Si avviano a scomparire del tutto le poche tracce esistenti del villaggio preistorico dell’età del bronzo (1800 a.C.) che sorgeva nel tratto antistante circa mezzo chilometro dal monte S. Vincenzo, nei pressi di una cava di pietra esistente all’inizio del secolo, a nord est di Caldare; la stessa sorte sono destinate a fare i resti della necropoli micenea che si trovano nello stesso monte S. Vincenzo, lungo tutta la sua cresta rocciosa che va da Caldare fino ai « nove ponti ».
Tutta la zona ove prima doveva sorgere il villaggio è invasa da villini, che non sappiamo se abusivi o costruiti dietro regolare licenza edilizia, le quali costruzioni non soltanto arrecano danno al paesaggio ma certamente non possono fare altro che distruggere le poche testimonianze esistenti del villaggio preistorico di Caldare.
Alcune di queste costruzioni stanno sorgendo anche fin sopra la cresta rocciosa delia collina e, perdurando tale mania costruttiva, si arriverà certamente a costruire là dove ci sono gli ultimi resti della necropoli come è avvenuto in parte nel lato opposto della cresta rocciosa nelle vicinanze dei « nove ponti ».
Il villaggio preistorico che fu riportato alla luce da Angelo Mosso con una campagna di scavi fatta nel 1908 risale al periodo castellucciano, nome che deriva da Castelluccio un centro urbano in provincia di Siracusa che improntò con tutte le sue caratteristiche culturali, per lo stile delle ceramiche e dei manufatti tutta un’epoca.
Il villaggio di Caldare fiorì fino al periodo della civiltà di Thapsos (1400 a.C.) e anche in epoca successiva.
A. Mosso che ampliò gli scavi fatti da P. Orsi alla fine dello scorso secolo, portò alla luce resti di diversi pavimenti di capanne, sovrapposti tra loro e risalenti al periodo che va dall’età castellucciana a quella di Thapsos, come abbiamo detto prima.
Secondo la ricostruzione che ne fece A. Mosso, alcune capanne del villaggio si trovavano addossate alla parete rocciosa dove erano scavate delle alcove. Le capanne erano chiuse intorno con pali « abbastanza grossi e non con semplici frasche. Sembra che tali capanne fossero a livello del terreno e non scavate a fossa…
Dobbiamo ritenere, scrive inoltre il Mosso, che dopo distrutte le capanne non fu abbandonato questo luogo. Anzi debbono essere vissuti per molti secoli gli stessi abitatori che coprirono il fondo delle capanne con uno strato di detriti alto più di un metro ».
Il Mosso durante gli scavi trovò diversi reperti che gli permisero di collocare storicamente il villaggio, molti dei quali reperti si trovano nel museo di Siracusa. Tra le altre cose trovò quattro astragali, tre corna votive, scheggi di selce lavorata, frammenti di macine e di conche calcoltelli di ossidiana e un idolo femminile « di argilla chiara, fine e ben cotta », che nella parte superiore presenta tre sporgenze e un buco tra le mammelle e due ai fianchi, tutti alla stessa altezza.
L’idolo, secondo la classificazione di P. Orsi, risale al primo periodo siculo e somiglia molto ad altri idoli presenti a Cipro.
A. Mosso nel 1908, oltre a condurre gli scavi che riportarono alla luce il villaggio preistorico, esplorò anche circa settanta tombe della necropoli del monte S. Vincenzo e ne descrisse minuziosamente alcune.
Le tombe a forno, scriveva, molte delle quali sono andate distrutte per le erosioni atmosferiche e per le manomissioni dell’uomo, sono scavate nella roccia ed hanno un’apertura circolare dal diametro di circa cm. 52, mediante la quale ci si immette in un corridoio lungo circa cm. 20 che porta in una cavità ellissoidale leggermente inclinata a sinistra, alta circa cm. 70, profonda m. 1,20 e larga m. 1.40.
Le tombe non sono tutte uguali: alcune sono doppie, altre comunicano tra di loro e appartengono ad un intero nucleo familiare, mentre altre appartengono ad un periodo più recente e presentano una camera grande, larga esse hanno l’entrata volta a mezzodì, con due o tre scalini bene incavati nella roccia per scendere nella cella. In una di queste tombe trovai Le tombe più antiche si trovano nella parte della cresta rocciosa del monte S. Vincenzo che dà verso Caldare mentre quelle più grandi e più recenti sono nell’altra parte della cresta rocciosa verso i « nove ponti ». A. Mosso nel descrivere l’esplorazione che fece di quest’ultime così scriveva: «
Altre tombe maggiori trovai nella collina dove crescono i carrubi; quattro crani e molte ossa sconvolte. Si capiva che la tomba era stata frugata, ciò nullameno volli svuotarla con cura. Dalla porta quadrata (dinanzi alla quale credo manchi un pezzo di corridoio) si scende con due gradini scolpiti nella pietra sui pavimento che sta circa mezzo metro più in basso della soglia. Contro alla parete in fondo trovai intatta una tazza col manico lungo come adoperavansi quale attingitoio per evitare di immergere le dita nel vaso da cui prendevansi il vino. La tazza (…) col manico rotto è completa. Questo Skyphos è di carattere così prettamente miceneo che basta esso solo per stabilire con approssimazione la data del sepolcro. Esso è di argilla rosea col diametro di 9 cm. e alto 55 mm.: ha sul manico una decorazione di semplici linee orizzontali fatte di color rosso e nero ».
Altri ritrovamenti furono fatti nelle tombe alla fine del secolo scorso tra cui due anfore « alte cm. 32 e 45 plasmati di una creta bigia nell’una e rossastro nell’altra ».
Francesco Graceffa, il villaggio preistorico di Caldare, in La voce di Aragona, marzo 1988, a