I fondatori di Akragas erano dei geloi-rodiensi ed è noto ormai da tempo agli archeologi che a Rodi si trovano due templi dedicati a Kora e a Dioniso. Il mito e le feste legati a questo dio e al suo culto hanno interessato molto gli studiosi anche per gli sviluppi orfici e filosofici a cui hanno dato origine. I fondatori di Akragas naturalmente portarono nella Valle agrigentina la civiltà della loro madre patria, con i suoi splendidi culti e i suoi singolari riti.
Lo stesso Pindaro ci dice che Akragas fu sede di Persefone, la bella figlia di Demetra, che aveva un doppio aspetto, quello di gentile fanciulla (Kora) che risorge ogni anno a nuova vita e quella di regina inesorabile e tenebrosa.
Il mito vuole che Persefone venga rapita dal dio degli Inferi (Ade) e strappata dunque dalla madre, che ne piange la triste sorte. La giovane dea trascorre le stagioni fredde sottoterra, sorvegliata da Ade, e ciò determina una paralisi delle attività produttive dei campi, ma in primavera e in estate può tornare a riabbracciare la madre e la natura si risveglia e produce fiori e frutti in abbondanza.
Le Tesmoforie erano le feste più seguite dai contadini, che in ottobre, all’inizio della stagione agraria, imploravano Demetra e Persefone chiedendo la fertilità per i campi, gli animali e le spose. Tali manifestazioni religiose si svolgevano nei santuari dedicati alle divinità Ctonie (cioè alle divinità sotterranee).
La ricerca nella Valle dei Templi di questo santuario ha affannato per secoli rinomati archeologi e studiosi. Lo storico Tommaso Fazello nel 1579 non aveva trovato alcuna traccia del tempio dei Dioscuri e del santuario e nel 1751 il Pancrazi l’aveva confuso col tempio di Vulcano. Finalmente nel 1833 il presidente delle antichità e belle arti di Palermo, Domenico Lo Faso Pietrasanta, duca di Serradifalco annunciava: “Il tempio di Castore e Polluce, sfuggito alle diligenze del Fazello, è vicinissimo al prospetto occidentale di Giove Olimpico; ma di esso altro non si vede al presente che un bel capitello dorico-greco impellicciato di stucco simile ai già veduti, del diametro di palmi 3,7 nel sommo scapo, e pochi rottami di fusti di colonne malconce dal tempo, avvallate, e coperte d’opunzie”.
Ma poco più sotto precisava di non essere certo del fatto che tali avanzi fossero quelli del tempio indicato da Pindaro nel terzo inno olimpico col nome di Castore e Polluce. Tre anni dopo lo stesso studioso nel Bollettino dell’Istituto di Corrispondenza archeologica pubblica un articolo in cui rivelava che, dopo importanti scavi nella Valle dei Templi:
“Mentre ci aspettavamo di veder comparire le parti del tempio di Castore e Polluce, di cui un infranto capitello per lo addietro e pochi rocchi di colonne erano stati per lungo tempo materia unica di curiosità ai dotti, vedemmo invece più edifizi manifestarsi, ed un tempio tra questi. La intera pianta e la trabeazione, in parte colorita, di questo tempio sono già sotto gli occhi.
Fu tanta la novità e l’importanza delle cose, che questa commissione ne volle segnalare il rinvenimento, facendone alzare tre colonne e sopra imporre la sua trabeazione. Al lato di questo tempio una immensità di rocchi di colore entro limiti di un esteso edificio, il cui basamento fa la stessa roccia, hanno dato argomento a sospettare una stoa o un mercato; ma disavventuratamente non si conosce il sito della colonna”.
Successivamente (nel 1842) il Serradifalco fece innalzare una quarta colonna per ovvie ragioni di stabilità Pirro Marconi negli anni Venti del nostro secolo ha criticato la ricostruzione di questo angolo del tempio detto di Castore e Polluce, giustificando comunque gli errori commessi con la scarsa conoscenza che i costruttori allora avevano dell’architettura greca. Gli Agrigentini continuano a chiamare questo tempio “Li tri colonni“, nonostante siano quattro, probabilmente perchè in origine ne erano state rialzate tre. Tutti i visitatori rimangono in ogni caso colpiti dall’effetto pittoresco e dall’eleganza del tempietto.
Nel 1866 l’erudito agrigentino Giuseppe Picone avanzò discretamente una diversa ipotesi sulla destinazione del tempio ritrovato dalla commissione siciliana. “A quale nume dunque poteva essere dedicato quel tempio? – si chiedeva Picone – Mi si assicurava dall’egregio professor Cavallari (primo presidente della commissione delle antichità dopo la unificazione della Sicilia al Regno d’Italia, n.d.r) che fra i ruderi di esso il signor Villareale (archeologo assai noto nella seconda metà dell’Ottocento,n.d.r.) abbia trovato una mano di marmo la quale portava una tazza. Era di forma bellissima, ed era la mano di un Bacco. Forse quel tempio era dedicato a quel nume, cui gli Acragantini solennizzavano splendide feste ?”.
Solo con gli scavi di Pirro Marconi nel 1927 fecero piena luce sull’importante sito archeologico: a quaranta metri ad ovest dal tempio di Castore e Polluce si scoprirono i resti di una costruzione arcaica: un altare quadrato e un sacrificale rotondo con bothros centrale. Marconi li attribuì con sicurezza a divinità ctonie e due anni dopo rivelò in una sua opera di avere ritrovato ” altri sette (altari), parte rotondi, parte quadrati, di dimensioni minori, rinchiusi singolarmente e a gruppi non recintati di potenti mura. Anch’essi appaiono, dagli oggetti rinvenuti nel loro centro e nella prossimità, dedicate alle divinità ctonie. Il loro complesso costituisce un dato del tutto nuovo nella nostra conoscenza della religione e dei riti della Grecia”.
Tre anni dopo lo stesso archeologo scoprì un megaron di piccole dimensioni e l’angolo sud-est d’una costruzione parallela e un piccolo bothros di forma quadrata. Nel centro del santuario vennero alla luce terracotte plastiche raffiguranti divinità ed offerenti, muniti di canestri, di corone, di porcellini e capretti, tutte caratteristiche del culto delle divinità Ctonie. A pochi metri a nord del cosiddetto tempio di Castore e Polluce si rinvennero degli ex-voto, tra cui un cantaros, adorno di figure satiriche e riproducente un culto fallico che hanno indotto gli studiosi a pensare di aver trovato una testimonianza della spiritualità e della trivialità dei culti dionisiaci. Tornava, quindi, alla luce l’Agrigento arcaica.
Era evidente da questa scoperta che i nativi e i colonizzatori in questo centro arcaico fusero le loro diverse religioni.
Gli scavi sotto la direzione di Jole Bovio Marconi nell’angolo nord-est consentirono la scoperta di un nuovo basamento di conci squadrati (m. 4 X 1,49 X 0,50) e diedero un’idea ancora più precisa dell’area in cui si sviluppa il santuario. Venne trovato altro materiale fittile, fra cui alcune statuette seleniche. Ma ciò che soprattutto destò la sorpresa degli stessi ricercatori fu il ritrovamento di un focolare preistorico ancora ricco di cenere e di carboncelli, oltre che, nelle immediate vicinanze, di un’accetta di pietra levigata e alcuni frammenti di vasellame.
Esistevano dunque abitazioni pre-elleniche dentro la città classica. Da quanto detto, il santuario appare dunque costituito da vari edifici ed impianti sacri: otto altari variamente abbinati, quadrati e rotondi; due recinti, uno a due vani e l’altro a tre, composti da altari interni; tre sacelli arcaici, di cui due provvisti di pronao di piccole dimensioni e la cella, il terzo con cella e pronao a pilastri; favisse con numerosi ex voto. Ma dentro questa area sacra venne avviata anche la costruzione di quattro diversi templi, due dei quali rimasti incompiuti, un terzo che è quello impropriamente denominato di Castore e Polluce e un quarto indicato con la lettera “L” (elle) di cui non avanzano se non la piattaforma scavata nella roccia, pochi rocchi di colonne, un altare di genere ellenistico e qualche frammento della trabeazione.
Tornando al tempio di Castore e Polluce, quelle quattro colonne con capitelli, che si ergono su quattro gradini, sorreggono l’architrave, il fregio e il cornicione. Su di esso si vedono pure gli avanzi delle pitture di colore rosso, azzurro e paglierino. Sul vano delle metope molto probabilmente vi erano degli affreschi che rappresentavano le varie fasi del culto alla divinità a cui il tempio era dedicato.
Fra i templi è quello che mantiene più evidenti le tracce della impermeabilizzazione cementifera e dello stucco bianco. Il rivestimento di stucco bianco che si nota in particolare sulle colonne e su parte della trabeazione è della stessa epoca del tempio. Gli architetti agrigentini adoperavano tale materiale per proteggere dagli agenti atmosferici la friabile pietra porosa con cui costruivano i templi.
La sua lunghezza con i gradini è di metri 34, la larghezza di 15,50, la lunghezza della cella di 24,25, la larghezza 5,70. L’altezza delle colonne con il capitello di 6,45 e il diametro di esse di metri 1,18. La cella era probabilmente ipetra. Si ritiene, infine, che avesse tredici colonne sui fianchi.
Elio Di Bella