
La Nave o taglio di Empedocle
1. La Nave era un profondo burrone che separava la collina di Agrigento dalla Rupe Atenea : incominciava dal vallone della Fontana, e finiva al di là della Villa Gari-baldi; era così chiamata, perchè aveva la forma di una carena.
La tradizione vuole che ivi sia stato fatto un taglio ad opera di Empedocle allo scopo di far riversare sulla città, nei mesi estivi, una corrente di aria fresca di tramontana, ed allontanare così la malaria determinata dalle acque stagnanti del fiume vicino.
Quella tradizione è arrivata a noi circondata di miti e di inverosimiglianze, per la ragione che la mente dei piccini non si contenta mai di attribuire agli uomini grandi cose mediocri, ma ci vuol vedere sempre qualcosa che confini col meraviglioso e col sovrannaturale. Cominciò Timeo col narrare, che una volta i venti eterii — lo scirocco — facevano imputridire i frutti ancora immaturi attaccati agli alberi; ed Empedocle ordinò che si scuoiassero degli asini, delle pelli si confezionassero otri e si distendessero quegli otri sopra poggi e colline onde imprigionare i venti (1).
Clemente Alessandrino e Plutarco narrano lo stesso episodio con qualche variante, (2) rammentando così con una edizione scorretta e peggiorata gli otri dei venti donati da Eolo ad Ulisse (3). Diogene Laerzio aggiunge che Empedocle fece tagliare in due una montagna, e, — malgrado che montagne tagliate in due non se ne riscontrino — il nostro Picone lo ripete tranquillamente. (4)
Ebbene noi del luogo possiamo dare una giusta interpretazione a tutte quelle storielle. E una condizione speciale delle due colline, Atenea e di Agrigento, che per tutta la loro lunghezza — su per giù da tre a quattro chilometri — si stendono da oriente ad occidente, ed in conseguenza riparano dalla tramontana tutti i piani sottostanti; in quelle contrade difatti la bora non si rende molesta neanche in inverno, e di està, anche nelle; sere più afose, recandoci noi sul Piano di S. Filippo, che sorge all’estremità Nord della Nave, andiamo ad incontrare sempre una corrente di aria fresca o deliziosa.
Eranvi dunque due colline attigue geologicamente diverse; niente di più naturale che avessero avuto una valle nel loro mezzo, una linea in cui l’una finiva e l’altra incominciava; Empedocle perciò non avrebbe fatto altro che allargare e approfondire quella gola per poter raggiungere lo scopo cennato. Vi costruì una specie di doccionata più larga dalla parte di Nord, e stretta dal lato opposto, per far acquistare maggior veemenza alla corrente. La profondità complessiva del taglio — fra quella delle due pareti delle due colline e quell’altra che fu praticata da Empedocle — venne a raggiungere da 80 a 100 metri.
Nell’eseguire quel lavoro egli non perdè di vista la di¬fesa della città, imperocché dalla parte della collina Atenea le mura furono rese inaccessibili, ed indicherò poi nel Cap. XXI alcune opere statevi praticate nella roccia che io giudico fatte a scopi militari.
la Nave
2. La nave è stata in massima parte ricolmata mediante i continui di sterri e di materiale di demolizione, ed oggi comincia ad esserne dimenticato anche il nome. L’attuale Piazza d’armi si chiama il Piano di S Filippo (ndr. Oggi piazza Vittorio Emanuele), perchè là sotto, a notevole profondità, esisteva una chiesa dedicata a quel santo, e che rimase coverta. Il restante del Piano, cioè la Piazza Vittorio Emanuele, dove sono palazzi, stradali, giardini pubblici ed altri larghi è stato colmato in gran parte a memoria mia, e della Nave oggi non resta altro che l’ultima punta, la parte meridionale, quella che formava la parte stretta dell’imbuto tagliatovi da Empedocle.
Dirò adesso che cosa vi era ai tempi della mia fanciullezza, sessanta e più anni fa. A risalire da codesta estremità meridionale verso Nord eravi prima il fichidindieto della Nave — tutte le pareti ed il fondo erano coperti da piante di fichi d’india annose, ma ben tenute, e che formavano addirittura un bosco — oggi se ne riscontrano po¬chi avanzi deperiti. Veniva poi una buona aiuola ad orto irrigata dagli scoli della fontanella di cui dirò. Indi la Villa Piccola divisa in tre ripiani — nella parte inferiore era una sorgente di acqua amara con relativa fontanella in marmo, addossata ad un vecchio fabbricato, la
‘Fonte perduta pria, trovata poi
Perduta e ritrovata un’altra volta …
Quei due versi e gli altri di seguito, che non ricordo, vengono attribuiti in Agrigento a due canonici, che io conobbi, però quei contrasti da una parte, e dall’altra l’antichità del fabbricato a cui la vasca era addossata mi fanno supporre, che essi furono dettati nel Seicento.
Il ripiano superiore a quello era composto da uno spiazzo largo, ma più specialmente lungo, sormontato da un vialetto ad angolo ottuso, munito d’un unico sedile di 200 o 250 metri — la spalliera di quel sedile tratteneva una grande scarpata di terra coverta da quella pianta grassa che chiamiamo garofano turco — quella scarpata veniva a finire più oltre ancora del crocevia, formato oggi dai quattro giardinetti pubblici.
Dal secondo ripiano molto ripido per andare su si batteva un viale che volgeva a man destra, conducendo ad una terza aiuola di forma quadrata, meglio coltivata delle altre, la quale veniva a giacere verso il sito dell’attuale Archivio Notarile (ndr. Oggi biblioteca comunale), però sottostante al relativo livello almeno 10 o 12 metri ; si tenga presente infatti che il pavimento della chiesa di S. Calogero è oggi sottostante al livello stradale di parecchi metri, e l’aiuola in discorso si trovava a cinque o sei metri più sotto dello stradale che conduceva allora a quella chiesa.
La porta della città era una torre elegantissima, munita di saracinesca, denominata Porta di Ponte, di fattura elegantissima, giaceva a 25, 30 metri più Porta Atenea, formava parte delle fortificazioni della città, ed era attaccata all’ultima torre ancora esistente ( 5) mediante un bastione. Lo stradale che da Porta di Ponte conduceva alla chiesa di S. Calogero volgeva a sinistra ed arrivava sotto il Palazzo della Prefettura poi girava passando sotto la caserma dei Carabinieri — tra questo fabbricato e l’Archivio Notarile (ndr. Oggi biblioteca comunale) era il Calvario, intagliato nella roccia, con l’ingresso sullo stradale costruito da due pilastri con cipressi ai lati, ed un cancello di ferro con la scritta Oh crux — ave spes unica.
E tutto questo ch’io ricordo chiaramente, da più di mezzo secolo è scomparso sotto le macerie; la stessa chiesa di S. Calogero, che la grande devozione del nostro popolino vuole rispettata, si trova oggi a parecchi metri sotto il livello stradale.
3. Ho voluto parlare dettagliatamente di questi ricordi della mia prima età per dimostrare, quanto sia cambiata la faccia dei luoghi in questo punto, e nello stesso tempo per lasciare intuire almeno quel che doveva esservi nei secoli scorsi, e sino a tanto che fosse stato cominciato il riempimento della Nave.
Certo è questo, che i nostri antichi nel sito in discorso non videro le cose, come noi le vediamo, e viceversa; il suolo da essi calpestato era laggiù a 40 o 50 metri di profondità di quello odierno, che il materiale statovi gittato lo ha elevato sino all’altezza della Porta Atenea e della Villa Garibaldi. Si guardi il fondo della valle dal punto in cui si gettano gli sterri, e si vedrà che le cifre date non sono affatto esagerate.
Quella colmatura ha cancellato l’opera del nostro Filosolo, e con essa la linea di demarcazione fra la Rupe Atenea e la Collina di Agrigento, che era fortissima. Il terrapieno forma oggi l’anello di congiungimento fra la nostra città e la Rupe Atenea. Ed io dubito assai che desso costituisca una delle principali ragioni, per cui anche menti elevatissime hanno potuto supporre, che 1’ antica città si sia estesa fin sulla nostra collina; camminandovi sopra, essi non si rendono ragione del fatto che sotto ai loro piedi esisteva un baratro.
Note
- Il passo di Timeo è stato riportato da Diogene Laerzio nella vita di Empedocle.
- (2) Frammenti di Timeo, Eporo. Calila, ecc. raccolti da Spada — pag 183 Nota 2.
- Omero – Odissea — Lib X
- Picone Memorie Storiche Agrigentine — pag. 137.
- Oggi demolita
Michele Caruso Lanza, Osservazioni e note sulla topografia agrigentina, Agrigento, 1931, pp. 27-32