Nella relazione “Sulla febbre epidemica petecchiale regnante in Girgenti nell’anno 1833″ il dottor Paolo Vassallo e il suo collega Caruso scrissero che il morbo si diffuse “per il consorzio delle persone sane con le infette per trovarsi specialmente in quelli abituri ristretti, e non ventilati i quali impedivano la cotanto necessaria rinnovazione dell’aria libera; fu indi il morbo da questi trasportato nelle case delle persone agiate”.
Una diretta conseguenza di tutto ciò fu la carestia, che portò in quei mesi a Girgenti molti poveri dei paesi vicini. Essi “piombarono in questo capovalle per accattarsi il pane, onde riparare alla fame che divorali; – osservavano i dottori Caruso e Vassallo – ma pressati essendo da tanto bisogno dovettero darsi de’ giornalieri sussidi a tal classe d’indigenti, né offrendo la nostra città luoghi comodi e ventilati, bisognarono per molti giorni raccoglierli in locali non perfettamente adatti all’uopo; e quindi cotal circostanza dovette concorrere qual’una delle principali concause a favorire quel fomite che in progresso si è sviluppato.
Non posso poi passare sotto silenzio che le sepolture colle esalazioni hanno più d’ogni altro renduta l’aria impura e pregna di deleteri miasmi nocivi all’economia vivente”.
Il Vescovo monsignor Pietro Maria D’Agostino, il 14 aprile 1833, mentre ancora infuriavano questi luttuosi eventi, fece affiggere un manifesto con cui raccomandava ai fedeli di fare penitenza “onde così placare la maestà di Dio onnipotente, e togliere dalle sue mani la spada del furore, che sta per piombare contro di noi”.
Proponeva inoltre il digiuno e tante altre pratiche liturgiche e devozionali “onde così mercé la protezione di San Gerlando, che in ogni occorrenza abbiamo sperimentato” sia possibile porre fine a quei flagelli con cui Dio veniva a punire la città a causa dei malvagi (Archivio di Stato di Agrigento, inventario 4, fascicolo 494).
V’era allora anche chi diffondeva voci allarmistiche, sostenendo che fossero le spie e i militari a “impestare” l’aria diffondendo le epidemie. Tali epidemie mettevano in risalto tutte le carenze della città, non solo quelle sanitarie.
La città aveva sofferto già nel 1793 per un’epidemia di febbri continue (cfr. Giuseppe Lo Presti, Sulle febbri epidemiche, che spesso, e precisamente nell’anno 1793, hanno infestato la città di Girgenti, Girgenti, 1794) e quanto avvenne nel 1832-33 e nel 1837 le diede il colpo di grazia.
Ma l’esperienza aveva insegnato ben poco, se è vero che, in occasione di una nuova epidemia di colera nel 1867, sono stati ripetuti i medesimi errori e si sono visti i medesimi orrori.
Elio Di Bella