Il tempio di Giunone conserva ancora le tracce del saccheggio e della devastazione che della potente città di Akragas fecero i Cartaginesi nel 406 a.C.
Il tempio allora bruciò dallo stilobate alla trabeazione come una torcia. La sconfitta dei punici a Imera nel 480 a.C., nella guerra contro le città siciliane, con quel rogo veniva così vendicata, mentre ovunque le armi dei mercenari si abbattevano sulle mura della città e su tutto ciò che incontravano dando il colpo di grazia alla potenza akragantina. Le fiamme divampavano anche dentro la cella del tempio dove si trovava un bellissimo quadro di Zeusi che aveva come soggetto la mitica Elena, la più bella donna dell’antichità.
Alla triste sorte del tempio e del quadro di Zeusi è legata la drammatica vicenda della morte di Gellia, munifico agrigentino, il quale, temendo che il quadro potesse finire in mano ai nemici, si buttò in mezzo alle fiamme cercando di portalo con sé, perché non avrebbe potuto sopravvivere a tanta perdita. Ma Gellia non venne risparmiato dalle fiamme e andò in rovina anche il famoso quadro.
Diodoro, invece, di tali eventi ci da una diversa versione, sostenendo che gli Agrigentini si rifugiarono in questo tempio e in quello di Minerva perchè minacciati dai Cartaginesi, che poi diedero il tempio di Giunone alle fiamme.
Altre controversie tra gli studiosi vi sono poi intorno alla denominazione del tempio. Lo storico siciliano Fazello ricorda che era denominato Tempio della Pudicizia, derivando questo nome da quello più antico di Torre delle Pulzelle. In un manoscritto di Valerio Rosso del 1597 lo si chiama invece tempio delle Pulzelle, mentre uno dei più noti viaggiatori Brydone lo denomina Tempio di Venere.
Di certo c’è che fu dopo il XVI secolo che acquistò l’attuale nome, soprattutto in considerazione del fatto che gli Agrigentini certamente avevano eretto un tempio alla dea Giunone, così come attesta soprattutto Plinio, il quale parlando del pittore Zeusi dice: “Deprehenditur tamen Zeuxis grandior in capitibus articulisque, alioquin tantus diligentia ut Agrigentinis facturus tabulam, quam in templo Junonis Laciniae pubblice dicarent, inspexerit virgines corum nudas, et quinque elegerit, ut quod in quaque laudatissimum esset, pictura redderet” (Plinio, Hist. nat. lib XXV c. 9).
Posarono nude dinanzi a Plinio, dunque, le cinque più belle agrigentine e furono le modelle per uno dei più grandi capolavori dell’età classica, tanto da apparire come ex-voto nel tempio dedicato alla dea madre della fecondità. Ma la medesima storia è riportata anche da Cicerone e da Dionigi di Alicarnasso i quali, però, invece di menzionare gli Agrigentini, indicano i Crotonesi, presso i quali realmente esisteva un tempio di Giunone Lacinia, così detta dal promontorio Lacinio.
Lo studioso Giuseppe Di Giovanni ha ben descritto un rito che i novelli sposi agrigentini celebravano, subito dopo il bagno di purificazione nelle sacre acque del fiume Akragas: i coniugi “offrivano a Hera Pronuba, protettrice delle nozze, come simbolo della dolcezza che doveva regnare tra essi, una agnella alla quale era stata tolta la bile con le altre interiora. Però, prima di immolare la vittima, dice Plutarco, si faceva la prova di aspergerla con acqua fredda e se l’animale tremava sotto l’improvvisa doccia, la festa si rinviava.
La sposa vestiva una tunica senza orli, lunga fino ai piedi, semplice e bianca, tenuta da una cima (nodo di Ercole) che la faceva aderire sino alla vita. Terminato il sacrificio il sacerdote prendeva le destre degli sposi ponendole l’una sull’altra; era questo il momento più solenne del matrimonio, in cui marito e moglie si scambiavano reciproca promessa di vivere insieme.
Qui, più tardi, i coniugi ritornavano per la cerimonia del ringraziamento, che consisteva nell’offerta alla divinità della cintura della sposa, divenuta troppo stretta a seguito della gravidanza, e il cui nodo, chiamato “nodo di Ercole”, secondo il rito, doveva essere sciolto dallo sposo, alla presenza di amici e parenti.
Lo spettacolo era ricco di colore, solenne e animato: le fiamme e le nuvole di fumo salivano verso il cielo chiaro; canti corali e musiche di flauti accompagnavano lo svolgimento della cerimonia. Ma il tempio era soprattutto il santuario delle donne maritate agrigentine (destinate talvolta anche a subire le infedeltà coniugali dei mariti) che, piene di fede, vi si recavano in pellegrinaggio per lamentare, in silenzio, il comune destino che avevano con la sposa di Giove, la cui unione matrimoniale fu un seguito di frequenti litigi, dovuti ai molti amori dello sposo divino”.
Il tempio di Giunone Lacina è il più distante dalla città: giace in una magnifica posizione, all’estremità sud orientale di un’alta roccia su cui si erge anche il tempio della Concordia.
Oggi assai poco resta del suo splendore, ma in origine era circondato da un porticato di trentaquattro colonne scannellate senza base, di cui rimangono il colonnato settentrionale con l’epistilio e parte del fregio (in gran parte risistemati nel 1787) qualche traccia degli altri colonnati, diverse colonne e alcuni elementi della cella. Si possono ancora vedere anche quattro ordini di gradini e sei davanti la facciata.
Era pertanto un tempio dorico, periptero, esastilo, con sei colonne per ogni facciata e tredici per ogni lato maggiore, con una cella suddivisa in pronaos, naos ed opistodomo in antis, con le torri scalari tra pronaos e naos.
Esso è situato sopra un grande piedistallo o zoccolo, la cui altezza varia nei diversi lati per il dislivello, in più parti, della collina su cui sorge. Si ritiene che sia stato innalzato intorno alla prima metà del V secolo avanti Cristo (probabilmente tra il 450 e il 440). La parte inferiore della cella è discretamente conservata e si orna di altre quattro colonne, due nel pronao e altrettante nell’opistomodo, o portico, e tutte e quattro sono frammezzo agli anti.
Ai lati della porta della cella si vedono gli avanzi delle due gradinate che conducevano al tetto o comunque alla parte alta della cella. Si conserva inoltre ancora in buone condizioni il grande altare (metri 29,80 x 5,25) che necessitava pertanto di una scala di almeno dieci gradini.
Un pezzo del basamento per le statue degli dei sta ancora in mezzo al naos fra le masse precipitate. Presso l’angolo nord-ovest del tempio vi è un pozzo scavato nella roccia.
Per quanto riguarda le dimensioni, il suo stilobate è lungo m. 38,15 oltre i gradini e largo m. 16,90. Ogni colonna è formata da quattro tamburi ed ha venti strie a spigolo vivo; il capitello, oltre i soliti anelletti sotto lo echino, ne ha altri due che tagliano le scanalatura vicino il sommo scapo. Il diametro della colonna è di metri 1,39, l’altezza col capitello è di metri 6,45. La cella (quasi tutta crollata) è di metri 28,68 per 9,93.
Elio Di Bella