Origine di Agrigento e di Porto Empedocle
La contrada Balatizzo
1. Che le due colline attigue siano state separate da un baratro insormontabile, io lo rilevo in modo sicuro da alcune osservazioni di fatto, le quali mettono capo alla fondazione della citta di Agrigento, e più specialmente alle origini di Porto Empedocle—e mi spiego:
Noi non sappiamo in quale anno o in qual tempo preciso gli agrigentini abbandonarono il suolo dell’antica città e con essa il porto vicino, per venirsi a rincantucciare sulle alture del Colle di Agrigento; non abbiamo sul riguardo nè documenti nè testimonianze, e quindi per poterlo stabilire dobbiamo ricorrere a quelle osservazioni che per avventura potranno avervi relazione.
Comincio dall’esaminare le condizioni dei luoghi, e confrontarli. Ebbene, a considerare che quei cittadini lasciarono una città fabbricata, pianeggiante, vicina al mare ed all’emporio, con tutte le comodità, che derivano da tali circostanze, per ritirarsi sul cocuzzolo d’un’aspra montagna, si riceve spontaneamente l’impressione, che la cosa dovette avvenire a scopo di difesa in un’epoca in cui essi non seppero trovare altro scampo alla loro salvezza e andarsi a fabbricare le nuove abitazioni. Quel confronto ci lascia pensare altresì a quest’altra ipotesi : dovevano esser ridotti di poco numero, e nella impossibilità di difendere l’esteso territorio dell’antica Agrigento, e decisero perciò di abbandonare le loro case per restringersi in un locale limitato, scegliendo a tal uopo le alture della nostra collina alpestre, ed impervia, adatta precisamente alla loro bisogna.
Pare altresì che i cittadini abbiano preso quella deci¬sione in tempi calamitosi ed in ispecie in previsione di un’invasione nemica; difatti ebbero l’agio di provvedere alla pratica attuazione del loro disegno, fabbricando un’intera città: la qual cosa richiede certamente un po’ di tempo.
Due fatti notevoli mi confermano quelle supposizioni : in primo luogo anche oggi — e specialmente nei quartieri alti — le strade sono tutte erte, strette e tortuose, e sembrano costruite apposta allo scopo che i pochi cittadini avessero potuto tener testa a numerosi invasori.
Di più; trovo nel sottosuolo della stessa città i famosi ipogei agrigentini: ottimi per fare sortite ed improvvisi assalti contro i nemici, e per le relative ritirate, e li giudico creati in occasione della fondazione della nuova città ed in dipendenza dello stesso concetto di difesa da probabili invasori.
Nel dire questo so bene di contradire l’opinione dei più, manifestata intorno ai nostri sotterranei, chiamati pure il laberinto di Agrigento; essi li vogliono opera dei Sicani, mentre, secondo me, furono praticati in occasione della fondazione di Agrigento, ed al medesimo scopo di difesa.
Mi allontanerei troppo dal mio argomento, se dovessi giustificare qui la mia opinione; lo farò brevemente nel capitolo seguente che servirà come spiegazione o giustificazione di quanto ho qui affermato.
Queste sono le osservazioni e i rilievi, che si possono fare nell’esaminare e confrontare i luoghi dell’antica e della moderna città.
2. In quanto al tempo in cui sarebbe avvenuta la fondazione della nuova Agrigento metto in rilievo questi due fatti : dimostrerò nel Cap. XXV che il porto e l’emporio degli Agrigentini giacevano a sud delle mura, nella contrada S. Leone. Qui infatti si trovano continuamente oggetti appartenenti alla civiltà greca, romana, bizantina ed araba. E per dire fin da ora in che cosa consistano gli avanzi di quest’ultima civiltà, dichiaro che vi si rivengono spesso monete, brocche, tegole, vasi ed altro, e poi esistono due senie ed alcuni avanzi di fabbricati. Questa constatazione di fatto dimostra in modo evidente, che il nostro emporio fu ininterrottamente abitato dall’epoca della fondazione dell’antica città sino al tempo della dominazione araba.
Di fronte a questa osservazione sta l’altra constatazione di fatto: i Normanni allorquando occuparono il nostro paese in modo definitivo, trovarono la città bella e fabbricata, sopra la collina di Agrigento, e non più sul suolo della Civita : il Picone, con quella erudizione senza confini che lo distingue, dimostra ciò con varii documenti (1) a me basta soltanto constatare, che appena i Normanni si stanziarono in questa città, cominciarono ad erigervi le loro chiese, e, — per esempio — il primo nucleo della nostra cattedrale fu costruito dal primo vescovo di Agrigento dopo la restaurazione della religione di Cristo, da S. Gerlando, cugino del Conte Ruggiero, e perciò nei primi anni della conquista normanna.
Queste due constatazioni di fatto mi portano a stabilire un minimo ed un massimo in ordine alla fondazione della moderna Agrigento. Non si può arrivare alla conquista normanna— al 1087—perché essa allora esisteva perfettamente. E non si deve supporre al tempo in cui gli Arabi fiorivano, perché essi allora abitavano l’antico porto e l’antica città. Ritengo perciò che Agrigento sia nata nell’epoca della decadenza della dominazione araba, e delle prime incursioni dei Normanni — e per fare una cifra approssimativa su per giù intorno al 1000.
3. II Picone suppone l’origine dalla nostra città quasi due secoli prima: nell’828 — egli dice — Agrigento fu espugnata dai primi Arabi, condotti da Eufemio di Messina, e dopo un anno fu da essi distrutta e abbandonata. Ritiene perciò che i cittadini, rimasti allora senza tetto, sarebbero venuti a fabbricare una nuova città sulle alture del colle vicino. Non ci spiega però per qual motivo non avrebbero riedificato le loro case, ed avrebbero preferito di cambiar sede. Egli viene a tale conclusione, solamente perché due storici arabi da lui tradotti accennano alla distruzione di Agrigento; senonché egli stesso dichiara che Michele Amari nel tradurre quei due testi arabi non è d’accordo con lui nel ritenere che in quella occasione la città sia stata rasa al suolo (2).
Io non conosco l’arabo, e quindi non sono al caso di esporre il mio convincimento in proposito; osservo però che quando gli scrittori — antichi e moderni — vogliono dire che una città è stata distrutta dalle fondamenta — come sarebbe avvenuta per la nostra Imera, per Cartagine — lo fanno capire abbastanza; limito dunque le mie osservazioni alle sole constatazioni di fatto, le quali del resto conducono sempre a risultati pratici.
E cosi, dopo di avere esposto sopra, che le fabbriche più antiche, in Agrigento, sono dell’epoca normanna, aggiungo che non ci si riscontra nessun avanzo di costruzione araba. Lo ammette lo stesso Picone : egli è un fatto — dice — che in Agrigento non esiste nessun avanzo di edificii, nessuna iscrizione, nessun monumento, che accenni alla storia di quei tempi » (3).
Tale rilievo per me ha molta importanza, per la ragione che se la nostra città fosse sorta davvero nell’829 e si fosse sviluppata nel tempo successivo, da quell’anno alla conquista normanna — per due secoli e mezzo — che val quanto dire per tutto il periodo della dominazione araba in Sicilia, avrebbe avuto questo popolo come dominatore e prevalente. La conseguenza di questo predominio dell’elemento arabo si sarebbe notata certamente nelle fabbriche della città nascente, e le costruzioni, tutte o quasi, avrebbero portato l’impronta dell’arte orientale, sicché la nuova Agrigento avrebbe avuto l’aspetto di una cittadina araba. In tale ipotesi — io ritengo — gli avanzi di quelle fabbriche non si sarebbero potuti cancellare del tutto, come non si sono cancellati a Palermo, e noi oggi li dovremmo riscontrare e riconoscere. Fazello nel descrivere le cose notevoli esistenti in Palermo fa menzione dei monumenti arabi, e nulla dice in proposito riguardo alla nostra città, la qual cosa significa che non soltanto oggi, ma neppure quattrocento anni or sono esistessero avanzi di opere arabe da noi; dunque non ve ne furono fatte.
Abbiamo, è vero qualche nome di origine araba dentro le stesse mura della città, come Beberria (4), Rabato ed altre, ma questo fenomeno si spiega con l’influenza esercitata dalla fiorente letteratura araba, la quale si impose ai popoli vinti e poi anche ai conquistatori Normanni. (5)
Adunque, è un fatto certo, che gli Arabi, almeno nei tempi in cui fiorirono, abitarono l’antico emporio e l’antica città degli Agrigentini; è positivo altresì che non troviamo alcuna traccia dei medesimi sulla moderna Agrigento, ed infine, che i Normanni allorquando conquistavano definitivamente il nostro paese, trovarono la città bella e fabbricata.
Ecco perché dicevo che la fondazione della nuova Agrigento si deve collocare in quel turno di tempo, in cui la potenza degli arabi declinava ed i Normanni facevano in Sicilia le loro scorrerie.
Nessuno potrà dirci se la nuova città abbia avuto sin dal suo nascere una porta della estremità orientale della collina, la quale desse perciò sul taglio di Empedocle, ma, qualche secolo dopo, la potente famiglia dei Chiaramonte nel circondare di mura e di torri Agrigento, vi costruì la Porta di Ponte. Il solo nome indica che quella porta era «lumia di un ponte levatoio, e che quel ponte doveva essere calato sopra un baratro inaccessibile. Essa dunque fu ottima dal punto di vista strategico perchè inespugnabile, ma inadatta a servire come uscita normale della città, e metterla in comunicazione col suo territorio e coi paesi vicini.
La città fu fabbricata in tempi torbidi, ma quando si furono rasserenati, fu necessariamente avvertito il bisogno di una via verso quella parte, in cui riuscisse facile lo scambio dei prodotti propri con quelli altrui, ed in ispecie di avere un accesso al mare: gli Agrigentini crearono appositamente allora una porta a tale scopo, che chiamarono Porta di Mare; ma nel punto opposto alla Porta di Ponte, nella estremità occidentale della collina, un centinaio di metri prima della Porta Mazzara; ed insieme alla porta dovettero aprire necessariamente la trazzera, che unisce la città con la spiaggia sottostante. Questa trazzera è tutt’ora perfettamente riconoscibile nonostante gli usurpi ed il cambiamento di destinazione subiti: scende giù dalla Porta di Mare e va sino al fiume; dal fiume al mare poi è stata in massima parte occupata dalla strada rotabile, ed in qualche parte serve ancora all’uso, a cui in origine fu destinata.
Dal bisogno della nuova città di avere un’uscita possibile ed uno sbocco verso il mare, e per mezzo della via teste cennata, ebbe origine sulla spiaggia una borgata indicata negli atti notarili sino ad un secolo fa col titolo di Caricatore di Girgenti, e volgarmente il Molo, il Porto di Agrigento, oggi l’industre e fiorente cittadina di Porto Empedocle.
Ora io domando: Perchè gli Agrigentini aprirono la Porta di Mare ad occidente della collina, e non si servivano di quella ad oriente, che era più vicina all’antica città ed al suo porto? — Perchè non continuarono a servirsi dell’emporio avito già bello e fabbricato? — Perchè aprirono una strada lunga e malgevole onde arrivare alla spiaggia, e non attaccarono piuttosto la porta ad oriente con le strade dell’antica Agrigento?

La distanza che separava la Porta di Ponte dalla collina Atenea è soltanto di poche centinaia di metri; non si doveva superare altro che la larghezza e la profondità della Nave, e si sarebbe arrivati sul suolo della Rupe Atenea, dove, se le strade dell’antica città non giungevano direttamente, poco ci mancava.
Ma questo non fu fatto, i cittadini non poterono utilizzare le vie dell’antica Agrigento e sino al mare, dovettero rinunziare al vantaggio di un porto e di un emporio più che millenari, e fabbricare una trazzera lunga ed incomoda, e le case, e i magazzini di deposito del loro Caricatore, in una spiaggia scoperta ed infida (6). Ebbene, tutto questo dimostra con l’eloquenza semplice dei fatti, che la cosa non riuscì loro possibile; a nessuno infatti, è piaciuto mai di andare incontro a spese, disagi e fatiche potendole evitare, ed infine dei conti per ottenere un risultato meno buono. E ripeto tutta la difficoltà consisteva nel poter superare la linea di demarcazione tra il colle di Agrigento e la Rupe Atenea, il taglio di Empedocle, o per dare ai luoghi i nomi odierni, non riuscì possibile ai cittadini attaccare la nostra Porta Atenea con la chiesa di S. Calogero o col Viale Cavour.
Ciò posto, bisogna concludere che prima del riempimento della Nave quel taglio era così profondo e cosi aspro da obbligarli a rinunziare a tanti vantaggi e sottomettersi a tante fatiche: dei due mali si sceglie il minore, così dice l’esperienza antica, e fu giudicato male minore aprire la Porta di Mare, la sottostante trazzera, e fabbricare il caricatore in una spiaggia esposta ai venti e alle tempeste, anzi che costruire una strada possibile traverso il taglio di Empedocle. Ma era destino, che, precisamente a cagione di quel taglio dovesse sorgere una nuova città, la quale si dovesse fregiare del nome del grande Filosofo.

2. E sul proposito mi piace di fare un accenno alla contrada Balatizzo, sita in prossimità della trazzera, che scende giù dalla Porta di Mare, e che ha qualche relazione con l’argomento in esame; e del resto costituisce per se stesso un argomento non del tutto trascurabile in un lavoro sulla topografìa di Agrigento
Aperta la via fra la città ed il suo caricatore, ne avvenne quello, che vediamo succedere ogni giorno e in ogni paese che i centri abitati cioè si sviluppino maggiormente verso il punto in cui affluisce il commercio, versa il porto o le stazioni ferroviarie. Nella nuova Agrigento, infatti, fin dai primi tempi della sua fondazione nacque un sobborgo nella parte occidentale della collina, in prossimità della Porta di Mare a cui fu dato il nome di Rabato o Rabatello. Quel nome di origine araba, costituisce prova che quel sobborgo sorgeva in un’epoca, in cui non era spenta del tutto l’eco di quella letteratura; e perciò nei primi tempi della nuova città.
E degna di nota altresì la contrada Balatizzo, sottostante alla chiesa di S. Francesco di Paola, in prossimità della trazzera, che da Porta di Mare scende giù e che doveva far parte del sobborgo. Qui sono le fondamenta di una quantità di case intagliate nel vivo sasso, con strade che le separano le une dalle altre; e nell’insieme danno l’immagine di un villaggio diroccato.
Il sito di quella borgata dà a vedere che in origine la città di Agrigento si sviluppava a preferenza sulla via, che serviva maggiormente al traffico, ed in conseguenza verso il sobborgo e la parie meridionale del Rabbatello.
Il mio amico Dott. Salvatore Bonfiglio in una apposita pubblicazione pretende, che ivi sia stato un villaggio dell’epoca bizantina, io ho sempre dissentito da quella supposizione, trovandola sfornita di qualsiasi giustificazione, ed anzi ho degli argomenti per ritenere il contrario.
Ho accennato sopra, e dimostrerò meglio a suo luogo, che l’emporio della antica Agrigento giacque là giù nelle terre S. Leone fino agli ultimi tempi della dominazione araba; è implicito perciò, che sia stato colà anche nei se¬coli precedenti, e quindi nel tempo della dominazione bizantina in Sicilia. Come dissi per le monete arabe, posso affermare ugualmente che nelle terre di S. Leone si trovano spessissimo delle monete bizantine — Jollis di Giustiniano e degli imperatori successivi, ed in abbondanza poi altre monete di bronzo battute in Catania. Nel mio monetario si riscontrano molte di tali monete, trovate quasi tutte nella terra di mia proprietà.
Questi rinvenimenti dimostrano all’evidenza che i Bizantini si servirono pel porto e dell’emporio di Agrigento.
Ciò posto, io osservo, se nel tempo della loro domina¬zione il porto si trovava sulla spiaggia di S. Leone e la cit¬tà nelle vicinanze dei nostri tempii, che cosa sarebbero venuti a fare i nostri cittadini ed i Bizantini di quell’epoca nella estremità sud-ovest della collina di Agrigento, lontana otto o dieci chilometri dalle loro abitazioni?
Ed invece, un documento storico mi dà la spiegazione del tempo e del perchè tutte quelle case crollarono, e non furono più ricostruite. A pag. 158 del pregiato lavoro storico-legale dell’avv. Salvatore Tomasino « Le vendite col verbo regio e scudo di perpetua salvaguardia in Sicilia » si leggono le seguenti notizie da lui tolte da una impor¬tantissima opera di un mio bisnonno; Avv. Carlo Caruso, Sylva terminorum. Dal 1523 al 1530, per sette anni continui la peste fece strage in Sicilia.
Agrigento, città allora popolosa, ne rimase deserta a segno, che col trascorrere degli anni, le case vuote e senza le necessarie riparazioni « . … andavano in rovina, e non più di case presentavan figura, ma più presto di miseri casolari, e con voce anco propria eran detti casalini, i giurati di Agrigento supplicarono il Viceré nell’anno 1609 perchè desse loro facoltà di riedificare quei casalini bensì con essere esenti di tutti i pesi di qualunque natura: il Viceré marchese di Vigliena con lettere del 3 dicembre 1609 aderiva alla domanda e provvedeva in questo modo »
ed il Tomasino riporta dall’opera del mio illustre bisnonno il testo delle lettere del marchese di Vigliena, ed il tenore delle agevolazioni date per la riedificazione dei casalini.
Ora, la domanda dei giurati di Agrigento mi spiega quando e perchè crollarono quasi tutte le case della città.
Circa ad un secolo dopo le lettere del Viceré ne resero possibile la ricostruzione. Ma le case del Balatizzo non poterono godere delle agevolazioni ottenute ed essere ri¬fabbricate, perchè mano mano che la città apriva nuove strade più praticabili, e direi più possibili della trazzera, che mette capo alla Porta di Mare, la contrada Balatizzo non venne a trovarsi più sulla via del traffico e del commercio, e quindi perde ogni importanza ed ogni valore; e lo stesso Rabatello, che in principio ebbe uno sviluppo rapidissimo, non seguitò a crescere e prosperare e il movimento della città veniva a spostarsi dalla parte occidentale della collina verso la parte orientale.
note
(1) Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine, Pag. 861 e seguenti
2) Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine, Pag. 861 nota 1
3) Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine, Pag. 353
4) il Picone per il primo Op. Cit. — pag. 278 — nota l -ed oggi io insisto ugualmente nel rilevare un errore grossolano del nostro Municipio di cambiare il titolo di Porta Plebe Rea alla nostra Bebberria. Il Picone dimostrato che quella parola è di origine araba, e significa Porta dei venti ed il nome corrisponde esattamente alla condizione del luogo, imperocché alla Beberria il vento non manca mai. La versione del Municipio, invece, mette capo ad una tradizione poco seria: si vuole che il primo vescovo di Agrigento sia stato S. Libertino, vissuto intorno al 250 d.C. Egli sarebbe stato vittima delle persecuzioni del cristiani ordinate dagli Imperatori romani ai tempi di Decio o di Valeriano. Ebbene, morendo, se la sarebbe pigliata coi suoi concittadini, che poi non ci entravano per nulla, ed avrebbe esclamato: Gens iniqua plebs rea non videbitis ossa mea. Dopo morto avrebbe fatto aprire uno speco nella montagna, si sarebbe trascinato là dentro, ed avrebbe fatto richiudere lo speco; sicché le ossa non si sono trovate più. Ecco la Plebe Rea del nostro Municipio. Noto, intanto, che malgrado quel battesimo, il nostro popolo seguita a chiamare Beberria quella porta e la contrada.
5) Mi basterà notare in proposito che le monete dei primi re normanni sono bilingui; hanno cioè la scritta con caratteri latini da una parte e dall’altra con caratteri arabi
6) Holm – op. cit. pag, 291, nota che il sito del porto di oggi è più infelice di quello dell’antica Agrigento, che si trovava più verso levante, alla foce del fiume
Michele Caruso Lanza, Osservazioni e note sulla topografia agrigentina, Agrigento, 1931