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ingresso di ipogeo agrigento

Agrigento, una esplorazione negli Ipogei nel 1910

7 Novembre 2020 //  by Elio Di Bella

agrigento ingresso di ipogeo

Gli ipogei di Agrigento

1. Nel capitolo precedente ho notato che l’opinione comune vuole quei sotterranei opera dei Sicani; e prima di averli visitati anche io credevo cosi: lo dicevano tutti — lo hanno scritto archeologi di grido — non vi era ragione per dubitarne.

Lionardo Vigo li giudicava di 2800 o 3000 anni prima di Cristo concludendo.- «Non è quindi impossibile che la città di Cocalo … . sia quella che io percorsi il 17 del caduto settembre ( 1827 )  la forma poi di un laberinto e tutti quegli andirivieni, che ivi sotto si scorgono, mi persuadono vieppiù, che ben vi si addice quel nome, e che il lavoro svela l’ingegno di Dedalo   ». (1)

Niccolò Palmeri, a cui la lettera del Vigo è diretta, ne segue le impressioni — per essi i miti di Dedalo e di Minos sono storia autentica, — sicché anche il Palmeri ritiene quei sotterranei opera di Dedalo, la regia di Cocalo in cui venne a trovare la morte Minos. Non mi so spiegare però che  cosa egli intende dire con queste parole: «Quell’edificio è tagliato nel vivo sasso. Col volgere dei secoli è divenuto un vasto sotterraneo …. » (2).

Il Picone, mi pare, che vada più oltre riguardo al tempo, ritenendo i nostri ipogei del periodo mitico dei ciclopi, dei lestrigoni e dei trogloditi : « Quest’ipogei presentano la prima epoca dell’architettura, che fu detta trogloditica …». ma finisce col dire « io confesso ignorare la destinazione dei nostri ipogei   » (3) .

Lo Schubring, dopo un’osservazione esatta viene ad una conseguenza che non sta in armonia con la premessa : « Parimenti io non mi dissimulo che i tagli regolari delle camere condotti con qualche eleganza e di certo col mezzo di strumenti di ferro, dimostrano una tecnica assai progredita, e quella specie di pilastri tagliati in rilievo nelle pareti si avvicinano alla cognizione della pietra lavorata a concio.

Nondimeno io confesso, che inclino ad altro parere e cioè che queste gallerie siasi opera Sicana ». (4)

A me è successo quel che si dice: Roma veduta, fede perduta; e dal giorno della visita fattavi ho cambiato opinione.

Nel febbraio 1910 la Commissione Provinciale per la conservazione dei monumenti, di cui faccio parte decise di visitare quei sotterranei per averne conoscenza diretta e potere così formulare i propri desiderata al Governo. Siamo entrati da quello, che oggi costituisce l’ingresso principale sulla Piazzetta del Purgatorio. Questa Porta ed il primo tratto del sotterraneo furono fatti costruire dal governo borbonico a richiesta della Commissione di Antichità e Belle arti del tempo (5), mentre sino allora bisognava calarvi legati con le corde fra stenti e pericoli traverso pozzi e caverne appartenenti a case private e quindi dopo di avere ottenuto il permesso dei rispettivi proprietari. Questi inconvenienti si rilevano dalla narrazione del Vigo e perciò l’apertura in parola rappresenta un grande vantaggio per i visitatori. Ho creduto doveroso fare quest’avvertenza per evitare che altri incorra nello stesso errore dello Schubring, il quale crede che questa entrata sia antica : «come pure è indubitato che il lungo cunicolo che riesce alla piazzetta del Purgatorio era una di queste uscite e certamente per nessuna altra via poteva essere tratto fuori il materiale»

Nell’escursione eravamo preceduti e seguiti da lumi camminando fra una fanghiglia molestissima. E si capisce; le gallerie sono sottostanti ad una montagna permeabile, e specie nel cuore dell’inverno, (in cui la Commissione fece la sua visita) l’acqua filtrava a goccia a goccia dal tetto e dalle pareti. Il pavimento tocca lo strato dell’argilla, e quindi fra acqua, creta e detriti della roccia, vi si è formato uno strato di fango densissimo.

Volgemmo a sinistra e, dopo il percosso di cento metri circa, arrivammo in una prima stanza, e dopo gli opportuni rilievi, procedemmo per altri tre o quattrocento metri, fra quell’uggia dei luoghi umidi e scuri, riscontrando quella tale monotonia di stanze ed andrivieni descrittaci dal Vigo, onde credo di far meglio esponendo lo stato dei luoghi con le parole di lui :

«Ogni stanza per lo più quatrilunga comunica irregolarmente con altre tre o quattro; o queste con altre, talchè ciascuna è centro a molte, che la circondano; ciascuna più o meno è alta da 10 in 12 palmi, larga da 16 a 24; l’antico suolo ingombro dai caduti massi o dalla creta, è ineguale, scende come la montagna, ed è coperto di stalammiti, il tetto orizzontale lo è di stalattiti; vedesi ancora nel tufo calcare il taglio dello scalpello, che l’incavò; le mura intermedie sono grosse da 6 ad 8 palmi; le comunicazioni non si guardano, non avvi vestigio di porta. Ad ora ad ora incontraronsi nel tetto delle aperture otturate dalla terra caduta, che ha preso la forma di un cono, le camere si ripetevano e gli incomodi non minoravano. A 100 canne vidi questa leggenda nel tufo: 1. Houel. 9. 1776 » (6).

Alla descrizione del Vigo aggiungo questi altri particolari interessanti : il Picone ripete in poche parole le cose dette da quest’ultimo scrittore, e nota egli pure che «   

sulle pareti si scorgono pronunziati e come di fresco i colpi del piccone » (7). Lo Schubring rileva che i sotterranei « si estendono assai più ad oriente che ad occidente ». (8) — Confermo anch’io tale notizia; essi hanno la pendenza dà Nord – Est a Sud-Est della nostra collina ed aggiungo, che giammai mi è stato dato sentire che nelle case site sul quartiere S. Croce, compreso il Rabatello si trovino bocche di immissione a quegli ipogei; essi dunque sono dappertutto sotto la crosta della collina sulla quale si eleva la moderna città, ma non si può dire altrettanto riguardo al suo sobborgo.

Per completare la descrizione riferisco un rilievo fatto da uno dei Componenti la Commissione, dall’ing. Filippo Mendolia, cioè che ammonticchiati ai piedi delle pareti tanto dei corridoi come delle stanze si trovano dappertutto i detriti del taglio della roccia : sono le bricciche, pezzetti, e i rottami, anche di un certo volume, che cascavan giù quando veniva eseguito il taglio della montagna, e che perciò furono lasciati sul posto.

Infine, l’iscrizione dell’Houel, letta dal Vigo è stata riscontrata dal Picone, dallo Schubring e dalla Commissione, cui parve come l’unico segno di vita in un locale morto.

Questo è lo stato dei luoghi.

2. In ordine al tempo della costruzione, comincio dal rigettare l’opinione del Vigo, che vuole i nostri ipogei opera di 3000 anni prima di Cristo — quasi 5000 anni fa. — All’uopo rilievo che tutti gli scrittori sopra riportati — il Vigo compreso — notano che il lavoro è stato condotto con tecnica sviluppata e con eleganza.

Da parte mia, nell’osservare la costruzione di quelle stanze, delle mura intermedie, dei pilastri e dei pozzi d’aeraggio, ogni cosa solidamente costruita, non posso che confermare la grande maestria adoperata in quelle escavazioni. Tale perizia si rivela anche nei particolari dell’opera, per esempio nel modo, e direi meglio, nell’arte di tagliare la pietra; la roccia si vede intaccata con ordine e simmetria; in tutte le pareti i blocchi di pietra vi furono tolti a file orizzontali, una sopra dell’altra, ogni blocco distaccato era un parallelepipedo rettangolare della lunghezza di 40 centimetri, o poco più, con circa 30 centimetri di altezza e larghezza; in alcuni punti i colpi del piccone sono vivi, sembrano freschi, in altri il lavoro pare sospeso momentaneamente per essere ripigliato indi a poco; in quanto che qualche concio di pietra, nettamente disegnato, rimase attaccato alla parete solamente da un lato. L’interstizio fra un blocco e l’altro, cioè l’incavo fatto dal piccone nella ‘roccia è di due a tre centimetri, la qual cosa dimostra che i picconi adoperati erano sottili. Ora tutta quella larghezza di vedute nel concetto dell’opera, e la maestria dimostrata nel tagliare la pietra, non credo che competano ad una civiltà cotanto antica.

Il Picone ravvisa in questi sotterranei un’opera appartenente ai primi albori dell’arte e dall’architettura, all’epoca dei trogloditi — cioè di quegli uomini selvaggi, che abitavano sotto terra — ma la descrizione dei nostri ipogei da se sola basta a far capire quale e quanta sia la differenza tra i medesimi e le grotte, che servirono all’uomo dell’epoca quaternaria come abitazione, o più propriamente come ricetto avverso i rigori delle stagioni.

Queste furono materia di studio meglio dei paleontologi, che degli archeologi.

Ma, il Picone osserva che sotterranei simili si riscontrano in Creta in Egitto, a Nauplia e altrove. Innanzi tutto quei monumenti sono molto diversi dai nostri, e poi bisogna ricordarsi che la civiltà egizia, egea o micenea, nonché la babilonese e le orientali fiorirono parecchie migliaia di anni prima che si fosse sviluppata la civiltà occidentale. Del resto dalle relazioni dei paleontologi conosciamo, che le grotte, le quali servirono di abitazione agii uomini primitivi erano state formate dalla natura nelle montagne di granito o altra pietra impermeabile, e che in qualche luogo — forse — furono aggiustate dall’uomo. Mentre — domando io — e come potevano servire per abitazione umane stanze buie, incavate in una roccia porosa, dalla quale specie in inverno l’acqua sgocciola continuamente?

1 nostri sotterranei, nonché opera dei trogloditi, non si possono dire neanche costruzioni ciclopiche o pelasgiche. Le mura di tale costruzioni erano formate da grandi massi  poligonali a facce ineguali, ma che venivano poi connessi e incastrati l’uno con l’altro e solamente in progresso di tempo furono adoperati grossi blocchi di pietra squadrata. Nei. nostri sotterranei, invece, la pietra fu tolta a piccoli conci; dunque questo solo indizio dimostra che non siamo in presenza di un’opera appartenente a ciclopi o ai pelasgi o da servire per le costruzioni dei medesimi.

Lo Schubring consente che quei lavori furono eseguiti a punta di piccone, la qual cosa importa in un’epoca, in cui l’uso del ferro era già molto comune. Ebbene, sino ai tempi di Omero le armi e gli utensili erano di bronzo, o come lo dicevano, di rame temprato; ed in Sicilia gli antichi abitatori conobbero e cominciarono ad usare il ferro, probabilmente al tempo delle immigrazioni elleniche — ottavo e settimo secolo a. C. — Di fatti, per portare un esempio, nel villaggio sicano al Cannatello scoperto dal prof. Angelo Mosso furono rinvenuti bensì armi di bronzo, non già di ferro e secondo me, quel villaggio esisteva sino dal tempo della fondazione di Agrigento, circa al 600 a. C. come spiegherò meglio nel Cap. XXVIII di questa monografia.

Per conchiudere: il concetto di un’opera grandiosa o difficile nella sua esecuzione, quei tagli nella roccia ordinati e in linea parallela, l’uso del piccone e la maestria nel maneggiarlo, gli hanno dato la piena convinzione che ì nostri sotterranei non hanno tutta l’antichità, che si vuol vedere, ma che sono di epoca relativamente a noi vicina. Fazello, l’occhio indagatore per eccellenza, ha ribadito in me tale convinzione: egli non si occupa dei nostri ipogei, ed io interpreto il di lui silenzio nel senso che quattrocento anni fa egli non li credette un monumento antico.

Opinioni diverse sono state manifestate pure intorno alla destinazione dei nostri ipogei.

Il Senatore Cognata, Presidente della Commissione Provinciale dei monumenti, che fece la visita ai locali, in una lunga relazione, inserita per intero nel verbale della seduta 27 febbraio 1910, li giudicò una delle opere pubbliche eseguite dagli schiavi cartaginesi, catturati alla battaglia di Imera, ordinata perciò da Terone allo scopo di dotare la città di acqua potabile. Questo parere, se non altro, ha il merito di avvicinare quelle escavazioni ad un’epoca in cui la società possedeva ben altri mezzi meccanici ed intellettuali, che non possedessero certamente i Sicani, i ciclopi e i lestrigoni. Però nel merito egli s’ingannava, come si sono ingannati tutti colora, che, prima e dopo lui, hanno abbracciato quella opinione, ed i rilievi fatti sui luoghi, che vengo ad esporre, mi pare ne dimostrino chiaramente l’errore.

Se quei sotterranei fossero stati scavati davvero per ricavarne una sorgente di acqua potabile, noi anche oggi dovremmo riconoscerne lo scopo nella costruzione stessa : in primo luogo, difatti, lo dovremmo rilevare dalla disposizione e dalla pendenza data ai pavimenti delle stanze e dei corridoi : esse sarebbero state raccordate in modo da mostrare che un vano servisse per arteria principale dello acquedotto, e tutti gli altri come parti accessorie del primo: queste si dovrebbero vedere siccome destinate a raccogliere le acque, che sgocciolano dal tetto e dalle pareti, e l’arteria principale dovrebbe mostrare la sua funzione di raccogliere le acque, provenienti dalle stanze superiori per trasmetterle a quelle inferiori. Mentre al contrario, i vari pavimenti si trovano a livelli diversi l’uno nei rapporti con l’altro, e non si vede affatto quale sarebbe stato il tronco principale e quali le sue ramificazioni.

Di più — e questa è cosa importantissima — la pavimentazione avrebbe dovuto essere resa impermeabile per evitare la dispersione delle acque; per io stesso motivo non sarebbero stati lasciati colà i detriti della roccia, di cui ho fatto apposita menzione, i quali senza dubbio sottraggono e disperdono l’acqua, ed altresì tutti i pavimenti li dovremmo riscontrare muniti di un cunicolo. Ma non vi è niente di tutto questo.

Ed infine, ripeto che i detriti della terra misti alla creta del pavimento formano del fango, per far comprendere che una sorgente di acqua potabile non sarebbe stata tenuta a quel modo. Noto altresì, che l’acqua, passando sopra uno strato di argilla diviene amara come viene dimostrato praticamente da tutte le sorgenti pubbliche e private, che scaturiscono dalla roccia di Agrigento.

In base a tutti questi motivi di tatto, io non posso far eco al parere del Senatore Cognata sopra esaminato.

4.    Qualcuno ha manifestato il dubbio se mai si possa ravvisare nei nostri sotterranei l’opera diretta dall’Agrigentino architetto Feace, cioè i condotti luridi.

Avverso tale opinione ripeterei le stesse cose dette sopra relativamente alla disposizione e pendenza del suolo, notando anzi che con maggior ragione la pavimentazione si dovrebbe riscontrare impermeabile, con una pendenza più pronunziata, perché le cloache debbono espellere presto i materiali immessivi;- di più non avrebbero avuto ragion d’essere tutte quelle stanze e controstanze, le quali avrebbero trattenuti i materiali di rifiuto.

E la cosa si dimostra ancora più inverosimile se si riflette che la città occupava lo spazioso altipiano che scende giù dalle falde della Rupe Atenea, cioè nella collina opposta alla nostra. Qui sul colle di Agrigento, secondo alcuni scrittori, sarebbe stata la sola acropoli di Agrigento, secondo me, un piccolo sobborgo, abitato a preferenza dai coltivatori della terra, e nell’una come nell’altra ipotesi tutte quelle pretese cloache non avrebbero avuto a che cosa servire.

5.    Altri non sapendo trovare una causa finale, uno scopo in quelle escavazioni, si fermano alla porta materiale della cosa, e nell’osservare, che la pietra vi fu tagliata ordinatamente a conci, giudicano il locale una grande cava di pietra : in questo senso manifestava la sua opinione uno dei componenti della Commissione nella ripetuta visita. Dato quel dubbio, ho creduto di assodare se la bontà della pietra ricavata avesse potuto compensare il sacrificio di una lavorazione sotterra, all’umido ed al buio : e siccome le pareti e i detriti colà sono, più che umidi, bagnati e quindi si lasciano intaccare facilmente, ne tolsi un buon pezzo e lo portai per farlo asciugare. Ed asciutto che fu, esso pigliò un colore gialliccio sbiadito, ed in quanto a durezza, strofinato con le dita si sfarinava: quella pietra dunque è inservibile come materiale di costruzione e. difatti nessun fabbricato antico nè moderno è stato costruito con esso.

In conclusione non posso ammettere che i nostri padri, più o meno antichi, pur avendo molte e buone cave di pietra attorno alla moderna città, da potervi lavorare alla luce del sole e con minore fatica, abbiano voluto sottomettersi a tanti disagi in fin dei conti per ricavarne una pietra inservibile o quasi.

6.    Altri manifestano il dubbio, se mai si possa trattare di una vastissima catacomba cristiana. Ma basta rilevare che in tutta quella estensione di antri e meati sotterranei non si riscontra una sola tomba, un altare, o altro qualsiasi indizio, atto a farci capire esser quello un luogo sacro, per dover rigettare la relativa supposizione siccome assolutamente ingiustificata.

7.    Adunque – seguendo il metodo della eliminazione – non dobbiamo pensare ad una cava di pietra per non attribuire ai nostri maggiori un lavoro da pazzi : grandi fatiche e nessuna utilità; non ad una sorgente di acqua potabile, nè ad un condotto di acque luride, non ad una città di morti, e dirli impossibili come abituale dimora di vivi.

Fra gli scrittori mentovati, il Picone ha la sincerità di confessare non essere riuscito a formarsi un concetto sulla destinazione delle nostre gallerie sotterranee, e si limita a riferite l’opinione altrui : « Taluni le stimano città abitabili « per rifuggirvi dal rigore della stagione…. ». (9)

Osservo che quella opinione non mi pare ammissibile perchè in està — è vero — si cerca l’ombra, ma soprattutto la ventilazione, che in quei sotterranei manca; e d’inverno là dentro direi che piove. Quei locali dunque non risponderebbero allo scopo preteso.

8.    Il Vigo ricorda che era costume dei popoli primitivi

di rinchiudersi nelle rocche, e specialmente poi in tempo di guerra trasportarvi greggi ed armenti, e quindi conchiude che la pretesa città di Cocalo « a quest’uso poteva ben «servire, e le innumerevoli camere erano piene di gente (chè « gli uomini di allora avevano assai del selvaggio), e le « tante uscite e le tante aperture superiori ce lo rendono « probabile ». (10)

Egli mette in confronto i nostri sotterranei con ciò, che narra Diodoro degli antichi abitatori di Sicilia (11), con ciò che con somma chiarezza e dottrina è dimostrato dal Pagano nei « Saggi Politici » che da per tutto cioè i popoli primitivi abitarono le alte cime dei monti per misura di cautela, ed ivi in caso di bisogno portavano anche tutti i loro averi ed in ispecie il bestiame. Però il confronto tra le impervie montagne abitate da essi, ed i nostri sotterranei non mi pare che stia (le cime di montagna e le caverne mi pare che stiano agli antipodi) e l’idea di veder uomini ed animali abitare alla rinfusa in quegli antri non ha nulla di comune con le piccole cittadelle costituite dai primi abitatori, dove allogavano pure i loro armenti. Nè mi pare una buona ragione quella che allora gli uomini erano ancora selvaggi, imperocché le condizioni essenziali alla vita non si sono cambiate mai, e ritengo che anche le fiere oggi non potrebbero abitare normalmente in quei luoghi umidi e piovosi.

Ad ogni modo io rilevo che il Vigo in maniera troppo indiretta e alla lontana, accenna all’ipotesi che i nostri sotterranei abbiano potuto servire come luogo di rifugio in tempo di guerra.

9.    Lo Schubring parlando degli ipogei fa largo sfoggio di erudizione per cercare analogie e confronti con ciò che di simile si riscontra altrove; ma si allontana troppo dall’argomento specifico, dalle osservazioni dirette sulla cosa, e finisce con una certa confusione di idee: « e non è  «strano credere che quivi (sulla pretesa acropoli) si sieno «preparati sotterranei luoghi di difesa e rifugio per sè e «gli armenti, quando ne avessero avuto bisogno, come ad « esempio all’occasione di un attacco di sorpresa da parte dei « pirati ». Egli dunque manifesta lo stesso concetto, se mai , quei locali abbiano servito a scopi militari, come luoghi di rifugio e di difesa in caso di guerra. Però dice e disdice, espone tale opinione immediatamente dopo di avere rilevato, che nelle vie di tatto quegli ipogei non raggiunsero lo scopo a cui erano stati destinati: «Così pure è dalla storia dimostrato che questi supposti luoghi di rifugio riuscirono « inutili, quando appunto si doveva aver bisogno di essi, «come ai tempi degli assedii, e noi sappiamo che ricchi «cittadini, come Gellia, quando il nemico irruppe nella « città, si ricoverarono nel tempio di Atena, portando seco « le loro sostanze e vi diedero il fuoco, preferendo morire « tra le fiamme anzicchè cadere in mano al vincitore». (12)

Il dubbio e la contraddizione di lui sono la conseguenza di due falsi apprezzamenti : aver creduto quelle gallerie dell’epoca sicana e perciò che esistessero al tempo di Gellia, ed altresì quella tale preoccupazione — come si vedrà nel Cap. IX e specialmente nel X — che la cittadella di Agrigento dovesse giungere sulla collina di Agrigento. Mentre l’episodio da lui stesso rilevato circa la presa della città e la morte di Gellia avrebbe dovuto fargli nascere nella mente questi dubbi : gli ipogei non esistevano al tempo di Gellia, e quindi rigettare l’opinione intorno alla antichità det medesimi, ovvero comprendere che la rocca di Agrigento non dovesse trovarsi sulla nostra collina, ed in vista di quei dubbi che i luoghi stessi suggerivano, avrebbe dovuto meglio ponderare la cosa.

10.  Il Picone fra le opinioni altrui espone che «     altri (stimano) che siano servite allo scampo da invasioni  nemiche     ».

Quest’opinione era dell’illustre prof. Cavallari, la quale viene riassunta in questi termini dal prof. Toniazzo: « Secondo lui, gli ipogei di Agrigento avrebbero strettissimo e necessario rapporto col sistema di fortificazione dell’Acropoli, ed avrebbero specialmente servito ai soldati per nascondersi allo scopo di uscire improvvisi sul nemico, oppure per ritirarsi e mettersi in salvo nel caso che nell’aperta campagna o abbiano avuto la peggio o veduto che  non conveniva affrontare il nemico. E fortifica la sua opinione allegando l’analogia, anzi la identicità di queste «gallerie sotterranee con quelle del forte greco Euryalos « all’estremità dell’Epipoli (Siracusa), (13)

Il Cavallari credette anche lui che l’acropoli agrigentina fosse stata sul colle di Agrigento, e, pervaso da questa credenza, trovò l’analogia tra il forte di Siracusa e la pretesa rocca di Agrigento, e la identità fra i nostri sotterranei e quelli dell’Euryalos; però il prof. Toniazzo dichiara esplicitamente che la identità voluta tra i due ipogei non esiste affatto; e la ragione ne è semplice — osservo io — perchè l’una è costruzione greca e l’altra di epoca molto posteriore. Tolti questi falsi apprezzamenti, che sono conseguenza di una premessa erronea; nel resto l’opinione del Cavallari, intraveduta dagli altri archeologi come sopra rilevata, circa la destinazione dei nostri ipogei, è l’unica che si manifesta ammissibile.

Quei sotterranei con le relative bocche di immissione sono opere militari, non possono servire ad altro scopo. Sono adatti a far comparire e scomparire i soldati della città di fronte e alle spalle del nemico, improvvisamente, secondo il bisogno del momento sia per sferrare attacchi sia per le opportune ritirate. Tutte quelle stanze e  controstanze dovevano levare la velleità ai nemici di penetrarvi; nessuno infatti si sarebbe azzardato a calarvi per andare a brancolar all’oscuro in una specie di laberinto, ove dovea temere ragionai mente o di perdere la via dell’uscita, o di cadere in una imboscata da parte dei soldati cittadini, il quali pratici della località avrebbero avuto sempre dei grandi vantaggi

il concetto di difesa militare in un’epoca relativamente a noi vicina deve essere messa in relazione alla origine dell’ odierna città: bisogna tenere presente che un tempo gli Agrigentini si trovarono nella dura condizione di abbandonare la loro bella città ed il rinomato emporio per cercare scampo in un sito più acconcio, e con tale determinazione vennero a fermarsi sulla vetta della nostra collina. Il Cavallari nota acutamente che gl’ipogei si trovano in stretto rapporto col sistema di fortificazione della città; e di fatti noi troviamo in Agrigento tutto preordinato a scopo militare: la città sulla cima della collina, le strade tortuose e strette, e quel locale sotterraneo, che risponde bene ai criteri di offesa e di difesa relativamente al tempo in cui esso fu creato. Non solo, ma la nuova città fu eretta a preferenza nella parte Est, e Sud – Est della collina e quivi appunto troviamo principalmente la rete dei nostri sotterranei; dalla cattedrale al Rabato e al Balatizzo, che significa tutto quanto nacque in seguilo alla fondazione e allo sviluppo della città, non offre nel suo sottosuolo quella copia di sotterranei, io almeno non ne conosco neppure la esistenza.

Secondo me, adunque, i nostri ipogei nacquero insieme alla nuova città, ed in esecuzione dello stesso concetto. Ho dimostrato sopra che essi non appartengono alla civiltà preellenica, nè alla greca nè alla romana. Nei cap. IV e V ho fatto menzione di alcune circostanze di fatto le quali escludono l’idea da altri sostenuta, che cioè sul colle di Agrigento sia stata la cittadella della antica Agrigento, ne darò la dimostrazione più completa nei Cap. IX e X Perora mi basta dire che la nostra collina non faceva parte della antica città e quella rete di sotterranei in un luogo disabitato, o quasi, non avrebbe avuto scopo. Essi furono creati nel tempo, in cui gli Agrigentini trasferirono la loro abitazione sul colle di Agrigento. Se mi è lecito riferire l’impressione ricevuta nella visita fatta al monumento dico che la pietra tolta dalla montagna a piccoli blocchi mi ricordava quei piccoli conci con cui furono costruiti gli edifici del 1100 e 1200; pare che siano stati quegli stessi taglia – pietre coi medesimi picconi sottili ad eseguire quel lavoro.

  1. Lettera di Lionardo Vigo sugli ipogei e Catacombe di Girgenti, pubblicata in appendice alla Memoria sull’antichità agrigentine del Palmeri

2)       Nicolò Palmeri Somma della Storia di Sicilia — Cap. I.

  • Memorie storiche agrigentine — pag. 27 e 29.
  •  Op. Cit. pag.48
  •  Picone op. cit p. 41
  • Lettera citata pag. 19.
  • Op. Cit. pag. 27.
  • Op. Cit. pag. 41.
  • Op. cit. pag, 28.
  • OP. Cit. pag. 86.
  •  Lib. V.
  •  Op. Cit. Pag. 43,
  •  Schubring — Op. Cit. pag. 46

Michele Caruso Lanza, Osservazioni e note sulla topografia agrigentina, Agrigento, 1931, pp. 43-58

Categoria: Agrigento Racconta

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