a mano ritirato e ristretto alla fine del periodo classico.
Questo tentativo di prendere a modello la grandezza classica era da sempre, consapevolmente o meno, e certo con risvolti di natura puramente economica, nella cultura degli agrigentini. o girgentini, se già in età bizantina si cercò di piegare alle nuove esigenze religiose gli antichi templi miracolosamente sopravvissuti, trasformandoli in chiese cristiane, come lo stesso tempio della Concordia sul ciglio meridionale della Valle, o già in età normanna quello dedicato alle divinità ctonie sullo sperone orientale della cosiddetta Rupe Atenea trasformato nella chiesa di S.Biagio, o l’altro in cima al Colle di Girgenti trasformato nella chiesa detta di S.Maria dei Greci.

Federico Chiaramonte fondò la signoria a Girgenti
Nel periodo normanno la città era ormai arrampicata sulla collina essendosi sviluppata dal basso verso l’alto, e così determinando un assetto urbanistico ordinato secondo direttrici verticali che favorivano l’arroccamento e la difesa contro i tentativi di penetrazione dal basso. Si formò in tal modo un complesso abitativo forse di modesto aspetto, ma certo pressoché impenetrabile, che rimase nella nozione comune come la “Terra vecchia” (nome col quale continua a comparire nelle mappe catastali del XX secolo), in evidente contrapposizione a una “nuova”, che fu appunto con tutta verosimiglianza quella edificata dai Chiaramonte nel XIV secolo.
La città si era nel frattempo espansa, il limite della “Terra vecchia” era ormai insufficiente a contenere le nuove attività e il conseguente accrescimento demografico, le vecchie separazioni dalle popolazioni di origine araba o ebraica sistematesi nei borghi a ridosso del nucleo urbano non potevano mantenersi (e per certo non convenivano più a un’economia fiorente), e così il vecchio sistema difensivo costituito dalla cerchia muraria si dilatò fino a includere i borghi, e sul finire del XIII secolo, precisamente nel 1293 se la data riportata dalla tradizione poetica è quella esatta, l’antico muro di cinta “hic sum fundatus hic denuo sum renovatus”, là dove era stato fondato dai Normanni fu rifatto da “Fridericus juris amator”. Da quel Federico Chiaramonte, fratello di Atanasio patriarca di Alessandria che fondò la signoria girgentina avendo sposato Marchisia Prefoglio che appare la vera animatrice della rinascita culturale della città.
La cinta muraria
La cinta muraria ingrandita, adeguandosi al nuovo assetto assunto dalla città con l’inclusione dei borghi soprattutto a levante, ne favorisce lo sviluppo in senso orizzontale da ovest a est per cui si aprono le grandi vie (la via Foderà, e più tardi la via Atenea destinata a diventare la vera “piazza” cittadina) per l’accesso alla Valle, che in tal modo torna a far parte della città stessa; e forse questo è il significato più vero e importante della modifica urbanistica apportata in epoca chiaramontana, la riappropriazione cioè totale e definitiva del retaggio classico, con la ripresa anche dei tentativi di trasformazione e adeguamento dei monumenti antichi ai bisogni del culto, come dimostrano gli adattamenti avvenuti nella zona della chiesa di S.Nicola e del tempietto ellenistico-romano noto come l’Oratorio di Falaride.

Ma gli interventi di maggiore importanza nel cuore stesso della città furono tutti favoriti dall’attività non solo benefica e pia, bensì anche di raffinata civiltà, di Marchisia Prefoglio, il cui patronato, come risulta dai documenti, si estende a tutte, o quasi, le iniziative che riguardano l’architettura religiosa di Girgenti, dalla fondazione della chiesa e convento di S.Francesco d’Assisi al complesso dell’Ordine Teutonico sotto il titolo di S.Maria con la chiesa dedicata a S.Giovanni, meglio noto alle meno recenti generazioni di agrigentini come l’Ospedale Civico sulla via Atenea, dal Monastero di S.Spirito, la Badia grande (‘a Bbataranni della tradizione dialettale), al convento di S.Domenico, e a molte altre fondazioni o rifondazioni, in buona parte confortate da documenti, che hanno dovuto contribuire grandemente a dare una vera e propria immagine chiaramontana alla città.
Residui caratteri chiaramontani si riconoscono nella Cattedrale e nella torre annessa, investite evidentemente anch’esse dall’opera di rinnovamento intrapreso da Marchisia, e la famiglia non mancò di erigere un oratorio in onore di San Giorgio patrono del casato, a ridosso del suo palazzo di città, lo Steri agrigentino.
Della cinta muraria rifondata dai Chiaramonte affiorano qua e là piccoli residui del tutto trascurati; l’ultima sua rilevante porzione costituita da varie torri fu demolita per fare spazio allo scalo ferroviario di Agrigento centrale negli anni Venti e Trenta, quelle torri entrate da gran tempo nella leggenda cittadina (certo non si può dirla metropolitana), adibite dagli amministratori della città agli usi più diversi e impropri, come ci attestano ad esempio il Picone e qualche aneddoto riferito allo stesso Pirandello, già ricordato su queste colonne.
Nell’ultima guerra da cui la città fu duramente provata a causa dei bombardamenti dal cielo e dal mare, con molti altri monumenti e abitazioni fu in gran parte distrutto il chiaramontano convento di S.Francesco d’Assisi, adibito a sede di un complesso scolastico che ne aveva già reso irriconoscibili i caratteri con modifiche e sovrapposizioni, e ricavandone infine improvvidamente nelle fondamenta un ricovero antiaereo in cui sarebbero rimasti sepolti numerosi inermi cittadini.
Per suo conto, il complesso ospedaliero sulla via Atenea, già sede dell’Ordine Teutonico, avendo concluso con la dismissione dell’ospedale il suo ciclo vitale attende forse, rimasto senza alcuna provvidenza e attenzione, di cadere su se stesso. Sarebbe auspicabile un intervento conservativo che tra l’altro servirebbe anche a studiare le strutture di questo importante monumento della Girgenti medioevale nato probabilmente già prima della signoria chiaramontana. Non sarà facile purtroppo intervenire nella Cattedrale, dove gli ornati e le altre aggiunte chiaramontane scomparvero nei restauri cosiddetti liberatori a cui la chiesa fu sottoposta in epoca moderna.
Per fortuna rimane la Badia di S.Spirito, a cui vengono precariamente affidate funzioni più o meno ufficiali e culturali, consentendone la visita e così di riconoscervi, nelle strutture sopravvissute, i caratteri propri dell’architettura chiaramontana, portali e bifore ad arco acuto decorati da cornici multiple intagliate a forte rilievo con vari motivi dove prevale la linea spezzata (a zig-zag) insieme a diffusi ornati vegetali.
A S.Spirito, nella facciata del monastero sul cortile interno, è presente una tipica struttura dell’architettura gotica in Sicilia, quel complesso costituito da un portale affiancato, quasi serrato tra due finestre, che negli edifici conventuali è il tipico ingresso della sala capitolare, com’era di frequente a Palermo e nello stesso convento agrigentino di S.Francesco d’Assisi, dove la struttura, se gli occhi non mi hanno ingannato quando di recente sono riuscito a spiare tra le assi del tavolato che in atto cinge l’area del convento verso mare, è stata recuperata dal restauro.
Manfredi Chiaramonte
Così è anche nel convento di Baida sopra Palermo, fatto ricostruire da Manfredi Chiaramonte sul finire del XIV secolo appena qualche anno prima del crollo delle fortune della famiglia, con l’intenzione abbastanza evidente di riprodurvi la ricchezza e lo splendore del chiostro di Monreale percepito ormai dalla società contemporanea quale modello insuperato di fasto e ricercatezza: un altro modo di affermare la cultura del passato quale perenne fonte di ispirazione e termine di confronto.
Se questa, tanto ricca di edifici di nobile aspetto, era la Girgenti religiosa e per così dire istituzionale, non è per nulla facile rintracciare la Girgenti civile, quella delle abitazioni private, quanto meno dei signori ricchi proprietari terrieri nell’ambito della società feudale capeggiata dai Chiaramonte. A chi si avventuri su per le salite che portano lentamente alla sommità del Colle su cui svetta la poderosa mole della Cattedrale appare quasi all’improvviso il ricamo di qualche finestra gotica come nell’affaccio peraltro gravemente degradato della cosiddetta Casa Filippazzo, le cui bifore in ogni modo maltrattate o trascurate sono state private perfino della colonnina centrale.
Anche questa facciatina, unico segno sopravvissuto di edifici destinati a uso privato nel cuore stesso della città antica, viene di solito assegnata a epoca chiaramontana, pur se incerti ne sono i caratteri, coi robusti lineamenti dei più espressivi prodotti di quell’arte, come si vedono in S.Spirito o in S.Giorgio, ma con qualche più sottile intenzione, per esempio nei quadrilobi inscritti negli archi ogivali, forse di altrimenti inspiegata origine veneziana, come d’altra parte lo sgusciante profilo degli archi sulla facciata meridionale della grande torre della Cattedrale racchiudenti stemmi vescovili, che può rammentare anch’esso le finezze dell’architettura tardo-gotica sulla lontana laguna.
A cercare bene nelle viuzze e nei rari “piani”, che qua e là interrompono la fatica del salire, non è però improbabile che altre strutture gotiche si ritrovino celate dietro i tamponamenti o nelle profonde modificazioni di altre case trecentesche coinvolte nelle ordinarie vicende che le hanno rese irriconoscibili.
Ma in prima fila sta naturalmente il palazzo dove risiedeva la famiglia feudale, lo Steri chiaramontano, costruito, come s’è visto, di fronte alla Cattedrale, su un’area in precedenza occupata da piccole fabbriche di proprietà della chiesa, alla quale in seguito furono in sostanza restituite, con gli interessi, quando lo Steri diventò la sede del Seminario vescovile che tuttora lo detiene.
La mole doveva senza dubbio essere minore rispetto all’attuale Seminario, e non è, pur sotto le aggiunte e le modifiche, del tutto impossibile riconoscere le parti originali dell’edificio chiaramontano, del quale qua e là, grazie anche alla cura con cui infine lodevolmente si procede, si restituiscono alla luce con paziente lavoro di restauro strutture e ornati già nascosti dagli interventi successivi.
Se da una parte affiora un capitello contraddistinto dallo stemma dei Cinque monti appartenente alla famiglia prima proprietaria dell’edificio, da un’altra si mette a nudo una volta costolonata di grande suggestione. L’apparato lapideo vi compare nudo d’intonaco ma rivestito della perfezione del commesso che s’ispira, sia pure in proporzioni molto modeste, al grande esempio dei nobili avanzi giù nella Valle.
Non è il caso di far paragoni col fasto della dimora palermitana, la cui Sala Magna tra l’altro doveva dichiarare attraverso la decorazione dipinta tutta la potenza della nobiltà feudale siciliana, di quella classe baronale che in quel momento contendeva il potere allo stesso re.
Non sappiamo quale potesse essere l’apparato onorevole dello Steri agrigentino, ma non c’è dubbio che qui le ambizioni erano più limitate, non c’era alcun motivo di aprire una contesa con l’episcopio, unico rivale vicino in vetta allo stesso Colle. Bastava che il nido fosse sicuro e consentisse alla famiglia di apporre il suo stemma anche sulle più piccole manifestazioni del suo potere, perfino sui prodotti delle officine ceramiche donde uscivano dalle mani degli artigiani modeste stoviglie che però esibivano anch’esse i cinque monti racchiusi in una griffe che sembra uscita dall’atelier di un designer dei nostri giorni.
E quella griffe, anche se da qualche specialista non è stata riconosciuta, si ritrova anche, come ho potuto personalmente accertare durante gli scavi delle fornaci medioevali in contrada S.Lucia, sotto lo smalto lucente delle stoviglie di maiolica, la cui produzione pertanto proseguì anche in epoca chiaramontana, né poteva essere diversamente, considerata la floridezza economica attestata dai numerosi e importanti monumenti di quel tempo.
Mi sono state di grande utilità per la redazione della presente nota le ricerche di mia sorella (Maria T.Bernini, Il Monastero di Santo Spirito nell’architettura agrigentina all’epoca dei Chiaramonte, Firenze e Agrigento 1974) e di mia nipote (Donatella Mangione, Lo sviluppo urbanistico di Agrigento dai documenti medioevali, Agrigento 1999).
fonte rivista “Agrigentini a Roma e altrove”
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CHIARAMONTE. — Famiglia di origine francese, discesa da Carlo Magno. Un ramo dalla Sicilia passò in Bari. Ha goduto nobiltà in Napoli fuori Seggio, Palermo , Girgenti, Modica e Ragusa. I Chiaromontani formarono un partito fortissimo contro Federico III d’Aragona Re di Sicilia dal quale furono sconfitti.— Monumenti: Napoli Chiesa di S. Pietro ‘Martire, Palermo nelle Chiese di S. Francesco, di S. Domenico e di S. Nicolò la Clausa ed in Copertino. —
Baronie: Aidone, Alcamo, Asti, Bivona, Caccamo, Comitini, Diana di Cefalù, Favara, Gerbi, Girgenti, Guidomandri, Mussomeli, Nicosia, Ragusa, Sanfilippo, Santangelo Musciaco, Santostefano, Scicli, Siculiana, Quisquina, Sternazia, Terranova, Vicari, Zullino.— Contee: Calatabiano, Chiaromonte, Comiso, Copertino, Moach, Modica, Ragalmuto.— Parentele: Alagona, Balzo (del), Bonanno, Capua (di), Caracciolo, Carretto (del), Clairmont, Filangieri, Gonzaga, Orioles, Palizzi, Peralta, de Raho, Rossi, Sanseverino, Statella, Ventimiglia— Autori:
Anonimo Cassinese, Barellas, Baronio, Beatillo, Buonfiglio, Capaccio, Cannizzaro, Galluppi (Arm. ital.), di Giovanni, Engenio, Escolano, Fazzello, Ferrario, Infantino, Inveges, Leontino, Lombardi, Lumaga, Maurolico, Mugnos, Pacicchelli, Palizzolo, Panvinio, de Pietri, Recco, Sacco, de Simone, Ughelli, Villabianca. — Berlingiero fu armato Cavaliere da Re Ruggiero. Manfredi Gran Siniscalco di Sicilia nel 1269. Roberto fu compagno di Boemondo in Terrasanta, con Ruggiero Guarino, Oliviero di Monterone, Riccardo Sambiase. Nicolò Cardinale
nel 1220. Enrico Straticò di Messina nel 1292. Manfredi Conte di Modica edificò il Cenobio di S. Maria degli Angeli, fu Grande Almirante, Gran Contestabile, Gran Giustiziere, Gran Cancelliere e Viceré di Sicilia nel 1369. Filippo Straticò di Messina nel 1384. Antonio sposò Tommaso Paleologo, Despota di Morea e fratello di Costantino Imperatore di Costaninopoli. Costanza fu moglie di Re Ladislao, ed in seconde nozze di Andrea di Capua. Isabella sposò il Re Ferdinando I d Aragona, fu sepolta nella Chiesa di S. Pietro Martire. Francesco Cardinale nel 1503. Giovanni Gran Siniscalco e Gran Maresciallo di Sicilia. Simone Gran
Siniscalco di Sicilia nel 1351. Matteo Grande Almirante di Sicilia nel 1364. Andrea Grande Almirante di Sicilia nel 1391. Manfredo Settimo Conte di Modica, edificò la terra di Mussomeli. Barnaba , morto il Papa Pio VI, detronizzato dalle orde francesi nel 1799, ascese al Soglio Pontificio col nome di Pio VII. —
Armi: i° Spaccato: nel i° di rosso al monte di argento a cinque cime; nel 2° di argento pieno.—2° Ramo di Cesena: Di azzurro alla banda di argento caricata da tre teste di moro al naturale tortigliate d’argento, costeggiate da sei stelle di oro.—3 0 Fasciato di argento e di rosso.—
Questa famiglia alla quale si appartenne anche il famoso Rinaldo si estinse in Margherita che sposò Giacomo Sanseverino Conte di Tricarico figliuolo di Tommaso Conte di Marsico verso la metà del secolo XVI.