Usciti dal borgo di Rabbato, prossimi ai dirupi e negli anfratti sotto il costone ad ovest ed a nord della città, si annidavano numerosi «chiusi» o «mannari» (ovili) dove, durante la notte venivano raccolte le mandrie di pecore e di capre (di queste ultime erano famosi gli allevamenti della razza «girgentina», importata dagli arabi, di mantello bianco sporco, coma vistose a forma di cavatappi, produttrice di lana e carne di buona qualità e di un gustoso e leggero latte). Tutti questi ovini, durante lo stazzo, restavano sotto la custodia di cani e di pastori che passavano la notte all’addiaccio.
Data la grande quantità, del resto non sarebbe stato possibile nè igienico ricoverarli in città. Tanto non avveniva, invece, per gli animali da soma o da tiro e per le piccole quantità di ovini, che venivano ricoverati in scuderie e stalle, qualora il proprietario ne avesse possedute. Presso la povera gente non era raro il caso che gli abitanti della casa dividessero l’ambiente unico (catoio) con le bestie, necessarie alla loro sopravvivenza.
In tal caso, il vano veniva diviso in due parti mediante una coperta stesa su una corda oppure con dei mobili disposti allineati.
Ci stiamo riferendo ai catoj erano ristrette abitazioni presenti in gran parte della città di Agrigento e soprattutto nel quartiere Rabato, che sorge nel pendio estremo occidentale della collina su cui poggia la città.
Secondo la tradizione qui nel nono secolo gli arabi scavarono nella viva roccia molte abitazioni troglodite, che del 15º secolo in poi andarono modificandosi in più salde strutture murate, i cosiddetti Casalini. Accanto ad essi sorgevano altre abitazioni delle umili classi della città, per esempio. I catoj.
Si tratta di un genere di abitazione così descritta dalle Pitrè: “ il catoju e il tipo classico di abitazione cittadina, dove allatto e sopra l’uscio di entrata una finestra da luce ed aria alla stanza allorché quello è chiuso. Letto, tavolo da mangiare, da lavorare, da riporvi ogni cosa che non abbia posto, col suo cassetto contenente cucchiai di ferro, qualche volta di legno, forchette, coltelli, vi figurano insieme con un canterano (quale ne abbia), alto, con cassettoni per la biancheria e qualche veste di famiglia, sul quale luccicano delle chicchere, coperte, da settembre in giù per tutto l’autunno, da mele, o melacotogne, o melagrane, in attesa di maturità e con la prospettiva di un po’ di odore.
(…) Dalle pareti pendono qualche volta quattro (non più ne meno) cornici con pianci, immagini, stampe rappresentanti scene diverse. V’è il pozzo per l’acqua sorgiva, o la cannella (cannolu) per l’acqua corrente; e sotto, una pila in muratura, o in ardesia, o il legno per il bucato e per altri usi; (…) Un focolare in pietra, con relativa grandetta (gratella) per il carbone acceso da accendere, guardato dalle stoviglie indispensabili (le famiglie meno disagiate hanno utensili di cucina in rame pulito e lucente), non di rado profumato dal jettitu, o nicissariu, o aciu sottostante” (Giuseppe Pitrè, la famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, Palermo 1913).
Nei catoj talvolta il pianterreno ha il susu, cioè il piano superiore con un balcone a ringhiera. Quasi sempre vengono ospitati anche animali. L’angustia di spazio è la mancanza d’aria spiegano perché molti stiano per gran parte la giornata all’aperto, anche per lavorare (la luce dentro casa e pur essa è insufficiente).
Numerosissimi erano i catoi di Rabbato, S. Michele e Ravanusella che ospitavano, oltre il somaro (che serviva al contadino per recarsi al lavoro nei campi) anche la capra, la pecorella, numerose galline, il cane ed il gatto. In tali zone abbondavano i fondaci, scuderie e stalle con bovini ed equini. Prima del tramonto del sole chi stava a lavorare fuori città aveva interesse di rientrarvi per mettere al sicuro sé stesso e la bestia col proprio carico che, qualche volta era di attrezzi da lavoro e qualche fascina di ramaglie o di sterpi.
Nelle zone periferiche, alte e basse, lungo le mura e spesso attorno alle chiese, si drizzavano casupole, veri tuguri, per la povera gente, dove in un solo ambiente vivevano famiglie composte di molte persone. Capitava che parte del locale spesso venisse adoperato come posto di lavoro: ciabattino, maniscalco, barbiere o come bottega. In queste zone, specie a Ravanusella, ricca di viuzze e scalinate, poiché era molta vicina al Cassaro, si trovavano numerose bettole, ove si praticavano commerci equivoci c s’incontravano persone poco raccomandabili. Le strade erano maltenute; in qualche tratto sconnesse, mentre in altri posti, anziché delle scalinate, esistevano rampe di accesso. Dei rigagnoli di liquido, di dubbia natura, scorrevano creando delle pozzanghere. La pulizia e l’igiene erano molto carenti in tali località della città, sia per la mancanza di una rete fognante razionale, sia per la promiscuità con animali e la vicinanza di scuderie, stalle e fondaci, sia infine, per il transito frequente e lo stazionamento di bestie, i cui escrementi sporcavano la zona.
La miseria e la sporcizia regnavano in questo quartiere dove circa ottomila anime, in prevalenza contadini, sopravvivevano stipate in misere case (catodi) zeppe e affollate anche di animali: testimonianze in questo senso vengono da due lettere scritte ai giornali “Rupe Atenea” e “La Scopa”.
Estratto dalla Rupe Atenea del 12 agosto 1873: “Pulizia al quartiere S.Croce del Rabatello”: “Aumento dei facchini ed ordini severi e perentori han prodotto maggiori alacrità nel mantenimento della pulizia in talune strade. Qualche cosa ne han perfino risentito la strada Atenea, sezione Rabato, battezzata nelle carte via Garibaldi. Ma nelle svariate vie e vicoletti e piazzette e cortili al di sopra della Chiesa S.Croce si è visto poco, pochissimo, quasi nulla addirittura.
Molti e gravi inconvenienti, immense materie sporche accumulate, insoffribile il fetore, strade assolutamente impraticabili, urgente deve esser l’opera del municipio per riparare prevenire danni maggiori (…) la salita. Per dirne una, Santa Marta ha la piacevole pendenza di 50% circa sopra il suolo di pura argilla ! Figurarsi quando piove o quando vi si getta un pò d’acqua! Il passarvi diventa qualche cosa come la salita di un trave zavorrato alla festa della cuccagna! E l’ umanità, è – carità di patria – non osiamo parlare di doveri civici – il pensarci un tantino seriamente, oh!, che non vi abita forse gente cristiana anche colà? (…)
Da “La Scopa” del 12 agosto 1917: Rabato in abbandono.
“In tutti i tempi, e molto più in estate si è lamentata sempre una grande penuria d’acqua nel povero Rabato, dove ben ottomila abitanti son costretti a dissetarsi con le sole quattro fontanelle che quasi ogni giorno scorrono lentamente per la durata di circa un’ora. Ciascuno quindi immagini il desolante spettacolo di vedere centinaia di persone che si affollano, si pigiano, si rissano con la speranza di attingere un po’ d’acqua almeno per il più stretto uso domestico, e che la maggior parte ritorna poi con i loro recipienti vuoti imprecando contro i signori dell’amministrazione comunale che li tengono assetati (…).
Oh! Si ricordi il signor pro sindaco dei tanti reclami privati e collettivi a lui presentati su tal riguardo; si ricordi delle tante promesse fatte da lui agli amici; si ricordi che anche i cittadini di Rabato pagano anche essi tasse e balzelli e quindi, come gli altri, han diritto di ripetere: Da aquam, ut bibam.
L’acqua invece di venderla e darla per la coltura dei giardini privati si dia piuttosto egualmente a tutti i cittadini, i quali sono stanchi del Surdo Canamus.”
Il Surdo Canamus di cui parla la lettera di protesta, è una peculiare espressione di indignazione per la condizione socio-economica e per la penosa situazione igienica in cui versava il quartiere.
Elio Di Bella