Il secolo di S. Gregorio, tanto rilassato nei costumi e demoralizzato dalle guerre, rendeva molto diffìcile l’esercizio della giustizia; epperò ecco nel nostro Santo il forte che reggerà alla subordinazione: la Provvidenza, ponendo sul trono Pontifìcio il nostro Gregorio, lo dotò pure di sufficiente discernimento per amministrarla rettamente.
E fu atto di grande discernimento il richiamare a sé la giurisdizione, la censura, il diritto punitivo, la conferma dei vescovi, l’amministrazione del patrimonio della Chiesa e la deposizione e sostituzione d’incaricati nel corpo amministrativo.
Lo vedemmo pretore intemerato, difensore dei deboli contro le più forti pretensioni dei grandi in maniera che Roma, avendone ammirato i suoi atti, pianse della perdita. Lo vedemmo ancora custode geloso della disciplina monastica, e giusto giudice nell’imporre le pene ai monaci trasgressori; e pria di porre termini al racconto delle sue luminose virtù, vediamolo rettissimo amministratore della giustizia.
La divina sentenza con la quale Gesù confuse i tristi che lo domandavano se fosse lecito pagare il tributo a Cesare, fu la guida costante del Pontificato di S. Gregorio.
Quanto in vero non sentì per la conversione delle anime? Eppure volentieri rinunziava a questa, quando, per conseguirla avrebbe dovuto commettere pur la menama violazione della giustizia! Dalle sue lettere si ricava che Domenico, Primate e Vescovo di Cartagine, comminò la privazione della dignità episcopale, e dei beni annessi, contro i suoi suffragane! che non costringessero gli eretici alla conversione. S. Gregorio acremente ne lo rimproverò, facendogli giustamente notare che la conversione delle anime non dev’essere figlia della coartazione, ma di sante insinuazioni che inducono alla convinzione.
Scrisse a Pietro, Vescovo di Terracina il quale, per ben due volte, aveva cacciato gli ebrei dalle loro sinagoghe: gli fece conoscere l’ingiustizia commessa, obbligollo alla restituzione delle sinagoghe aggiungendo:
“Discordanti dalla Religione debbonsi richiamare con la mansuetudine, la benignità, le ammonizioni e le persuasioni, non atterrirli con le minacce e soverchia austerità”. Simili giusti ordini spediva ai Vescovi di Arles, di Cagliari, di Marsiglia, di Napoli: “Non devonsi costrìngere gli ebrei ad essere battezzati perché, diceva, non avendo volontà, ricadranno nelle primiere superstizioni”.
Quanto egli fosse tenero per i poveri schiavi l’abbiamo osservato; e, se i tempi in cui viveva non gli fecero avere la consolazione di vederli tutti liberati, non tollerò assolutamente che schiavi cristiani appartenessero ad ebrei; e giustamente, poiché il saggio Pontefice ne prevedeva la caduta pure nella schiavitù dello spirito. Sempre guidato dalla giustizia, non permise però che gli ebrei patissero violenze da chicchessia.
Infatti, il Vescovo di Palermo tolse loro la sinagoga e la convertì in Chiesa dopo di averla benedetta. Ricorsi gli ebrei a S. Gregorio, ordinò questi al Vescovo che, essendo oramai la sinagoga una Chiesa nella quale i sacri riti già si celebravano, la conservasse pur tale; ma immediatamente rifacesse i danneggiati, dietro il giudizio di due periti, dei danni sofferti.
Vegliava con attenzione gli amministratori dei beni ecclesiastici e richiamavali sulla via del giusto, quando deviavano; così fece con Pietro suddiacono. Amministrava costui i beni della Chiesa romana in Sicilia e non si peritò d’imporre nuovi pesi ai coloni. Venuto ciò a conoscenza del Santo, immediatamente scrissegli di restituire quanto aveva ingiustamente riscosso: “Guardate bene, aggiunse, di eseguire il tutto pienamente, poiché di ciò che per serbar la giustizia vi scrivo, io resto assoluto e voi se lo trascurerete, verrete ad esseme il reo … Udiste ciò che voglio, mirate ciò che dovete/are”.
Così pure operò in Cagliari.
Pomponia, donna molto pia, fondò a proprie spese un conservatorio di zitelle, educandole nella pietà. Alcune buone persone, ammirando i benefici di quella santa istituzione, lasciarono, dopo morte, tutte le loro sostanze in eredità a Pomponia, allo scopo d’ingrandire la sua istituzione. Vitale, difensore dei beni ecclesiastici, in tutta l’isola di Sardegna, soppresse l’eredità in favore del pio istituto, aggregandola al patrimonio della Chiesa. Pomponia fece ricorso al Pontefice, il quale prontamente ordinò a Vitale la restituzione dell’eredità; e gli fece conoscere che: “I ministri della Sede Apostolica debbono essere equi e giusti, ne mai fare uso della prepotenza in aggravare le parti”.
Difendeva i vescovi ingiustamente avversati, chiedendone anche riparazione; infatti gli si propose la deposizione di un Vescovo perché, essendo quasi sempre infermo, non poteva assiduamente occuparsi degli affari della diocesi. Una sì ingiusta proposta lo ferì nel cuore e, scrivendo al suo legato in Costantinopoli, gli notificava che i sacri canoni “mai han comandato la deposizione di un Vescovo infermo.
Si può bene, aggiungeva, obbligarlo al mantenimento di un ministro fedele, che lo coadiuvi, ma procedere alla deposizione, è ingiusto “. Dopo questo, sospettò S. Gregorio che le reiterate istanze dell’imperatore obbligassero il Vescovo infermo a dimettersi dalla carica. Ne scrisse in proposito allo stesso legato e gli fece sentire che se la rinunzia non fosse spontanea e secondo i sacri canoni, mai l’avrebbe accettata. Scrisse pure al Vescovo di Autun Siagrio, perorando una giusta causa che riguardava Ursicino il quale era Vescovo d’intemerati costumi nella diocesi torinese.
Un invidioso, che tanto si era opposto ai comandi del Vescovo d’Agrigento, Gregorio, tessè una calunnia contro lo stesso. Lo accusò di reo commercio con donna di mala vita; e perché la turpe calunnia paresse indiscutibile verità, operò in maniera che realmente penetrasse nell’episcopio una donna immorale.
Il Santo Vescovo fu posto in carcere in seguito alla falsa accusa sostenuta dalla infame prova. In causa di tanta importanza l’umil prelato, non tanto per la sua calunniata innocenza, quanto per decoro episcopale, e perché la società non restasse scandalizzata di simili debolezze in un Vescovo, ne produsse appello al Papa.
Questi restò meravigliato che un uomo da lui tenuto in alto concetto, potesse tanto avvilirsi, e quindi sperò che l’accusa fosse nuda calunnia, e la prova, fine produzione di essa. Con la sua perspicacia giunse a scoprire l’infame ordito e reintegrò il Vescovo, col quale vennero a congratularsi i primieri suoi giudici ed il suo eletto gregge. In proporzione del delitto punì il reo calunniatore.
Come sempre esatto il nostro Santo, fu tale ancora con due Vescovi deiristria, Pietro e Prudenzio i quali incorsero in uno scisma e naturalmente temevano il giusto rigore del Pontefice. Il Santo però era quell’avveduto giudice ben alieno dalle violenze sempre e particolarmente per i discordanti in fatto religioso. Partecipò loro quindi, la retta determinazione presa di venire ad una conferenza, dietro la quale li lascerebbe nella piena libertà di credenza, senza impor loro alcuna pena.
Se in prò dei vescovi invocava la giustizia, dagli stessi però rigorosamente richiedeva la retta amministrazione della medesima. Un tale Bario, suddiacono, calunniò un diacono. Non appena il Pontefice viene a conoscenza del fatto, richiama il Vescovo Antimo perché mancante di sollecitudine a difendere il diacono; gli ordina quindi che egli medesimo degradasse Ilario pubblicamente e lo mandasse in esilio.
Un prete milanese, ingiustamente punito dal suo Vescovo ricorse al Papa. Esaminato questi il motivo della punizione e non trovatelo giusto, scrisse che quel prete riprendesse l’esercizio del proprio ufficio e la celebrazione della Messa. Parimenti un prete di Calcedonia trovò giustizia presso il Pontefice perché era stato punito dal Patriarca di Costantinopoli, dietro suggerimento dell’Imperatore che l’accusò d’eresia. Il Santo, tutto esaminato, trovò innocente il prete e lo dimostrò al Patriarca.
Vigilante custode della giustizia la esercitava ovunque come se a tutto fosse presente. Comandò che un seduttore riparasse opportunamente all’onore della sua vittima e non sottomettendosi subisse una pena e fosse rinchiuso in un monastero. Legge sì rigorosa applicò al nipote del Vescovo di Manfredonia caduto in simile eccesso.
Senza alcun riguardo si dolse con quel Vescovo della cattiva educazione impartitagli e contemporaneamente gli ordinò che il nipote sposasse l’infelice violata e, rifiutandosi, fosse scomunicato, riserbando a sé lo scioglimento della censura. Giustamente proibì che i coniugati si potessero monacare senza il reciproco consenso.
Avvenne in Sicilia che una tale Agatosa si dolesse col Santo perché il marito erasi ritirato nel chiostro, abbandonandola. Il Pontefice scrisse al suo notaio apostolico in Palermo dandogli le seguenti istruzioni: “Primieramente esaminerete se la divisione sia stata fatta senza il consenso di ambo le parti; quindi assumerete informazioni se la donna fosse caduta in alcuno di quei falli che mettono il marito in piena libertà di lasciarla. Se risultasse mancare il consenso, ne la donna risultasse rea, allora si costringa il marito a ritornare presso la moglie, quando anche avesse ricevuta la tonsura”.
Temperò il decreto di Pelagio Secondo il quale ordinava ai suddiaconi ammogliati di separarsi dalle loro donne. Nella sua sapienza trovò giusto Gregorio che i medesimi potessero continuare a convivere con le relative mogli; restando però inabilitati agli ordini maggiori: “Ninno, diceva, deve salire al ministero dell’Altare se prima, della sua castità e continenza, non dia buone prove “. Proibì pertanto a tutti i Vescovi che mai più ordinassero alcun suddiacono senza che prima questi emettesse il voto di castità.
Moderò ancora un altro decreto che imponeva ai Vescovi di Sicilia di recarsi in Roma ogni tré anni; credè giusto che quel viaggio avesse luogo ogni cinque invece che ogni tré, in considerazione della lunghezza e difficoltà di esso.
Nonostante l’umil carità che usava in richiamare e riprendere, pure la giustizia dominava tutte le sue azioni senza riguardi a persona di sorta. Non guardò mai grado e condizione: ecclesiastici, claustrali, potentati, puniva a misura delle colpe commesse, e solo allora dava luogo alla misericordia, quando la giustizia aveva esercitato i suoi pieni diritti.
Ebbe conoscenza che i diaconi di Catania calzavano, nelle sacre cerimonie, una specie di sandali, unico privilegio dei diaconi della Chiesa di Messina. Immantinente chiese a quel Vescovo informi e relazioni per provvedere a questa usurpazione di privilegio: “Non è benfatto, diceva, dissimulare usurpazioni di questa fatta, poiché è un aprire la porta ad altre “.
Un buon numero di religiosi viveva fuori chiostro nell’isola di Corsica a motivo delle scorrerie longobarde. Come ciò venne a conoscenza del e la prova, fine produzione di essa. Con la sua perspicacia giunse a scoprire l’infame ordito e reintegrò il Vescovo, col quale vennero a congratularsi i primieri suoi giudici ed il suo eletto gregge. In proporzione del delitto punì il reo calunniatore.
Come sempre esatto il nostro Santo, fu tale ancora con due Vescovi dell’Istria, Pietro e Prudenzio i quali incorsero in uno scisma e naturalmente temevano il giusto rigore del Pontefice. Il Santo però era quell’avveduto giudice ben alieno dalle violenze sempre e particolarmente per i discordanti in fatto religioso. Partecipò loro quindi, la retta determinazione presa di venire ad una conferenza, dietro la quale li lascerebbe nella piena libertà di credenza, senza impor loro alcuna pena.
Se in prò dei vescovi invocava la giustizia, dagli stessi però rigorosamente richiedeva la retta amministrazione della medesima. Un tale Ilario, suddiacono, calunniò un diacono. Non appena il Pontefice viene a conoscenza del fatto, richiama il Vescovo Antimo perché mancante di sollecitudine a difendere il diacono; gli ordina quindi che egli medesimo degradasse Ilario pubblicamente e lo mandasse in esilio.
Un prete milanese, ingiustamente punito dal suo Vescovo ricorse al Papa. Esaminato questi il motivo della punizione e non trovatelo giusto, scrisse che quel prete riprendesse l’esercizio del proprio ufficio e la celebrazione della Messa. Parimenti un prete di Calcedonia trovò giustizia presso il Pontefice perché era stato punito dal Patriarca di Costantinopoli, dietro suggerimento dell’Imperatore che l’accusò d’eresia. Il Santo, tutto esaminato, trovò innocente il prete e lo dimostrò al Patriarca.
Vigilante custode della giustizia la esercitava ovunque come se a tutto fosse presente. Comandò che un seduttore riparasse opportunamente all’onore della sua vittima e non sottomettendosi subisse una pena e fosse rinchiuso in un monastero. Legge sì rigorosa applicò al nipote del Vescovo di Manfredonia caduto in simile eccesso.
Senza alcun riguardo si dolse con quel Vescovo della cattiva educazione impartitagli e contemporaneamente gli ordinò che il nipote sposasse l’infelice violata e, rifiutandosi, fosse scomunicato, riserbando a sé lo scioglimento della censura. santo, mandò colà l’Abate Orosio con sua lettera, nella quale ingiunse a Simmaco di edificare un monastero in sito forte e sicuro, affinchè i monaci, riparati dall’incursioni, contribuissero vieppiù a migliorare l’isola. Ordinò pure ai monaci che intanto si tenessero uniti quanto si potea; e quindi si ritirassero nel monastero.
È giusto, diceva, che i religiosi vivessero in comunità ed osservassero la regola da loro professata. Lo stesso operò in Sicilia. Siccome le guerre che desolavano l’Italia costrinsero a rifugiarsi colà molti monaci i quali vivevano isolati e senza norma di vita comune, il Pontefice impose loro di congregarsi in un monastero e fossero diligenti osservatori dei proprii obblighi.
Non ebbe riguardo alla dignità di un patrizio romano che scomunicò perché erasi colpevolmente separato dalla propria moglie. Neppure risparmiò il duca della Campania per aver mortificato i religiosi del convento di S. Arcangelo, credutosi offeso dal loro priore. “E’questo, diceva, un ingiusto procedere, ti esorto adunque ad essere moderato e giusto “.
Sorvegliava attentamente i magistrati e richiedeva da essi il buon governo dei popoli mediante l’applicazione di leggi equi e sapienti. Proibì espressamente le bastonate e le carceri agl’infelici, a cui si prodigavano, per causa dei loro debiti. “Devono essi, ordinava, pagare il debito non con le battiture, ma col soddisfare al proprio dovere “.
L’Esarca d’Italia ingiustamente sostenne la causa a favore di un prete rinchiuso in un monastero per espresso comando del suo prelato. Il Santo lo riprese scrivendogli: “Colui che si rivolge contro il suo superiore ecciterà in breve una sedizione contro del magistrato, ne mai devesi sperare da persona che disprezza la Chiesa il dovuto rispetto alle po tenze secolari”. Col medesimo si lagnò delle favorevoli accoglienze fatte ad alcuni monaci apostati, facendogli conoscere: “… esser troppo vile sostenere il partito di coloro che abbandonano quello di G. Cristo “.
Ad una persona di famiglia imperiale scriveva: “Hanno creduto alcuni che, trovandomi occupato nei grandi affari della Chiesa, non ri guardi i vostri falli. Sono in errore. Io guarderò sempre per quanto ne ho il diritto e l’autorità. Io non seconderò punto le vostre inclinazioni, ma vi tratterò secondo il vostro bisogno “.
Faceva pervenire giusti richiami all’Imperatrice Costanza per le ingiustizie commesse dai ministri imperiali nelle due isole di Corsica e di Sardegna. Le manifestava ancora che il tesoriere di Chartres abusava del proprio ufficio e la esortava a riparare i tanti mali commessi dai suoi impiegati.
Come il Signore, nella sua infinita bontà volle illustrare le altre virtù eminentemente esercitate dal nostro Santo, così ancora questa della giustizia. Si disse innanzi ch’egli aveva comminata la pena di scomunica contro un patrizio romano per essersi separato dalla moglie.
Essendo questi uno dei più cospicui magistrati n’ebbe grande rossore e concepì odio massimo contro il Pontefice appena gli fu partecipata la nuova di quella punizione. Non osò vendicarsi pubblicamente per tema di mali maggiori e studiò il mezzo di riuscirvi nascostamente. Si portò da alcuni maghi, promise loro una somma a condizione di produrre un gran danno al Santo. Essi accettarono la proposta e, mentre il Pontefice percorreva a cavallo la città, fecero sì che il demonio invadesse la bestia. Il maligno spirito agitò tanto il cavallo che s’impenna, s’infuria in modo da temersi seriamente de
lla vita del Santo. Iddio rivelò per tempo al suo giusto ministro questa bassa vendetta, di maniera che, segnatesi egli della Santa Croce, mise in salvo se stesso e l’animale. Atterriti i maghi della precipitosa fuga del demonio, conobbero la Divina Potenza che tosto li rese ciechi. Una tale sciagura l’indusse a confessare pubblicamente la propria colpa che S. Gregorio, di cuore, perdonò.
Pentiti e ravveduti, ricevettero il Santo Battesimo; però la cecità li afflisse per tutta la vita; ne il Santo volle impetrar loro dal Signore la grazia della vista, per tema che non riprendessero la lettura dei malefici libri magici. Ebbe però cura del loro sostentamento, provvedendoli, a spese della Chiesa, del necessario.
In questo capitolo si mostrò rivendicata la calunniata innocenza di Gregorio, Vescovo di Agrigento, dalla giustizia del nostro Pontefice. Ora diremo del modo come lo stesso fu eletto Vescovo; così avremo nuova ragione di credere che Dio illustrava la virtù della giustizia nel suo rappresentante.
Reso vacante il vescovado di Agrigento, vi ebbe luogo una doppia elezione di candidati. Ambo le parti contendenti si recarono in Roma ed alla presenza di S. Gregorio, ciascuno degli eletti, colla propria deputazione, chiese gli fosse fatta giustizia. Con quelle dolci maniere, tutte sue proprie, cercò il Pontefice di accordare le parti; ma queste, sostenendo ognuna il proprio diritto, rimanevano nella loro dissenzione.
Allora il Papa, senza venire ad atti autorevoli, chiese ai capi dei due partiti che cosa sentissero in coscienza di affare sì importante. Paralizzati dalla concisa domanda, smisero le premure di parte e risposero: Beatissimo Padre, niuno deve ricevere quest’onore, se non chiamatovi da Dio. Colui dunque che la S. V. ci darà Vescovo, noi riceveremo con gratitudine.
Ambo i candidati eran degni dell’Episcopato, per entrambi militavano uguali diritti, giuste ragioni: or su di chi dovrà cadere la scelta a senza restar violata la giustizia?
S. Gregorio era preoccupato di un affare sì delicato ed intrigato, ma la Provvidenza, gli rivelò che nel monastero di S. Saba viveva in certo Gregorio, uomo da Lei destinato a quella cattedra.
Fu premuroso il Pontefice di partecipare questa rivelazione ai dignitari del Clero e visto che i meriti dell’indicato superavano quelli dei contendenti, fu chiamato il monaco Gregorio, che, dal Santo, consacrato Vescovo nella Chiesa di San Pietro, fu poi spedito in Agrigento, ove il Signore lo arricchì del dono dei miracoli.