Luigi Pirandello volle essere poeta meglio che narratore o critico letterario nei suoi anni di preparazione, che possono bene aver termine nel 1900, quando diede i primi racconti con la particolare bellezza della sua arte.
Incomincia infatti la vita letteraria con Mal Giocondo nel 1889, un libro di versi, e nel decennio successivo i versi prevalgono, nell’elenco degli scritti; di contro lo smilzo volume narrativo Amori senza amore del 1894 e la novella Vexilla regis, pubblicata in opuscolo nel 1897, Pasqua di Gea , il secondo libro di versi, del 1891, il poemetto Pier Gudrò del 1894, le Elegie Renane sono del 1895, la versione delle Elegie romane di Goethe apparve nel 1896, e sono ancora da aggiungere la commedia in versi Scamandro, alcune liriche d’un libro che avrebbe avuto per titolo Belfagor (presentò quest’opera Luigi Capuana sul quotidiano “ Roma „ il 16 settembre del 1896), altre, più numerose, d’una raccolta chiamata Labirinto, che doveva essere composta di cinque libri e un “Intermezzo”.
E Pirandello, ancora dopo la pubblicazione di Zampogna (1901), insistette nel ripubblicare gli antichi versi, emendati o rifatti, nel pubblicarne altri nuovi: aveva già ritrovato la sua via, ma l’illusione o la speranza di esprimersi meglio e più intensamente nei versi non gli venne mai meno, se poté dimenticare alcune sue novelle, ma non dimenticò mai sino agli ultimi anni della vita le liriche giovanili edite dai periodici letterari di Firenze e di Roma.
In Mal giocondo salta subito agli occhi l’imitazione formale delle Odi Barbare e del paganesimo carducciano. Di certo Pirandello, come tutti della sua generazione, ammirò e studiò l’opera del Carducci, del nuovo dittatore della nostra letteratura, pugnace e ringhioso, successo al mite e scrupoloso Manzoni.
In un voto dei letterati italiani promosso nel 1902 dalla rivista milanese “ Natura ed Arte „ Pirandello giudicò Leopardi il più grande dei poeti italiani del sec. XIX, ma disse Carducci preferito fra i poeti dello stesso secolo e viventi: aggiunse, infine, Arrigo Heine come lo scrittore straniero che più pareva commosso.
Curioso che nella stessa occasione il giudizio di Alfredo Panzini coincise, poeta per poeta, con questo di Pirandello: anche Panzini mise Leopardi su tutti i poeti, sui viventi il Carducci, e Heine sugli stranieri
Ma il paganesimo di Mal giocondo è inspirato meno da Carducci e dai poeti parnassiani che dalla presenza, nella vita del giovane poeta siciliano, dei solitari templi agrigentini e del mare in cui nacque Venere Ericina: “mar che mi desti prime lo stupor delle grandi visioni serene”, lo invoca infatti nel IV del Romanzi.
Il tempio della Concordia sull’altopiano di Agrigento e il mare che bagna la costa di Drepano sulla quale s’innalza Erice, gli risuscitano la visione di una remota età felice degli uomini, e di una terra beata, alla quale è rivolta la sua fantasia commossa da un ritmo di Callimaco o da un canto di Alceo o di Saffo.
Però il rasserenamento dell’animo nella contemplazione della bellezza della vita ellenica non è uno stato conclusivo del poeta, non è il suo affetto dominante.
L’avere l’odio e il disprezzo del tempo presente hanno a volte un grido che assorda invece di commuovere; a volte sembra che il giovane poeta sia tutto inteso al rombo ancor lontano della ventura età, vittoriosa e forte, dinanzi alla quale la bellezza antica impallidirà in un tramonto inevitabile.
Gli affetti rimangono in contrasto e confusi: torbidi insomma, al verseggiatore, che pure è abile artefice di metri e di una lingua colta e di studio. Manca in questo primo libro e mancherà sempre in tutti gli altri suoi libri di versi, il dono vero del poeta, ossia il dominio dei propri affetti, il distacco da essi, e il raccoglimento in un sentimento che trascende ciò che è effimero e spetta all’individuo mortale.
Un fiero turbine, dice il Pirandello nella prima lirica, forse con l’intenzione di porre innanzi un sentimento prevalente nell’opera, un fiero turbine incalza l’antico genio e acremente lo respinge fuor della vita.
Al suo soffio gagliardo già crollano le chiese e le regge, e l’onda soverchiatrice del popolo, consapevole finalmente della propria forza e reclamante il proprio diritto alla vita, spezza e abbatte ogni ostacolo. Indole, inganni e le favole antiche son già spogliati dalla nuova dea, la scienza, che scruta ostinata il vero. Per lei il mondo ha cangiato l’antica vista e intensa agli uomini ride e più varia la vita: leggi più eque correggono le genti, i commerci s’attivano, s’accendono le industrie.
Invece nei Romanzi IV e XV il poeta si rappresenta nell’atto di spingersi furioso nell’onda marina, là dove fu il porto greco di Agrigento, quasi a detergersi dal fango della vile età in cui ha la cattiva sorte di vivere: non è più l’onda del popolo né la nuova dea, non ci sono più le leggi eque, i commerci attivi, la vita tutta degli uomini più intensa e varia, né l’onda fredda ad obliare il mal triste di vivere, mentre il volgo trionfa e il culto muore con la bellezza eterna, divin nostro ideale.
Un pastore che cantilena tra le colonne del tempio della Concordia, monotono e indifferente, gli diviene simbolo di tutto un popolo che rinunzia ai “ sacri ideali che fanno forti le patrie”.
Ma da più liriche delle prime parti di Mal giocondo (quanto più gli manca un’ispirazione armoniosa, tanto più Pirandello ricorre agli aggruppamenti delle poesie, a titoli e sottotitoli delle varie parti) si forma un’immagine composita d’un giovane ardente che si spinge a nuoto nel mare o vola o corre o naviga o cavalca a gran giornate a un suo paese ideale, a una sua terra di sogni, a una sirena che riappare vicina e mentre si tocca sparisce lontanissima e muta; un giovane or ebbro ora stanco, or illuso e fidente e con viso assorto, or disincantato e sarcastico e amaro,
O paese dei sogni, . . .
a te, lontano, io volo, a te mi sprona
necessità d’oblio, sete d’amor.
Che van tu sia, lo so; ti cerco in vano;
So che già mai non giungere il mio fin,
ma in questo mio fuggir sdegnoso e strano
sprezzo la vita, irrisa dal destin.
(Romanzi, IX)
Oh verso qual mai lido
…. la vaga
mia anima naviga incerta?
Innanzi innanzi il mare
di palpiti lucido tremola,
l’agile nave fende
il cerulo piano de l’acque ….
(. Romanzi , VI)
Come tenace auriga antico ….
i freni allenta . . . e va, che par saetta ; . . .
tale il teso a fuggire interno duolo,
sciolto a la fantasia l’ala gioconda,
pe ‘l fantastico ciel mi caccio a volo.
(Romanzi, I)
Dolore, disperazione, sarcasmo amaro sui sogni infranti e su la verità nemica, dubbi e tormenti del pensiero indagante il mistero dell’universo, si quietano soltanto nell’amore e per l’amore.
Amate, amate, amate,
né mai, tranne l’amore, altro tesoro
su me grama cercate.
E il poeta sente per suo conto venirgli dall’amore una sana fortezza, una gentile serenità di pace, una vaghezza “ di quanto è bello al mondo e giovanile stato d’animo in cui si presentano le prime punte contro il cristianesimo, che diverranno spesse e minacciose in Pasqua di Gea .
Sia pur la terra di miserie plena,
amo la terra, e a lei forte mi lego,
e questo amore non mi da mai pena.
Ogni fede per lui vana rinnego,
che l’uomo annienti e da lui dio escluda :
viltà, la fede . . . .
(Intermezzo lieto III)
Se l’amore manca, par che soccorra una sorta di persuasione stoica ad agire egualmente e a lottare, a perdersi nell’azione, benché non ci attende altro che il nulla e la morte, e si sa bene che l’ideale, a cui si muove, non si raggiunge mai.
Pure, in un altro momento, si ode spirare il vento gagliardo di una vita nuova, e nella sua voce parlano a darci conforto i nostri eredi venturi,
“ e son diffuse idee per l’etere vivente
pria ancor che salde sieno persone.”
che ci fanno intendere come ogni lotta nostra e ogni affanno non siano stati invano.
I sentimenti, sin qui raccolti, non si ritrovano in liriche compiute e perfette, e non continueranno, approfonditi e più vivi, nell’ opera della maturità.
Le poche liriche compiute di Mal Giocondo non hanno vera relazione con essi “La Serenata ad Allegra” è di una freschezza maliziosa, di una sensualità aperta ma sana, e fa venire in mente l’ode scritta da Pirandello venti o trenta anni dopo “ La caccia di Domiziano”, lodata giustamente dai lettori di quel tempo come una bella cosa, non ha che la chiusa con intenzione umoristica: forte è l’incisione di Domiziano calvo e ghignante, che infilza con un ago le mosche che gli vengono a tiro, mentre da loro i nomi dei senatori che gli congiurano contro e farà tutti morire.
Ricordo ancor a “La pioggia benedetta”, descrittiva ma con alcuni particolari potenti; e la prima lirica d’ Intermezzo lieto (“ Naviga lenta pel silenzi arcani „), in cui l’inquieta anima umana s’agita su la breve terra, perduta nell’immensità dei cieli, come il mare non ha posa nel cerchio dell’orizzonte illuminato dalla luna serena.
II sentimento anticristiano e dominante in Pasqua di Gea: acre e profondo, sembra spontaneo anzi che dovuto a un gusto letterario e d’imitazione. Pure, più che del Carducci, vi si sente l’eco della poesia paganeggiante del Quattrocento, dei canti carnascialeschi e dei canti di goliardia, in quegli anni intorno al 1890 in cui i poeti italiani, maggiori e minori, rifacevano le forme metriche dei primi secoli con sapiente dottrina e gareggiavano in varietà di rime e di ritmi
Pasqua di Gea, annunziata nel VII Romanzo di Mal Giocondo, e la Primavera, un invito ardente a godere con la giovinezza le gioie dell’amore e le cose belle della natura, via dai freddi templi tenebrosi alla gran luce di maggio, al sole caldo, lungo le prode fiorite, nel bosco segreto dove si sperdono liete le coppie d’amanti !
Che importa se i sogni sono impossibili, e vane larve le generose illusioni ! La fronte del giovine sia pur lieta e sia luminoso il suo sguardo, e le speranze, impossibili ma ridenti, siano salutate col bicchiere levato.
Chi è incapace di obliare i propri dolori con la medicina del tempo, di perdersi nel fascinoso labirinto dei sogni, muoia pure e finisca di dar noia agli altri viventi.
Leopardi vien messo in soffitta, e il cristianesimo riseppellito con leggerezza affettata insieme con il suo fondatore crocifisso. Tuttavia su le immagini ironiche o gioconde, principalmente di vecchie uggiose, risaltano due liriche che vorrei definire piene di religione: la settima, (“ O gloriosa pace „), per l’arcana preghiera che manda al cielo la terra nella pace assolata del giorno di maggio, e la ventunesima (“ O notte, o sacra notte „), per l’assorta contemplazione del mistero che si sente di là dall’apparenza stellare.
Religioso or io son fatto
e uno sgomento
strano da te mi viene,
da la tua pace immensa,
dal tuo silenzio enorme.
Piu nulla in cuor mi sento,
nulla la mente pensa
e nella meraviglia
di questa insolit’ ora,
Calma che pur non crede
a nume alcuno,
cede al tuo potere e adora.
Religiose per il contenuto, queste due liriche, ma difettose alla pari delle altre quanto allo stile è prova manifesta che i versi non eran fatti per il giovane Pirandello, aggettivi logori e generici — strano, immensa, enorme — si ritrovano nel passo su ricordato in compagnia di un’anticaglia dura quale l’apostrofo di “ insolit’ ora”, adagiati nella cantilena dei settenari.
Da Bonn con i versi di Pasqua di Gea, lo studente di filologia romanza mandò pure la sua prima novella che si conosca, “La ricca”, pubblicata su “ La tavola rotonda „ di Napoli nel numero del 13 novembre del 1892; in essa si avverte la conoscenza di altri scrittori, Luigi Capuana più che Giovanni Verga, se si considera il numero degli scritti pubblicati sul fiorentino “Marzocco „ nei suoi primi anni di vita, Pirandello dovrebbe esser detto un marzocchista.
In fatto la prima rivista in cui Mai giocondo ha recensito dal Gargano con benevolenza amichevole e in cui vennero pubblicati i primi scritti letterari del Pirandello, e la fiorentina “Vita Nuova „ , vissuta dal 1889 al 1891, gloriosa per aver dato gran parte delle Myricae nelle sue colonne. Il gruppo dei redattori — Angiolo Orvieto, Diego Garoglio, Giuseppe Saverio Gargano, Pietro Mastri, Giuseppe Andrea Fabris — dopo la breve parentesi nel 1893 di un mensile “ Nazione letteraria „ , fondo “ Il Marzocco „ nel 1896.
Il quale fu un periodico principalmente pascoliano, benché difese ed esaltò pure il D’Annunzio, non solo per avere accolto gran numero di poesie e di prose del poeta di Castelvecchio, ma anche per averne seguito lo svolgimento dell’opera con ammirazione incondizionata, con amorosa intelligenza, e con appassionata difesa contro i detrattori e gli avversi, Pascoli e D’Annunzio per Il “Marzocco ,, furono i vessilliferi del simbolismo, del neo-spiritualismo o del neo- idealismo nella battaglia contro il naturalismo da una parte, e contro la filosofia positiva o la filosofia materiale dall’altra.
La polemica contro il naturalismo (adesso si dice a tutto spiano verismo „ , ma Ferdinando Martini giudicò questo vocabolo un doppione, che i Francesi dissero di non averci dato) portava di conseguenza il disprezzo della letteratura chiamata milanese, accusata di essere scritta male e priva di stile: al Rovetta e al De Roberto e al De Marchi, poniamo, e al Butti e al Praga, a Sabatino Lopez e a Roberto Bracco, ai due Antona-Traversi, agli scrittori insomma, edita dai librai Gallo e Treves e amici dei maggiori giornalisti di Milano e di Torino, si ponevano contro le nuove liriche e le nuove narrazioni di Enrico Corradini e di Ugo Ojetti, di Domenico Tumiati e di Cosimo Giorgieri Contri, di Luciano Zuccoli e di Giuseppe Lipparini.
D’ Annunzio dava il la ai seguaci con “Le Vergini” e “II fuoco”, con “La città morta” e “La Gioconda”, e rivestiva d’estetismo anche la vita politica. Pascoli, pur con apparenza di umile e di amante del silenzio, gli teneva bordone avvolgendosi a mano a mano nei simboli.
La quercia Carducci prosperava ancora solitaria e gigante su dal sottobosco dei verseggiatori suoi amici, ammirati in perpetuo, bolognesi e fiorentini e romani: a Roma, a Firenze, a Bologna per degli anni ancora dopo il 1890 i fogli periodici d’ogni genere furono in gran parte carducciani.
Se Guido Fortebracci avventerà i suoi primi strali contro la poesia carducciana su la romana “ Tribuna illustrata „ nel 1891, metterà veramente a rumore il campo dei letterati solo nel 1896 riprendendo la polemica su la milanese “Gazzetta letteraria „ ; e su la medesima “Gazzetta,, , nel medesimo anno 1896, Enrico Thovez attaccherà il D’Annunzio imputandolo di numerosi plagi o furti in danno di vari poeti e romanzieri francesi contemporanei.
Perduto in mezzo ai letterati milanesi, il dott. Alfredo Panzini difendeva il maestro dai fischi degli studenti di Bologna con il libro intitolato “Evoluzione” di Giosue Carducci: e in mezzo ai dannunziani Ugo Ojetti, che la giovinezza non può scusare del tutto per la petulanza uggiosa con cui settimanalmente appariva in tre o quattro periodici diversi, poeta e narratore, critico letterario e critico d’arte, scrittore di viaggi e scrittore teatrale, filosofo estetico e filosofo grammatico (precursore dei Papini e dei Borgese, similmente rumorosi soprattutto nel decennio successivo), Ugo Ojetti attaccò aspramente il teatro di Giovanni Verga, dando origine a una polemica con Luigi Capuana, nella quale, secondo il solito del nostro paese, ricco di uomini pronti alla rissa e alia sopraffazione verbale, l’urbanità prima si rimise il cappello in capo e prese la via dell’uscio, poi dileguò inosservata.
In tali contrasti Luigi Pirandello non si ritrova di certo fra gli stamburatoli del Carducci, o fra i dannunziano-pascoliani. Il decadentismo e già irriso in più liriche di Mal Giocondo .
L’aver collaborato a “Vita Nuova „ , “ La Nazione letteraria ,, e “ Marzocco „ , l’essere amico dei marzocchisti, forse presentato loro da Ugo Fleres, non lo fa per nulla compagno di lotta e di fede letteraria di Angiolo Orvieto o di Ugo Ojetti, di Enrico Corradini e di Francesco Saverio Gargano. Anzi, di natura diversa come era, aveva già urtato contro uno scrittore del gruppo fiorentino.
Pirandello dalla lettura del Mastro don Gesualdo fu indotto a scrivere l’articolo “Prosa moderna”, pubblicato su “ Vita Nova „ del 5 ottobre 1890. “Ogni scrittore italiano – vi asserisce – scrive quasi esclusivamente per se. La nostra prosa non è viva, non è amabile; le manca ciò che solamente può darle anima, la spontaneità …. Se tradizione letteraria ha mai fatto impedimento al libero sviluppo d’una lingua, questa è l’italiana. La lingua nostra in realtà esiste soltanto nell’opera scritta, nel campo della letteratura. Un gran numero di parole, che nella lotta per l’esistenza sarebbero cadute, hanno avuto in essa e per essa la loro forza di resistenza e ora costituiscono una sovrabbondanza , che non è ricchezza ma, come ogni eccesso, vizio; e generano confusione e mancanze di sicurezza nella scelta …. Dove trovarla, la lingua ? Si parla e si vuol parlare nelle scuole e si trova nei libri”.
A questo scritto rispose Pietro Mastri: “La solita questione della lingua” (“ Vita Nuova „ n. 43 del 26 di ottobre del 1890). La lingua italiana, egli sostiene, è quella che si parla in tutta Toscana. Non esiste un dialetto fiorentino o toscano nel senso d’un linguaggio particolare che si differenzia dalla lingua generale. La differenza tra la lingua parlata in Toscana e la lingua letteraria, che sola il Pirandello vuol dire italiana, consiste in una minore ricchezza e varietà di vocaboli, e una peggiore pronunzia.
Tirate le somme la questione per il Pirandello era sempre nei termini in cui l’aveva posta il Manzoni, per il Mastri era inesistente, come insegnava il Carducci. L’eccesso dell’ultima tesi importa che i non Toscani debbono apprendere la lingua italiana o andando a vivere in quella regione o studiandola sui libri scritti soltanto da nativi di essa: tutta l’Italia deve farsi Toscana per parlare italiano e per scriverlo.
Non manca di rilevare questo Pirandello nella sua risposta pubblicata sul fascicolo 45 di “ Vita Nuova „ (9 novembre 1890), pur scaraventando addosso al Mastri “ II proemio „ dell’ Ascoli, e la prefazione del Meyer Lincke, e l’esempio della lingua tedesca viva senza che appartenga a una determinata regione della Germania.
Il Mastri era uno scrittore senza filosofia e un poeta carducciano certo di possedere la lingua Italiana; il Pirandello era un narratore in nuce che sentiva poca e insufficiente la lingua, con cui aveva scritto Mal Giocondo e Pasqua di Gea per rappresentare con immediatezza i suoi personaggi; la prosa carducciana non gli serviva, e la prosa dannunziana era ben lontana dall’ideale della spontaneità e dell’immediatezza, che invece gli proponeva Giovanni Verga, lo scrittore che quasi tutti giudicavano, secondo i principii del Mastri, sgrammaticato, macchiato d’idiotismi, impuro e senza stile.
Si spiega quindi che ii Pirandello negli anni del 1890 al 1900, in cui maturava la propria personalità, vinse facilmente il fascino della meteora dannunziana che tendeva a illuminare il cielo della letteratura soltanto di sé, e faceva impallidire a poco a poco ogni altra fonte di luce.
Si sa che lui e un gruppo di scrittori unici – Ugo Fleres, Giuseppe Mantica, Tommaso Gnoli, Italo Mario Palmarini – costituirono nel 1898 un cenacolo letterario di avversi al dannunzismo che imperversava, alle forme gonfie e paludate, all’affettazione, all’enfasi, al barocchismo allora di moda. E già dal 1895 il Pirandello aveva giudicato severamente il D’Annunzio a proposito delle “Vergini delle Rocce”. D’Annunzio scrittore del bello e Pirandello intendeva scrivere bene. La distinzione è spiegata in un saggio tardivo del 1918 pubblicato sul “Messaggero della domenica „ di Roma.
Scriver bello e far parlare i personaggi in una forma letteraria ossia con un linguaggio non parlato e per se stesso letterario: ed è letteratura, non arte. Scriver bene e far parlare i personaggi come debbono, date le loro nature, date le qualità e le condizioni dei vari momenti dell’azione: il linguaggio in tal caso e proprio del personaggio, del suo carattere, della sua passione, del suo gioco.
Scriver bene e quindi far parlare i personaggi come intese di farli parlare Verga, e variare lo stile secondo il soggetto della rappresentazione come intese di fare il Capuana.
Ma se Pirandello, per essere se stesso, si serbò indipendente dal Pascoli e dal D’Annunzio, non fu un imitatore pedissequo di Verga e di Capuana e un seguace delle teorie del naturalismo narrativo del 1880.
Di certo il Capuana gli fu amico in quegli anni, e i suoi insegnamenti molto giovarono allo scrittore giovane. Proprio dopo aver pubblicato le due summae narrative delle Paesane e delle Appassionate, che per sua disgrazia valsero a imbalsamarlo in una formula fissata una volta per sempre, Luigi Capuana diede il meglio della sua opera, che sono racconti densi e a scorci, e non le lunghe costruzioni dei romanzi, per cui gli difettava l’ispirazione, come difetta nella Sfinge e in Profumo, in Rassegnazione e nel Marchese di Roccaverdina e, prima, in Giacinta .
Ma sono anche gli anni in cui il Capuana decisamente respinge i principii del naturalismo zoliano, se mai ne fu veramente seguace, lui che da giovane s’era nutrito del Foscolo e del De Sanctis.
Pirandello sa che l’arte crea, e non imita soltanto la natura o la riproduce. La poetica del naturalismo confuse il fatto fisico con quello psichico e con l’estetico in tal maniera che il fatto estetico ebbe, considerato in astratto, lo stesso carattere di necessità meccanica del fatto fisico e la fisicità che gli è propria, difetti propri del metodo zoliano, sono l’angustia dell’ambiente, la mancanza di sentimenti elevati, la povertà d’anima dei personaggi, l’esteriorità della rappresentazione. Non si può imitare o riprodurre la vita qual è, perché non esiste una vita che stia da se.
Ogni uomo crea la propria vita, ma si tratta di una creazione soffocata, deformata, constrastata dalle necessità naturali e sociali, dalle rinunce che è costretto a fare, dai doveri che gli tocca accettare.
Solo l’arte crea liberamente, e la forma allora si muove spontanea e immediata, indipendente dalla volontà dell’artista e dai suoi scopi pratici, poichè non ha altro fine che in se stessa.
Si compie così la poetica propria del Pirandello, per la quale i personaggi sono esseri vivi più di quelli che veston panni, e la fantasia e uno strumento mediante il quale la natura prosegue l’opera della creazione. Noi siamo esseri vivi, afferma il dottor Fileno nella Tragedia d’un personaggio, più vivi di quelli che respirano e vestono panni ; forse meno reali, ma più veri !
Si nasce alla vita in tanti modi, e la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione.
E chi nasce mercè quell’attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d’una donna.
Questi concetti sono vicini, se non uguali, ai concetti della poetica di Luigi Capuana nell’ultimo periodo della sua opera, e sono lontani dalla poetica del naturalismo, che voleva una copia esatta di accadimenti privati fatta da un trascrittore con una sua obiettività, astratta dalla persona e dal suo spirito.
Ma quali forme germinarono prime nella fantasia creatrice di Pirandello e diedero vita a personaggi più vivi delle creature che respirano e vestono panni ?
In questo campo il narratore fu giudice severo e condannò all’oblio, oltre “La ricca”, che è del 1892, le tre novelle del volumetto “Amori senza amore”; la favola “I galletti del bottaio”, apparsa sul giornale dei bambini “ Cenerentola „ , diretto dal Capuana; “Il no di Anna” e “Il nido” , del 1895; “Natale sul Reno” e “Sogno di Natale”, tutte del 1896; “Le dodici lettere” e “La paura”, pubblicate nel 1897.
Nella raccolta delle novelle per un anno “In corpore vili” e “Visitare gli infermi”, “Sole e ombra”, “Il dottor Cimitero” con il nuovo titolo “Acqua e lì”, e ancora “Le tre carissime” , “Vexilla regis”, “Nonno Bauer” con il titolo “Il giardinetto lassù” .
Le prime narrazioni, sino al “No di Anna” che è del 1895 (rifatta in “ Lillina e Mita” e pubblicata nel 1906 su la “ Rivista di Roma „) hanno per tema gli amori e i fidanzamenti di alcune signorine di buona famiglia ma senza dote: amori a volte conclusi dopo patimenti e delusioni con le giuste nozze, a volte troncati da un inatteso rifiuto di un buon partito, da un no di donna improvviso e strano.
I giovani corteggiatori e innamorati soffrono a loro volta la penuria dei magri stipendi d’impiegati e non possono per ciò fare, soffrendone acerbamente, il gran passo del matrimonio. La scena è di solito nel salotto buono carico di ninnoli sui mobili pretenziosi e volgari, e i genitori della signorina corteggiata durante le visite a giorno fisso sono vecchi, già pensionato il padre, ma assai buoni e gentili e invitanti.
Lo scrittore prende sul serio questo suo piccolo mondo, lo rappresenta con molti particolari minuti senza saper cogliere soltanto gli essenziali, e si dilunga dalla diritta via.
“La ricca” è un racconto debole proprio nel suo punto centrale, ossia nel rifiuto di Giulia Montana, divenuta povera, di sposare Enrico Santagnese, con cui aveva fatto all’amore per una dozzina di anni alla lontana; vivo sufficientemente nelle parti di secondo piano, nelle critiche che le sorelle maritate muovono a Giulia a ogni buon partito che lei rifiuta o nella rappresentazione della casa dei Santagnese impoveriti.
Ma è notevole che il nuovo narratore siciliano tenta di dar forma a una borghesia di banchieri e di armatori, di grandi mercanti di zolfi e di fittavoli di miniere, a Palermo a Girgenti e a Porto Empedocle, diversa nei particolari e nel tutto insieme dalla borghesia di Mineo e di Vizzini e di Catania rappresentata nelle pagine di Verga, di Capuana e De Roberto.
Il tema del “Nido” fu ripreso nel dramma “Se non così” del 1916, che nel 1921 mutò titolo e divenne “La ragione degli altri”. La questione di un uomo diviso fra due donne, delle quali l’una, la moglie, è sterile, ma riamata con ardore dopo anni e anni di freddezza, l’ altra, l’ amante, gli ha dato una figlia, ma non e più amata o non è stata mai veramente amata, ha nella novella la stessa soluzione che nel dramma: inumana vorrei dire, se non fosse assurda per poter essere straziante. La madre e sacrificata, mentre l’uomo rimane con la moglie che ama, ricca per giunta, e con la figlia datagli da un’altra donna. Assurdo quanto si voglia, il sacrificio della madre è sentito dall’ autore come un giusto debito, e necessario in se stesso : di certo non per religiosa riverenza al Sacramento del matrimonio, piuttosto per rispetto della famiglia quale fondamento del vivere civile, e per un bisogno di fedeltà della donna all’uomo e viceversa connaturato con lo stesso amore.
Bisogno di fedeltà, si badi, quale sentimento e non quale dovere. Perché sin dallo scritto “La menzogna del sentimento nell’arte”, mandato da Bonn nel 1890 alla fiorentina “Vita Nuova „ , Pirandello afferma che il dovere rappresenta quasi sempre una menzogna del sentimento.
Ora è la religione, or la morale, or son le leggi, or la nostra stessa condizione, or la civiltà che impongono l’obbligo di fare o di non fare “L’amica delle mogli”: ripresa poi nel dramma dello stesso titolo, è una rappresentazione con linee incerte e colori usuali ma superiore, e di molto, alle altre due che le son compagne nel volume Amori senz’ amore. Mentre nel “Nido” ritrova qualche cosa di proprio, una questione di vita o di morte, la prima delle tante che comporranno il suo teatro; nell’Amica Pirandello intuisce in modo nuovo un’anima di donna, benché l’intuizione sia ancora terra terra, occulta fra le solite erbacce.
Pia Tolosani è senza dote e così gelosa della propria dignità da non manifestare mai un segno di simpatia a un giovane che frequenti il suo salotto e le faccia un po’ di corte: questo è ancora un dato economico, e importa poco. Piu importa che padrona di sé e chiusa nei propri affetti, Pia intimidisce i giovani che incominciano ad amare, li costringe a trarsi indietro, a trovare le mogli nei loro paesi natali, povere provinciali infagottate e impacciate che, messe a lato di lei, ne fanno risaltare la bellezza e l’interiore armonia.
Allora accade che gli stessi giovani riprendano ad amarla, con amara consapevolezza di un bene perduto per sempre, mentre la loro vita coniugale si spegne grigia nella monotonia quotidiana.
Ripeto, questa intuizione nella novella non è compiuta e non è netta; e l’antagonista, la nuova moglie che sdegna d’essere amica di Pia e le resiste e s’inalbera pure contro il marito, è accennata soltanto.
Il dramma, rappresentato la prima volta la sera del 28 aprile del 1927, non svolge il nucleo vivo della novella. Alle luci smorzate e ai toni minori di questa succedono le dissonanze e le luci violente della passione gelosa di Francesco Venzi, un erede del capuaniano marchese di Roccaverdina, perché discopre l’amore di Fausto e Pia prima ch’essi stessi ne abbiano coscienza, finga nei loro desideri ancora inconfessati e li fa divenire colpevoli, e finisce con l’uccidere a tradimento il rivale, però in modo che si possa credere a un suicidio.
II dramma nel tutto insieme ha un turgore grossolano e una passione più caparbia che dolorosa e compassionata, in cui sono perduti i mirabili germi seminati nelle due nuove figure di donna, Elena e Pia.
Con “L’amica delle mogli” e sopratturro con “Chi fa?” incomincia tra forme narrative usuali, di un mondo ancor breve e spesso ingenuo, un’arte nuova con una psicologia del profondo, fatta di lampi repentini fra mezze tinte crepuscolari, di rivelazioni subitanee: la psicologia della quale si trova in uno dei grandi maestri dell’ Ottocento Dostojevskij e nella nostra letteratura in uno dei narratori più potenti, Luigi Capuana: il Capuana delle novelle del Braccialetto e del Benefattore, di Delitto ideale e di Coscienze , di Fausto Bragia e di Figure intraviste.
“Chi fa ?” credo che non venne accolta fra le “Novelle per un anno” per la sua dipendenza manifesta dalle narrazioni capuaniane. Dico dipendenza e non imitazione, la quale riguarda la pura qualità letteraria, le parole e la loro disposizione, le immagini e la loro successione musicale. Pure la vita dell’uomo Capuana attrasse Pirandello: nel dramma “Vestire gli ignudi”, del 1922, il tema è tratto così da un fatto di cronaca dell’ agosto del 1895 come dai foglietti senz’ordine strappati “Dal taccuino di Ada” e pubblicati dal Capuana nel giornale romano, di cui era direttore letterario, negli ultimi giorni di giugno e nei primi giorni di luglio del 1896. Da tale mondo e da tale narratore, per essere veramente sé stesso Pirandello dovette rendersi indipendente, e considerare gli uomini e la vita con un suo modo di sentire, rappresentarli con un suo stile.
Ma ciò non riguarda più gli anni di preparazione e bisogna quindi lasciarli per entrare nella maturità dell’arte pirandelliana.
GIUNTE ALLA BIBLIOGRAFIA DI PIRANDELLO
1. FOLCHETTO. Periodico quotidiano politico diretto da Emilio Faclli, Roma,
dal 23 dicembre 1891 al 12 novembre 1894.
3 gennaio 1892 — Canzone di Folchetio da Marsiglia (trad, in versi dal provenzale).
9 ottobre 1893 — Recensione dell’Altalena delle Antipatie di Alberto Canton!.
25 marzo 1894 — Lieta Versi
8 aprile 1894 — II perché „
31 agosto 1894 — Amor sincero „
4 ottobre 1894 — Mariandin Gogo „
2. LA TAVOLA ROTONDA. Settimanale letterario, diretto da S. Miranda, Napoli, dal 22 novembre 1891.
10 luglio 1892 – a. II n. 28 — Belfagor. Versi,
14 agosto 1892 – a. II n. 33 — Percy Bysshe Shelley .
13 novembre 1892 – a. II n. 46 — La ricca .
La prima novella che si conosca, di Pirandello. La ricca è Giulia Montana, figlia di un banchiere di Palermo. II padre non le concede di sposare l’uomo che ama, perché caduto in povertà, e lei, fiera e ostinata, rifiuta a sua volta ogni matrimonio di convenienza. Divenuta povera in seguito al fallimento del banco paterno, non vuole più essere moglie dell’uomo amato in segreto per lunghi anni, non potendo più donargli la ricchezza insieme con la bella persona.
14 luglio 1895 – a. V n, 28 — Melbthall. II patio (Dal Labirinto v La Pete) Versi.
2 novembre 1895 a. V n. 46 — Dialoghi tra il gran Me e il piccolo me .
Nostra moglie.
3. LA TRIBUNA ILLUSTRATA. Periodico, mensile nel 1895, diretto da Vincenzo
Morello. Roma, dal 1890, a. VI n. 11, novembre 1895 — Il Nido.
Ci si riferisce alia bibliografia pirandelliana a cura di MANLIO LO VECCHIO MUSTI
(2 voll. Milano, Mondadori edit., 1937 e 1938).
II tema di questa lunga novella fu ripreso nel dramma Se non così ( La Nuova Antologia Roma, 1° e 16 gennaio 1916), è intitolato La ragione degli altri nel quarto volume di Maschere Nude, 1921.
4. GAZZETTA LETTERARIA. Periodico settimanale. Milano-Torino dal 1877 al 1900.
a. XIX – 15 giugno 1895 — Rapana (tra una messa e l’altra).
Questa non è una vera giunta. II rifacimento della prima parte di questa novella, con il titolo “In corpore vili” apparve sin dal 1902 nella raccolta Quan d’ero matto: ma la prima stesura, priva com’è di intenzione umoristica, è più gioconda.
II prete Ravanà, rimesso subito d’ogni suo malanno dopo avere assistito agli effetti del medicinale sul povero sagrestano che lo trangugia per conto del padrone, va a passar la sera dal canonico Lamperti per far da terzo a chi gioca. II canonico è della razza dei giocatori che vogliono vincere per forza e con ogni mezzo, e a un certo punto, arrabbiato di perdere, accusa il prete di aver sottratto dei soldi dal piatto; Ravanà ribatte a chiare note che è invece monsignore a far lo scherzo di mettervi dentro due centesimi e ritirar destramente due soldi. Tornando a casa in compagnia del sensale don Nicola Minnella, Ravanà gli da l’incombenza di vendergli un po’ di grano. Inutilmente il sensale lo mette sull’avviso sul poco prezzo che ha il grano in mercato; Ravanà si mette in testa che sarà per lo meno di sei onze per ogni salma e piglia sonno con tale fissazione. Invece il giorno dopo, mentre dice messa, il sensale per mezzo del sagrestano gli fa sapere che 1’offerta è solo di tre onze e quindici. Il prete allora non capisce più nulla: se non fosse l’aiuto del sagrestano che suggerisce gesti e parole del latinorum non condurrebbe in porto la consacrazione: all’ Ite dimentica del tutto il latino e sbotta fuori : A tre onze e quindici, il frumento
5. NATURA ED ARTE. Rivista della quindicina. Edita a Milano da Fr. Vallardi
dal 1° dicembre 1891. a, IV n. 13 – 1° giugno 1895 — Alba ( Labirinto . Libro IV : Auspici ).
L’opera Labirinto doveva esser composta di cinque libri e di un “ intermezzo”. Si conoscono anche i titoli dei vari libri, tolto il primo: Il Tarlo antico, III. Smanie e rimpianti, IV. Auspici, V. La rete, a. V n. 17 – 1° agosto 1896
— Rassegna artistica . La galleria Saporetti, a. X n. 7 e 8 – 1° marzo e 15 marzo 1901
— Il Vitalizio , Novella (cfr, Beffe della vita e della morte 1903 e Novelle per un anno , X).
— Il marchese di Roccaverdina (di Luigi Capuana). a. X n. 15 – 1° luglio 1901
In questo scritto Pirandello indica l’errore fondamentale della poetica del naturalismo narrativo proprio dello Zola e afferma che il Capuana non è un seguace di essa, specialmente nell’opera degli ultimi anni. Notevole il riconoscimento di una relazione ideale fra il romanzo di Capuana e Delitto e Castigo.
a. XVIII, fasc. 5-6, 1-15 febbraio 1909 — Altrove (consiglio di rifondere altrove Messina e Reggio).
6. LE GRAZIE. Periodico letterario pubblicato a Catania nel 1897 a. I n. 4 – 16 febbraio 1897 — Romanzo, racconto, novella.
7. LA SETTIMANA. Periodico letterario, dir. da Matilde Serao. Napoli 1902-1904 a. I n. 9 – 22 giugno 1902 — Il gancio.
Prima stesura del Dovere del Medico (cfr. La vita nuda e Novelle ecc. II).
8. RIVISTA DI ROMA. Roma, dal 1897 al 1932: pubblicata due volte ogni mese.
a. VII n. 6-15 febbraio 1903 — « Prima e ora . Versi.
a. IX n, 23 – 10 dicembre 1905 — Le favole della volpe .
* Una mattina, tutt’ a un tratto m’ avvenne di scoprire la tana, ove messer Renardo aveva depositato le tanto cercate sue favole . . . Era nel cervello mio, così come gli uomini con le loro inimicizie e la fortuna con la sua avversità me parevano ridotto . . . „
Due favole, in forma di dialoghetti : la prima tra Io Renardo e Un mio vicino, la seconda tra Io Renardo e Compar Coniglio.
- IX, n. 24, del 25 dicembre 1905 e a. X, n. % del 25 gennaio 1906.
- Allegri. Novella. Rifatta, molto più breve, con il titolo : Guardando una stampa (Novelle ecc. XI).
Il titolo antico viene dall’intercalare di uno dei ciechi che in compagnia di uno storpio girano per i paesi pieni di villeggianti in traccia di copiose elemosine. La descrizione iniziale d’ un viale alberato, cupo e sinistro nella chiara notte lunare, e di due mendicanti che confabulano nascosti nell’ombra, prima di salir su al ricovero, in cima al poggio; diviene nel rifacimento una vecchia stampa ingenua e di maniera . . . con una sua puerile precisione di disegno „ , nella quale lo scrittore e tentato di mettere un po’ di vita.
Invece, in Allegri , il racconto si distende per vari capitoli. Mentre sono in cammino alla volta di Sampiero, il Rosso induce Marco Ianni a rievocare il passato e a filosofare sui vari aspetti della vita; poi ruba una gallina e fra le indignate proteste di Marco, la fa spennare dall’altro cieco, e l’arrostisce. Nel terzo capitolo i tre mendicanti trovan la mecca a Sampiero, sia con la vendita delle pianete sia con l’eloquenza di Marco.
Fu nella piazza di quel paese che Marco sentì mancargli le forze e incominciò a bruciare di febbre per la stanchezza. Condotti i compagni fuori del paese, il Rosso li lasciò all’ombra d’ un castagno sul ciglio della strada per tornare a far provvista di cibaria. Ma quando venne per mangiare con loro, Marco dormiva, stremato. Il Rosso, per mantenersi fedele l’altro cieco in tutto il progettato viaggio, gli promise di fargli gustare la venere quando sarebbero arrivati a Sapri ; e, insinuante, persuase poi Marco a spingersi almeno sino a Valdrana: di là avrebbero fatto ritorno in citta allungando di poco. Perchè intendeva di spingere i due ciechi sino a Sapri, ingannandoli, e si mise per un bosco con l’intenzione di abbreviare il cammino. Là, sdruccioloni a ogni passo, Marco arso dalla febbre e in collera, l’altro cieco che, alla minaccia del Rosso di abbandonarli e andarsene per conto suo, fa il misero tentativo d’ intimorire lo storpio con un suo coltello, Marco, non potendone più, si lascia cadere per terra e non dice più nulla. Il Rosso gli apre una vena nel braccio, ma non gli giova. Per stagnare il sangue, va in cerca di ruta e lascia l’altro cieco a premer forte la ferita con la lama del coltello. Perduto il punto giusto, rimette la lama più in su.
Il taglio rimasto scoperto, il sangue riprende a spicciar forte dal braccio di Marco, che muore svenato.
La trovata della vecchia stampa di maniera consente a Pirandello di gettar via una buona meta di questo lungo racconto, e di sostituirlo con quattro frasi epigrafiche, che implicano un severo giudizio della vecchia narrazione: “ Forse è meglio finire qui. Non val la pena stare ancora a far spreco di fantasia su questa vecchia stampa di maniera”
a. X, n. 4 – 25 febbraio 1906 — Laomache. Poemetto.
cfr. “ Noi e il mondo „ , rivista mensile, a. VI n. 6 Roma 1 giugno 1916).
L’amazzone Laomache, correvano i giorni di primavera sacri a Diana in cui e guerriere vergini dovevano concedersi al possesso d’un maschio, non vuole rendersi al rito ed erra lontano dalla tenda in cui l’ attende un giovane da lei vinto in battaglia.
Ociale, sacerdotessa della dea, persuade la sdegnosa ad obbedire al rito e la giovinetta fiera diviene donna fremebonda di piacere fra le braccia di Gargaro, il suo vinto.
a. X n. 7 – 10 aprile 1906 — Lillina e Mila , Novella.
Rifacimento del No di Anna ( “La Gazzetta letteraria „ di Milano, nei quattro numeri del settembre e nei primo numero del mese di ottobre del 1895). Mutano i nomi dei protagonisti: Rita Prinzi diviene Lillina Lumia, tornata a Porto Empedocle dopo nove anni passati a Napoli; Anna Cesaro e Mita Fiorica, e il dottor Mondino Morgani muta in un Filiberto Cimillino. Per quanto sveltita e sfrondata, Lillina e Mila rimane una cosa mediocre. Nella fine è diverso il sentimento della morente. Anna esclama: “Lasciatemi morire in pace. Non venite più nessuno dei due „. Mita invece : a Perdonami . . . perdonami, Lillina … Io voglio, sai? . . . voglio che tu lo sposi. E vi ricorderete di me, e vero ? „
a. X n. 12 e 13 – 25 giugno e 10 luglio 1906 — Scamandro. Commedia in versi
Pubblicata ancora per nozze nel 1909 e su la “Nuova Antologia „ nel 1929.
a. XI n. 12 – 25 giugno 1907 — Pari. Novella (cfr. La vita nuda 191 1 e Novelle ecc. II).
9. ROMA LETTERARIA. Periodico letterario romano, diretto da Vincenzo Boccafurnl.
a. I n. 27 – 15 novembre 1893 —
a. Ill n. 13 – 10 luglio 1895 —
a. Ill n. 19 – 10 ottobre 1895 —
a. IV n. 16 – 25 agosto 1896 —
a. IV n. 21 – 10 novembre 1896 —
a. IV n. 24 – 25 dicembre 1896 —
A me i bimbi (dl Giuseppe Mantlca) Recensione.
Studi letterari (di Francesco Flamini) Recensione.
Dal Labirinto: Esame (Libro II: Tarlo antico). II Tesoro (Libro III: Smanie e rimpianti ).
Studi shakesperiani (di G. Chlarini) Recensione.
Natale sul Reno (Bonn am Rhein) Bozzetto,
Da due anni non si festeggiava il Natale In casa L * * * in segno di lutto per la violenta morte del secondo marito della signora Alvina e patrigno di Jenny. II signor Fritz L * * * dopo una vita disordinata si era ucciso a Neuwled, lasciando con la moglie tre orfanelle.
E’ sera, e nevica. Pirandello è seduto innanzi al fuoco in preda alia nostalgia.
“ Sentivo io veramente, lontano lontano, il suono lento nasale cadenzato d’una zampogna ?… Era gonfia, quella zampogna, dei profondi sospiri della mia intensa malinconia ?… „ Jenny allora, per distrarlo, gli annunzia che la mamma acconsente a festeggiare il Santo Natale. Ma, dopo la gioia dei preparativi dell’albero e del presepio, proprio la sera di Natale tutto torna in pianto: la vedova scoppiò per la prima a piangere e le orfanelle e Jenny si strinsero a lei lagrimando.
a. V n. 13 – 10 luglio 1897 — Musa Crociata (di E. G. Boner. Torino, Roux e Frassatl. A beneficio del Canilotti). Recensione.
a. V n. 24 – 25 decembre 1897 — Natale at Polo (che Nansen, vi passava, con la nave Fram).
a. VII n. 23 – 10 decembre 1899 — Elegia rurale
Al mandorlo piantato per la sua nascita. Un nudo tronco screpolato or son le piante sorelle, consolatemi voi. Foglie non ho nè frondi più da riparare, un nido da cui tre care testoline tentano col primo riso l’aure della vita
a. VIII n. 3 – 10 febbraio 1900 — Leopardiana. I. Leopardi deco .
Pirandello intendeva ricavare dai volumi dello Zibaldone, qualche cosa dl simile alle conversazioni col Goethe di Gian Pietro Eckermann. In questo primo e, credo, unico saggio, distrugge, con gli argomenti stessi dl Leopardi, il luogo comune della critica letteraria del tempo che Leopardi non sentisse i colori e la loro armonia, fosse cieco alla pittura.
a. VIII, n. 6 – 25 marzo 1900 — La paura del sonno. Novella (cfr. Beffe ecc. 1902 e Novelle ecc. XI).
10. IL CAMPO. Torino – periodico letterario edito da Renzo Streglio, 20 Novembre 1904 – 31 dicembre 1905.
n. 12-5 febbraio 1905 — I tre pensieri della sbiobbina (cfr. La Trappola
1915 Novelle ecc. III).
n. 41 – 3 settembre 1905 — Amicissimi (cfr. “La Riviera Ligure w ottobre 1902;
Bianche e Nere, 1904; Novelle ecc. I).
11. IL VENTESIMO. Periodico letterario diretto da Mario Ciarvy. Genova, 1902-1914.
5 marzo 1905 – a. IV n. 9 — La messa di quest’anno.
Novella mai raccolta in volume. Protagonista è una vecchia signora, la zia Velia di Cargiore, lo stesso nome della signora Velia Maschetti di Gioventu. Un nipote a Natale corre ogni anno da Roma a Cargiore a godersi la festa con la zia e a gustare le buone cose imbandite a tavola. Invece, quest’anno, niente.
Don Venanzio Grotti, il nuovo curato, uno di quegli uomini terribilmente logici che a furia di ragionamenti disseccano i cuori, per uniformare se e i propri parrocchiani ai precetti del Vangelo si era messo a predicare contro le cose lussuose e superflue nel mangiare, nel bere, nel vestire, perfino nell’adornare la chiesetta del villaggio; e aveva terrorizzato i fedeli, li aveva indotti allo squallore della tavola persino la vigilia del Santo Natale.
15 e 22 ottobre 1905 – a. IV nn. 37 e 38 — Acqua amara .
Novella ripubblicata nella Vita nuda 1911 e in Novelle per un anno , vol. II.
4 febbraio 1906 – a. V n. 5 — Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me,
In Società.
Nel salotto della Marchesa X, scrittrice. Insieme con il fior fiore dei nobili della città sono invitati i direttori dei giornali, che pubblicano scritti della Marchesa, e qualche collega letterato. Il piccolo me ringalluzzisce per l’invito, il Gran Me per la marsina che non è abituato a portare, si annoia a star lì e teme nello stesso tempo che gli altri si avvedano che è un novellino e lo feriscano con allusioni tanto più pungenti quanto meglio velate. Cosi, quando con il giornalista Kappa, la conversazione svolgendosi su la pace di Porthsmouth e sui negoziati condotti favorevolmente alla Russia dal Rappresentante conte De White, commenta che la vincitrice vera fu la marsina portata come si deve.
Inutilmente il piccolo me si affanna per indurre il Gran Me a conversare mettendo in rilievo le doti di urbanità e di arguzia, a studiare quegli uomini nuovi per trarne materia di novelle. Il Gran Me si ritrae nel vano d’una finestra, oltre le tende, e guarda da dietro i vetri giù nella strada deserta, fiocamente illuminata dai fanali qua e là, e non trattiene un grosso sbadiglio.
8 aprile 1906 – a. V n. 13 — Lucciole e [ante me. Dal commentario postumo di Mattia Pascal.
Quattro prosette umoristiche. Nella prima – Con dignita – si sostiene che non bisogna guastare ai morti la marcia funebre. Nella seconda – Le cose – si considera la nessuna partecipazione delle cose ai sentimenti dell’uomo, che vive pure in mezzo delle cose. Assente immobilità della natura, già argomento della novella E due. Nella terza – Le nostre favole – si narra di uno che legge le sciocchezze, che noi uomini attribuiamo agli animali da Esopo in qua, a un cavallo e ad altri animali dentro una stalla. Nella quarta – Il Vulcano e la neve – la neve simboleggia la società con i suoi insegnamenti e le sue regole sull’onore, la fede, la virtù e tante altre belle cose della stessa specie, oppure sulle varie professioni, di marito, di moglie, di amante e così via; e il vulcano simboleggia la bestia ribelle che si annida in ogni uomo addomesticato, e d’ improvviso erompe e manda tutto all’aria.
10 giugno 1906 « a. V n, 21 — Richiamo all’ obbligo (cfr. Terzetti 1912 e Novelle … XI).
23 dicembre 1906 – a. V n. 48 — Nel dubbio (cfr. Due Maschere 1914 e Novelle ecc. VIII).
17 marzo 1907 – a. VI n. 10 — Umorismo o Ironismo ?
12, LA RIVIERA LIGURE. Oneglia.
a. XIII serie 3 a n. 1 – gennaio 1907 — Distrazione (cfr. La vita nuda 191 1 e Novelle ecc. vol II).
a. XXI serie 4 a. 43 – luglio 1915 — Prosette (La tartaruga -Le donne – La vasca).
13. IL TIRSO. Roma, a. II, 1° giugno 1905 — Di guardia (cfr. La Vita Nuda e Novelle ecc. II).
14. L’ ILLUSTRAZIONE ITALIANA a. XXXIV n. 19 Milano 12 maggio 1907 —
La corona (cfr, Due maschere, Tu ridi, Novelle ecc. VIII).
15. LE CRONACHE LETTERARIE. Dir. Vincenzo Morello, Firenze: dai 24 aprile 1910 al 1912.
30 ottobre 1910 a. I n. 28 — Ritorno (cfr. Fuori di chiave , 1911).
3 marzo 1912 a. Ill n. 98 — Uomini, donne, burattini.
16. LA GRANDE ILLUSTRAZIONE. Pescara 1914-1915 dirett. Basilio Cascello dicembre 1914 a. 1 fasc. 12 Zuccarello distinto melodista (cfr. E domani , lunedì … 1917, Novelle ecc. XIII).
Testo di Aurelio Navarria, LA PREPARAZIONE DI LUIGI PIRANDELLO, in “SICULORUM GIMNASIUM”, RASSEGNA SEMESTRALE DELLA FACOLTA DI LETTERE E FILOSOFIA DELL’ UNIVERSITA DI CATANIA, n. 5, III, GENNAIO-DICEMBRE 1950,