La rivoluzione del 1860 da molti venne considerata come una reazione della borghesia contro il popolo, dell’industria contro l’agricoltura, del Nord contro il Sud.
Con più disperazione si combatté in Sicilia dove le condizioni economiche erano più che altrove misere.
Le proprietà terriere erano divise ingiustamente e quelle poche forme artigianali locali erano sopraffatte dalle industrie del Nord.
Fu dopo l’annessione del Mezzogiorno allo Stato piemontese che si lamentò in maniera più accentuata la miseria del popolo siciliano su cui il governo centrale gravava con la sua politica protezionistica che durò per tanti anni.
Nel 1873 il direttore del giornale “Il povero” affermavano che: “ lunghissimi anni di errori amministrativi di inettitudine politica di abusi e servizi poliziesche” avevano “ingenerato nell’animo dei siciliani odio profondo alle istituzioni costituzionali” e che il brigantaggio la delinquenza dei siciliani provenivano “più che dall’inclinazione al malaffare dalla mancanza del lavoro, dal difetto di viabilità, dalla meschina retribuzione della manodopera, dalla nessuna divisione della proprietà e della mancanza di industrie e di opifici”. (Il povero, 5 ottobre 1873)
A tal proposito Francesco Renda scriveva che “la vita del banditismo e della mafia costituisce una specie di canale di scarico dove confluiscono gli elementi più irrequieti, coraggiosi e turbolenti del mondo contadino” (Francesco Renda, il movimento contadino nella società siciliana, edizione “Sicilia lavoro”, Palermo, pagina 41).
Rese tesa la reazione la tariffa doganale del 1887 che spinse esportatori di vino, produttori di agrumi di vino, contadini colpiti e rovinati dalle industrie settentrionali, alla decadenza economica. I proprietari terrieri erano gravati da tasse esose; i proprietari di vino e di vigneti erano minacciati di fallimento; il bracciante agricolo guadagnava poco e non poteva trarre dal lavoro il denaro necessario per vivere;
i contadini rivendicavano i loro diritti alla terra, al lavoro usurpato dai baroni; i minatori con la loro squallida miseria completavano il quadro della classe lavoratrice sfruttata dei grandi latifondisti questi “paria della terra”, come li chiamava N. Colajanni, guadagnavano tra i € 0,40 una lira al giorno con l’aggiunta di un piatto scarso di minestra. I mietitori “lavoravano per lunghe sedici ore sotto la sferza cocente del sole quasi africano della Sicilia, per una lira o per 75 centesimi al giorno (N. Colajanni, gli avvenimenti in Sicilia le loro cause, Palermo, 1894,pp. 65 – 66).
Ad ogni minimo occasione, pertanto, si lanciavano sulle terre ex demaniali, si abbandonavano al saccheggio alla distruzione di casotti daziari, archivi comunali e municipi. Erano esplosioni di odio incontenibile contro le ferite che straziavano l’esistenza delle popolazioni rurali.
Della provincia di Girgenti , la cui popolazione era in gran parte costituita da contadini, minatori, 22 comuni parteciparono alla rivolta. “A Cattolica Eraclea, dove venne incendiato tutto l’archivio del Comune, distrutti tutti i documenti amministrativi di polizia giudiziaria dal 1610 al 1820, alla testa dei rivoltosi v’ era il contadino Alberto Salvo, inteso “Ninfa” (F.Renda, op.cit. pag.20)
Gli unici arbitri di tale situazione erano i grandi possidenti terrieri, i quali, con la loro sconcertante abilità, disponevano della vita materiale di gran parte della popolazione.
I rapporti di lavoro erano ancora allo stato feudale. Il capitalismo non era riuscito a cambiare le primitive condizioni dell’agricoltura e dell’industria estrattiva.
“Il gabellotto, che gestiva le campagne nelle miniere, oberato già in partenza dal peso della gabella, oltre che dalle tasse, ed impedito dalla precarietà della concessione, non impiegava capitali, che del resto aveva limitati, nel miglioramento dei settori di produzione e praticava uno sfruttamento a rapina delle concessioni, oppure addirittura, sull’esempio del proprietario, si contentava della rendita sicura della sub-gabellazione (Ignazio Nigrelli, la crisi dell’industria solfifera siciliana in relazione al movimento dei fasci, in “movimento operaio”, numero sei, novembre – dicembre 1954, edizioni biblioteca, Feltrinelli, p. 1052).
Intorno alla fine del XIX secolo la vita della campagna era stagnante, non si notava nessuna innovazione rispetto agli anni precedenti. Sempre la stessa desolazione nelle campagne dell’interno, in contrapposizione con il verde delle coste dove si presentava un’intensa cultura arborea. Mancavano, tra i vasti campi dell’interno, le abitazioni rurali; solo qua e là si scorgeva qualche magazzino che serviva per il deposito dei prodotti.
Mancando le case rurali, perciò, il contadino era costretto ogni mattina ad alzarsi di buonora, per percorrere a piedi chilometri di strada polverosa e dopo un’intensa giornata di lavoro ritornare a casa rifacendo lo stesso percorso del mattino. Soltanto i pastori abitavano sempre la campagna nelle capanne di tralicci che nell’isola erano e sono tuttora dette “pagliai”.
In pieno sviluppo nella zona di Girgenti si presentava la coltivazione del mandorlo che “occupava 4050 ha di terreno, che producevano ed esportavano in media da 300 a 500 ettolitri di mandorle con guscio e 40.000 senza guscio (F.Romano, la Sicilia nell’ultimo ventennio del secolo XIX, in “storia della Sicilia post – unificazione, parte seconda, ed. industria grafica nazionale, Palermo, 1918, capitolo 13º, pagina 113). Le nazioni in cui venivano esportate le mandorle erano la Francia e l’Inghilterra.
Oltre alle mandorle, nella provincia di Girgenti grande estensione avevano i vigneti, le messi e i cereali
Le condizioni economiche sociali del contadino erano alquanto disperate; è sempre più difficile era la lotta per sopravvivere fin dal primo ventennio dell’unità.
Il contadino nella coltura del frumento faceva l’aratura, la semina, la sarchiatura, la raccolta, il trasporto nell’aia, la trebbiatura, ma da questo lavoro ricavava solo una quarta parte perché tre parti spettavano al padrone. Inoltre da questa quarta parte egli doveva pagare la semenza, il terrizzuolo, il diritto di sfrido ed altri piccoli diritti ed angherie. Il salario del contadino era in media di lire 2,50, ma con tale somma gli era impossibile mandare avanti la famiglia;
infatti così Giuseppe Rossi, Prefetto di Girgenti, nell’inchiesta sulle condizioni economiche dell’agrigentino del 1875 diceva al suo interlocutore Di Cesare: “non può vivere perché un solo individuo lavora e deve mantenere due, tre, quattro, cinque individui; poi è a considerarsi che quest’individuo non lavora sempre, quindi nella provincia di Girgenti i viveri sono cari quanto in qualunque altra provincia del Regno” (S. Carbonaro, R. Crispo, l’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875 – 1876) edizioni Cappelli, volume primo, pagina 365).
L’inchiesta era del 1875 ma le condizioni del contadino tra il 1890 e il 1894 non presentavano miglioramento
Anche lo zappatore guadagnava poco e la sua mercede, che variava secondo l’annata, era in media di una lira e mezza e due quarti di vino che corrispondevano ad un litro e mezzo. Le condizioni di vita di tutti questi strati di contadini portavano a spiegare le ruberie, le insolenze ed anche ogni esplosione.
L’abitazione del contadino era pessima e spesso in una sola stanza erano costrette a vivere più persone ed insieme a loro qualche animale, sicché una sola camera fungeva da abitazione da spalla questo non erano case ma tuguri, dove miseri contadini trascorrevano una vita triste e logorata dalla continua lotta per un domani migliore; qui, vivevano privi di un’alimentazione completa, nutrendosi per giorni e giorni di fichi, di un pezzo di pane nero e di un piatto di fave.
Una notevole estensione ed una grande fonte di ricchezza presentavano le miniere di zolfo nella provincia di vigenti che appunto occupava il primo posto in Sicilia per numero di miniere. Le miniere più importanti erano d’Aragona, Comitini, Campobello di Licata, Favara, Grotte, Girgenti, Cianciana, Cattolica Eraclea, Casteltermini.
L’estrazione del minerale avveniva ancora in forma primitiva, a mano, ad opera dei piccoli ieri, e il trasporto a spalla ad opera dei carusi. Le macchine meccaniche erano, intorno al 1891, molto poche; “nella provincia di Girgenti, nel 1890, non esistevano che tre impianti per l’estrazione meccanica, due pozzi, un piano inclinato di 38 cavalli di forza motrice, su 234 miniere attive (S.F.Romano, op. cit. cap VII, p. 46).
Nelle miniere lo sfruttamento era disumano
Nelle miniere erano impiegati numerosi contadini, braccianti, giornalieri ed altri artigiani disoccupati che a causa della povertà nelle campagne si sottoponevano al super sfruttamento dei proprietari di miniere. Dal 1890 al 1892, stato un grande aumento: da 11.270 operai, dei quali 2375 carusi, a 14.000, dei quali 3513 carusi. (S.F.Romano, op. cit. cap XII, p. 95). Il piccoli era riceveva il salario in base ad ogni cassa di minerale estirpato, il Caruso giornata, secondo la lunghezza del percorso e il numero dei viaggi
I carusi erano ragazzi dagli otto ai 15 anni che trasportavano il minerale sulle spalle dalle profonde miniere alla superficie arrampicandosi sugli strettissimi pozzi. Questi erano alle dirette dipendenze dei picconieri che pagavano ai loro genitori un’anticipazione di una somma che variava dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Da questo momento il Caruso apparteneva al picco miniere e non poteva essere libero fino a quando non restituiva la somma predetta. Poiché il povero ragazzo non guadagnava che pochi centesimi al giorno, la sua dura schiavitù durava per lunghi anni.
Il picconiere maltrattava il caruso e cercava di sfruttarlo al massimo controllando i suoi viaggi affinché non si alleggerisce del peso che di solito era di 50 kg e non perdesse tempo durante il percorso. Se ragazzo faceva qualche viaggio vuoto erano dure frustate e diminuzione di salario e quindi, per evitare ciò, talvolta rubava ad altri il minerale corrispondente ad un viaggio.
Egli poi è responsabile del minerale che accatastavano e molte notti era costretto a dormire all’aperto fino a quando il minerale non veniva consegnato i carusi portavano impressi sulla persona i segni del duro lavoro: gambe storte, occhiaie incavate per il nutrimento scarso, schiena ricurva. L’orario di lavoro era di 12 ore di seguito e la sera dormivano nelle miniere per terra. Questi maltrattamenti portavano conseguenze serie per la vita dei giovani lavoratori.
Gli altri rapporti di lavoro non erano meno gravi di quelli tra picconi ieri carusi il rapporto principale era quello che veniva fatto tra una squadra di operai sistema di compenso a cottimo
“l’esercente della miniera dava in cottimo il lavoro di estrazione di una sezione della miniera a chi disponeva di qualche migliaio di lire ed era in grado di formarsi una “chiurma” e di carusi. Il piccoli era riceveva il salario in base ad ogni cassa di minerale estirpato, il caruso a giornata, secondo la lunghezza del percorso e il numero dei viaggi.
La paga veniva spesso, soprattutto nelle miniere della provincia di Girgenti, ogni tre, quattro mesi.
Durante questi mesi gli operai erano costretti a fare appello alla bontà dei gabellotti per qualche aiuto in denaro o per poter prendere gli alimenti di prima necessità dalle botteghe di miniera e gli industriali avevano aperto ovunque, sia per evitare che minatori perdessero del tempo per andare ad acquistare generi alimentari botteghe lontane, sia per ricavare ancora denaro con lo strozzinaggio praticato nella vendita a prezzi molto elevati: l’olio costava 30 o 40 centesimi in più del prezzo corrente nelle altre botteghe di paese.
Quindi il lavoratore era perennemente in debito verso il proprietario, e se ciò lo salvava dal licenziamento, contemporaneamente lo assoggettava ad ogni specie di schiavitù. La famiglia del lavoratore delle miniere soffriva la fame l’alimento unico era il pane non abbondante; la carne si mangiava non più di due volte al mese.
Il piccoli era in non godeva di nessun diritto a riposo o ad alloggio nella miniera che spesso distava molto dai centri abitati; non era protetto da alcuna legge la sua vita, esposta com’era ai frequenti infortuni, non era assicurata sul lavoro.
Anche il gabellotto di miniera si trovava in gravi condizioni poiché la rendita mineraria del proprietario gravava sulla produzione del minerale con una percentuale del 20 o del 3 per cento.
La produzione dello zolfo in Sicilia del 1875 1889 era continuata ad aumentare, nonostante il prezzo fosse diminuito da L. 142 a L. 65,35la tonnellata al posto di imbarco (Nigrelli, op. cit. p. 161)