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Storia di Akragas La Battaglia di Himera

31 Agosto 2014 //  by Elio Di Bella

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Il tiranno di Akragas Falaride, cercando di aprire sull’opposta riva della Sicilia uno sbocco ai movimenti commerciali della sua città, tentò di conquistare la città d’Imera, considerata sotto l’influenza della potente Cartagine. Aiutò pertanto, più o meno segretamente, gli oppositori del tiranno imerese Terillo.
Il tentativo venne ripetuto più tardi e portato a termine dal successore del tiranno agrigentino, Terone, il quale riuscì a spodestare Terillo. Quest’ultimo chiese aiuto a suo genero Anassilao, signore della città di Messana (l’odierna Messina); il quale, però, considerando le proprie forze insufficienti, si rivolse ai Cartaginesi. Come prova della sincerità delle sue intenzioni e della sua fedeltà, Anassilao giunse a consegnare ai Punici in ostaggio i propri figli.
Per indurre i Cartaginesi all’intervento armato in Sicilia, gli ambasciatori messinesi misero inoltre in rilievo il pericolo che per la stessa potenza punica costituiva il risveglio dell’espansionismo greco-siceliota. I generali cartaginesi decisero pertanto di intervenire.
Partita dalla coste africane, la flotta punica, costituita da 300 mila armati e più di 2000 navi di battaglia, era accompagnata anche da 3000 navi da trasporto, da provvigioni e da cavalli perché si riteneva che l’impresa sarebbe durata diversi giorni. Ma appena uscita dai porti Cartaginesi, quella potente armata venne in buona parte dispersa da una furiosa tempesta. Amilcare col resto delle navi approdò a 24 miglia da Imera, poiché la città era già stata occupata dalle milizie agrigentine.

Per descrivere gli eventi successivi ci affidiamo adesso al racconto che di questa storica vittoria degli Agrigentini ce ne ha fatto l’erudito Giuseppe Picone nella sue “Memorie storiche agrigentine”:
“Sbattuto in Panormo, (Amilcare) rinfrancò lo esercito, e marciò con esso per Imera, dove giunto, piantò due accampamenti, uno pelle truppe di terra, l’altro per quelle di mare.
Così ben disposte le cose, col nerbo dello esercito, mosse ad assaltare Imera, dalla parte dei giardini, quando veniva affrontato da uno squadrone d’Imerei, che tumultuari e disordinati, venivano al primo impeto rotti, e, messisi in fuga, molti ne morirono, altri ricoverarono entro le mura.
Gli abitanti ne rimasero sbigottiti; di che avvedutosi Terone, che era a guardia della città, e, considerate le forze del nemico, mandò di presente in Siracusa, chiedendo l’aiuto promessogli da Gelone, che con cinquantamila pedoni, e cinquemila cavalli, che da lui eran tenuti in ordine, a grandi giornate marciò per Imera.
Lui giunto, la paura cedette all’ardire e alla speranza.
Gelone accampavasi vicino la città; cinse i suoi alloggiamenti di fosse e di trincee, e mandò i suoi cavalli contro i cartaginesi, che, stretti da penuria, andavano, senza ordine, qua e là per provvedersi di vettovaglie.
La cavalleria siracusana irruppe sui nemici, colti alla spensierata, e messili in iscompiglio, ne uccise moltissimi, e più di diecimila prigionieri menò entro la città.
Gelone, pensato, come disfarsi di tanta moltitudine di nemici, col minor possibile danno dei suoi, disegnò, e condusse a buon termine quanto segue: I suoi soldati avevano sorpreso legati di Amilcare, con lettere, pelle quali chiedeva dai Soluntini, che gli mandassero un certo numero di armati nel giorno, in cui egli avrebbe sacrificato a Nettuno.
Gelone si valse di quelle lettere, e scelti i più animosi fra i cavalieri, ordinò, trapassassero le trincee nemiche, uccidessero Amilcare, dessero fuoco allo accampamento cartaginese.
La vigilia del sacrificio, i cavalieri greci si avvicinarono travestiti al campo dei barbari, dai quali furono festevolmente accolti.
Era appena spuntata l’alba, quando gl’inviati da Gelone davano alle fiamme gli alloggiamenti delle navi nemiche, e trucidavano Amilcare, che sacrificava a Nettuno. Altri scrive, che Amilcare, nel calor della mischia, fosse portato via, e non fosse più riapparso; altri, che, mentre sacrificava, veduta la rotta dei suoi, si fosse da se bruciato in una grande catasta di legna, che gli ardeva vicino.
Per ordine di Gelone, alcune sentinelle, dai colli vicini alzavano il segno del tumulto, destato in mezzo ai nemici.
Allora gli eserciti nostri irrompono celermente sul campo dei Cartaginesi, di cui i capitani si apparecchiavano a combattere.
Pugna sanguinosa – molti cadono dall’una banda e dall’altra – gran menar di mani – altissimo clamor di voci – la vittoria è dubbia – le navi cartaginesi ardono – Amilcare non è più! – I barbari ne sono colti da tanto terrore, che cominciano a rompersi.
Gli Acragantini, gl’Imerei, i Siracusani, cui fu data legge, non dessero quartier di vendetta a chi che si fosse, ne uccidono centocinquantamila.
Il resto si ritirano in luogo naturalmente fortissimo, onde resistere, per solo ardore di vendetta, perché tolta loro ogni speranza di salvezza; ma, chiusi in luogo arido, privi di acqua, si arrendono vinti.
Dall’incendio venti navi lunghe soltanto camparono, le quali, per forza di remi, eransi allontanati dal lido, ma perché troppo cariche di fuggitivi, e per furiare di mar tempestoso, annegarono tutte, essendo restati da quel naufragio quei pochissimi, che su picciolo battello, recarono a Cartagine la nuova di tanta rovina.
Nello stesso giorno, che risponde al 19 ottobre del 480 avanti Cristo, nella Olimpiade LXXV, Temistocle sperdeva gli eserciti di Serse, nella battaglia di Salamina”. Così si conclude il racconto di Picone. Subito dopo Imera venne affidata da Terone al figlio Trasideo. Agrigentini e Siracusani fecero un ingente bottino in schiavi e beni preziosi. E’ noto che molti di questi schiavi vennero impiegati per la costruzione dei templi agrigentini, tra cui il tempio di Giove Olimpio.

di  ELIO DI BELLA

Categoria: Storia AgrigentoTag: amilcare, battaglia di himera, cartaginesi, punici, sicilia, storia della sicilia, storia di agrigento, storia di akragas, terone

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