La mattina arrivavano con l’asino i fruttivendoli, molto attesi dalle massaie, che si accalcavano attorno ciarlando e contrattando sul prezzo con il loro dialetto colorito
Serata amarcord nel salone della chiesa dell’Addolorata, nel popolare quartiere del Rabato, ad Agrigento di qualche anno fa.
In tanti hanno partecipato all’incontro proposto dall’associazione Epea (ente per l’educazione degli adulti), diretta dal docente Girolamo Carubia, per condividere il racconto delle personali esperienze giovanili vissute dalla generazione nata nel dopoguerra e che è cresciuta nei vicoli del centro storico, all’ombra dei “tolli” (gli alti palazzi cresciuti senza piano regolatore nel dopoguerra), nei nuovi quartieri come il Sottogas.
“Com’era Giurgenti quannu era picciriddru ?”: questo il tema e l’interrogativo dell’incontro. Dopo la presentazione di Andrea Montana, della Confraternita dell’Addolorata, è seguito un piacevole racconto corale che ha visto protagonisti oltre che i tre relatori, Alberto Todaro, Giuseppe Falzone ed Enzo Tedesco, anche il pubblico.
Alberto Todaro ha ricordato uno degli agrigentini più noti negli anni Cinquanta e Sessanta, il gestore di un notturno in via Atenea, presso l’ipogeo del Purgatorio, il barbiere Paolino e la vivace vita nel nuovo quartiere cresciuto disordinatamente negli stessi anni a sud del centro storico e chiamato dagli agrigentini “Sottogas” perché appunto si estendeva sotto la centrale del gas. “La mattina arrivavano con l’asino i fruttivendoli, molto attesi dalle massaie, che si accalcavano attorno ciarlando e contrattando sul prezzo con il loro dialetto colorito – ha detto Todaro – Il venditore garantiva che la sua uva era “speciale”. Chi non poteva scendere per strada calava dalla finestra il “panaro”, mentre il venditore si affrettava a pesare il “coppo” con un improbabile “bilancia di precisione”.
Vincenzo Tedesco che per gran parte della vita ha vissuto al Rabato a partire dagli anni Quaranta quando via Garibaldi era sterrata o solo ricoperta da “basuli” di lava. “Ricordo i molti ambulanti e negozianti e i mestieri ormai scomparsi. Era popolato soprattutto da contadini e operai e artigiani. C’era un gelataio che chiamavamo ” u grasciatu” che vendeva gelati da cinque lire e il più costoso era di trenta. C’era poi chi faceva la “grattatella”, una sorta di granita dell’epoca con menta e zucchero. Ricordo un fabbro che si chiamava “mastro Onofrio” che ferrava i cavalli in un locale dove ardeva sempre un fuoco – ha raccontato Enzo Tedesco – Noi ragazzi giocavamo con palloni fatti con gli stracci. La mattina mi svegliano le canzoni dei carrettieri e quando si sentivano le campane dell’Addolorata la gente si faceva il segno della croce”.
Alcuni dei partecipanti hanno ricordato l’attività educativa dei padri salesiani nel quartiere san Giacomo e in particolare il salesiano don Curto, molto amato dai ragazzi insieme a don Dolcemascolo. Altri hanno ricordato come si viveva in famiglia l’atmosfera di alcune feste, ricche di tradizioni e di una gastronomia tipica ormai scomparsa nell’epoca della globalizzazione che ha spazzato via le peculiarità locali.
“Eravamo da ragazzi i padroni del quartiere. Non c’erano macchine. Giocavamo per la strada con un pallone e in particolare nella piazzetta antistante la chiesa di San Francesco di Paola. La sacrista, la signora Scimè ci bucava il pallone perché giocavamo fino a tarda sera e disturbavamo il sonno di molti – ha ricordato Giuseppe Falzone – Abbiamo organizzato una squadretta di calcio, incoraggiati da sponsorizzata da un semplice cittadino del Rabato, il signor Giacomino Burgio e con qualche contributo che ci dava la gente alla fine di qualche messa! “.
Una presenza cara per molti erano i carretti e i muli degli ambulanti che “abbanniavano” per vendere ricotta, latte, ortaggi, o il passaggio urlato le strade dell’arrotino che annunciava di “ammolare forbici e coltelli”.
Mario Aversa ha ricordato che i ragazzini di Agrigento che negli anni Cinquanta crescevano nel quartiere Ravanusella, dove c’era lo “scaro vecchio”, il vecchio mercato degli agricoltori. “Mi ricordo della carbonara, una signora detta “la stricata” che oltre a vendere carbone, acquistava alluminio, piombo, ferro, una figura molto nota – ha detto nel suo intervento Mario Aversa – Noi cercavamo nei pressi della stazione i piombini che cadevano dai vagoni dei treni per venderli alla carbonaia e comprare dalla “zia Mela” che aveva una bottega in piazza Ravanusella qualche dolce al cioccolato di quei tempi”.
Hanno ricordato la frana del 1966 Stella Camillieri con una sua poesia sul quel dramma cittadino ed Angelo Piraneo con una sua personale testimonianza. La signora Enza Donzella ha descritto i giochi e la vita spensierata delle ragazzine negli anni Cinquanta nei vicoli e nei quartieri del centro storico ed ha anche riportato una personale testimonianza sulla condizione della povere case dei contadini dove potevi trovare anche una stalla con il mulo accanto all’abitazione familiare.
Elio Di Bella