
Giovanni Zirretta
gli scavi archeologici del 1927 nella zona di Acragante
Ad Akragas sì, la più bella città dei mortali, come la chiamò Pindaro, ragguardevole per i sontuosi templi, per gli ampi fori, per i magnifici edifici, abbattuta dall’urto del tempo e dal vortice impetuoso dei rivolgimenti umani, le molteplici importanti svariate rovine dei suoi templi, superbi e maestosi, nella meravigliosa armonia dello stile dorico, ci narrano le origini e le vicissitudini di una città, che nel suo periodo di storia gloriosa (470 – 406 avanti Cristo) fu tra le più fiorenti della madrepatria della Magna Grecia.
La forza edace non poté del tutto dissolvere i templi, le colonne, gli archi e gli stessi riquadrati macigni, che hanno la forza di ricreare ciò che fu distrutto, di rialzare, di ripristinare ciò che fu atterrato e di rievocare le origini di una città, che, più volte abbattuta, potè ne superstiti monumenti, attingere la forza di risollevarsi e più volte rifiorire.
I ruderi grandiosi non hanno cessato di fremere sulle rovesciate moli, e il loro spirito vivificatore ha avuto l’arcana forza di far risorgere a novella vita le glorie sepolte e di accendere le anime di un giovane valoroso archeologo (Marconi), indagatore coscienzioso di passate grandezze e di un gentiluomo inglese, (Hardcastle), mecenate e appassionato cultore di archeologia, che da parecchi anni ha dato disinteressatamente un salutare impulso alle esplorazioni archeologiche nel suolo dell’antica Agrigento.
I lavori di scavo, ripresi quest’anno, con buoni auspici, fin dal mese di febbraio, si sono chiusi nel mese di maggio, ricchi di importanti ritrovamenti.
Come negli anni scorsi, sono state seguiti per cura dello Stato e col generoso contributo finanziario del signor comm. Alex Hardcastle, cittadino inglese, il quale, anni fa, si stabilì in Agrigento, ove acquistò una villa posta nel seno della zona archeologica, e precisamente nei pressi del tempio di Ercole.
Il senatore Paolo orsi, soprintendente alle antichità classiche della Sicilia, affidò la direzione dei lavori all’archeologo professor Pirro Marconi. Questi iniziò con felice successo la sua carriera di scavatore, portando notevoli contributi (chiarendo e completando problemi variamente discussi nel campo dell’archeologia) sulla famosa questione dell’Olimpieion .
Gli scavi furono iniziati sul previo Trippi, nel terreno adiacente al Grand Hotel des Temples, a nord della chiesa di San Nicola dei cistercensi, sull’orlo di un avvallamento dove, a vari ripiani degradanti, furono trovate delle abitazioni romane di notevole estensione, con ampie stanze e pavimenti a mosaico.
In una di queste abitazioni, adiacente alla casa, fu scoperto uno stabilimento ad uso fornace per vasi e laterizi, composto di un deposito di argilla, di una profonda vasca, intagliata nella roccia, per gli impasti, e di un forno foderato di mattoni per la cottura. I muri si conservano a bassa altezza ed hanno una struttura di massi parallelepipedi squadrati; i pavimenti sono di cocci pesti e qualcuno si presenta intramezzato di decorazioni lineari fatte con tessere di marmo.
Furono trovati residui abbandonati di cocci di anfore di tegole, di scarso valore.
Altri scavi furono fatti nel previo Catalano, presso il tempio detto dei Dioscuri, quasi sull’orlo della grande piscina, ove, ad una profondità di 30 cm appena, fu trovata una grande struttura di basamento. Ampliato lo scavo, vennero alla luce due grandi altari di epoca arcaica, risalenti alla metà del VI secolo, di cui uno rettangolare, misurando circa metri 5,30 × 4,80, a due gradini, e aventi nel centro una conca intagliata nella roccia. La conca è attaccata al muretto circolare esterno con quattro raggi di conci squadrati monolitici. Questo attore rettangolare alla superficie con tracce evidentissime di fuoco persistente e, poiché presenta quella caratteristica arrossatura che è data dal calcare tufaceo locale, doveva presumibilmente servire per bruciarvi le interiora delle vittime immolate nei sacrifici. L’altro altare, invece, di forma circolare, pur esso attaccato alla platea del monte, per la forma della conca centrale, doveva servire per le libazioni sacre.
A sud il tempio detto dei Dioscuri è stato scavato un edificio ignoto, di grande sviluppo. Liberato completamente dalle macerie e dalla terra che lo copriva, è apparso un grande edificio rettangolare, con pavimento fatto di cocci di mattoni pesti e calce.
I particolari decorativi (cornici, sime, teste di leoni, eccetera.) denotano già un’età assai avanzata; ma la forma ha fatto riconoscere in esso un esempio di edificio pubblico di età ellenistica romana, formato di uno spazio recinto di colonnato, di ordine dorico, sostenenti un tetto a due spioventi, analogo alla basilica romana.
Detto edificio ha una notevole dimensione, circa metri 55 × 21, ed è un documento della vita che si doveva svolgere ad Agrigento nel I secolo della dominazione romana.
Sono stati ripresi gli schiavi iniziati l’anno scorso al tempio di Giove, che già avevano fruttato la scoperta di alcuni dei colossali giganti nel muro esterno meridionale.
Venne demolita parte della colossale materia formata nel crollo di detto muro e messo in luce il basamento e la gradinata di esso fino alla base delle colonne.
Furono rinvenuti nelle macerie, fra le colonne, sdraiati bocconi, altri due telamoni in buone condizioni di conservazione: di uno specialmente venne rinvenuta la testa con il volto barbuto, nel rigido stile arcaico del secondo decennio del V secolo avanti Cristo. Questa scoperta ha portato la definitiva conferma di quanto lo scavo dell’anno scorso ha fatto intravedere, cioè che la posizione dei Telamoni era nella faccia esterna del muro perimetrale del tempio. Nell’intercolumnio centrale non venne per contro rinvenuta nessuna traccia dell’esistenza dei Telamoni, stante che la maceria era in pessima conservazione, e quindi molti dati di essa distrutti per sempre. Molti altri dati però convergono nel far ritenere possibile sul posto un’apertura laterale.
Nelle macerie vennero ritrovati resti della trabeazione e tra essi particolarmente molte tegole fittili policromati piane e a sezione curva, di cui alcuni esempi in un perfetto stato di conservazione. Altri saggi furono praticati nella parte occidentale del tempio e culminarono con la scoperta del muro esterno occidentale, ciò che permette di rilevare l’esatta dimensione dell’immenso famoso edificio.
Queste opere di fondazione denudate appaiono di una mole immensa: sotto il livello del pavimento esse hanno uno sviluppo di altri 7 m e una larghezza, per il muro esterno, di quasi 6 m. A scavi ultimati si può affermare che l’annoso problema intorno alla precisa collocazione dei giganteschi telamoni del tempio di Giove olimpico sia stato finalmente risolto.
Molto si è pensato e scritto intorno alla precisa collocazione dei suddetti telamoni, e varie sono state le idee manifestate sul riguardo da storici ed archeologi insigni, come il Palmeri, Serradifalco, Kokerille, Politi, Schubring, Winchelman, Roldwey, Puchsteine, infine il Pace e il Peirce. Ma ora non c’è più dubbio: i ruderi dei telamoni trovati bocconi nei dintorni esterni del tempio tra quelli delle colonne, dimostrano che i giganti erano collocati nelle murate esterne del tempio e servivano, insieme alle colonne, per sostegno all’imponente trabeazione e ai frontoni.
Sorge ora chiaro, dimostrazione di quanto sopra, un brano dell’Antica Storia di Sicilia del Fazello (deca prima, libro sesto, capitolo primo) che dice: “Ed ancorché il resto della fabbrica in successo di tempo rovinasse, nondimeno una parte che era appoggiata a tre giganti e ad ed a certe colonne stette gran tempo in piedi, la quale è tenuta dalla città di Agrigento per memoria sino al dì di oggi, e l’hanno aggiunta le loro bandiere. Ma questa ancora per trascuraggine degli agrigentini rovinò l’anno 1401 a nove dì del mese di dicembre”.
Ed in taluni versi lo stesso autore si esprime così:
e sotto il pondo delle gravi e grosse
Mura, piegando i tre giganti il collo,
E le ginocchia, e le robuste spalle,
Ch’eran di quella mole alto sostegno,
Miser ad andar nella rovina estrema.
L’Olimpeion assume, dopo questi scavi, un valore straordinario, poiché ne sarà permessa la ricostruzione. Questi scavi infatti rimetteranno alla luce un Dorico rifuso dalla fantasia di un ignoto architetto, il quale si servì di un’ardita rappresentazione scenografica decorativa in perfetta funzione statica di elemento architettonico.
Questo immenso tempio di 120 m di lunghezza e 55 larghezza, dopo l’Artemision di Efeso, il più grande tempio dell’antichità. Pseudoperiptero, cioè con semicolonne addossate ad un muro di cinta pieno all’esterno, laddove l’architettura greca più regolarmente distendeva il colonnato, si offriva un tipo architettonico non comune dell’arte greca.
Le mezze colonne, profondamente scanellate, dall’echino alto e slanciato, sorgevano su base sobriamente modonata, in numero di sette nei due fronti e 14 nei lati, per 19 m circa di altezza, compresi base e capitello.
Dal pavimento della cella (escludendo lo stilòbate) erano circa 30 m di elevazione.
Per la sua grandiosità la larghezza da centro a centro di colonna risultava di metri 8,10; quindi l’architrave, fatta in due pezzi, rimaneva in fallo nel centro dell’intercolumnio. Or non potendo questa giuntura sottostare all’intera trabeazione, che rimaneva in sospeso, sorse la necessità d’applicarvi un sostegno; da ciò la collocazione dei massicci telamoni, che oltre a sostegno dell’imponente trabeazione, rappresentavano una felicissima ed originale concezione, degna dimora al Dio vincitore dei Giganti a cui fu dedicato, Giove olimpico