Nella notte dal 9 al 10 settembre l’Archimede ci portò da Selinunte ad Agrigento. La Città di Girgenti fabbricata nell’acropoli dell’antica Agrigento, trovandosi molto lontana dal mare, è stato costruito a’ piedi del monte un piccolo porto, che da alcuni anni ha preso una grande importanza commerciale per la spedizione dello zolfo; lo chiamano Porto Empedocle. Vi approdammo sotto un portico decorato delle statue di Vittorio Emanuele e d’Empedocle. Empedocle infatti è ancora il semidio di Agrigento. Filosofo, dotto, ingegnere, musicista, medico, profeta, taumaturgo, trovò inoltre il tempo di esser democratico, di dare una costituzione alla sua repubblica, di fondare l’eguaglianza civile, di rifiutare una corona, di abbattere l’aristocrazia del suo tempo. Quest’ultimo fatto contribuì molto alla sua moderna fortuna.
Il partito liberale di Girgenti vive alla lettera di Empedocle; la sua effigie si vede dappertutto; il suo nome è prodigato ai luoghi pubblici come quello di Garibaldi; non v’ha discorso in cui non sia ricordata la sua gloria, la quale, alla fin fine, è di buona lega. Empedocle non è secondo a nessuno di quei genii straordinarii della filosofia greca antisocratica che furono i veri fondatori della scienza e della spiegazione meccanica dell’universo.
I frammenti autentici che di lui abbiamo ce lo mostrano formulatore di tutti i problemi, accostantesi spesso alle soluzioni che si dovevano trovare duemila e duecento anni più tardi, rasentando Newton, Darwin, Hegel. Fece esperimenti sulla clessidra, riconobbe la gravita dell’aria, ebbe l’idea dell’atomo chimico, del calore latente, sospettò la fecondità dell’idea d’attrazione, intravide il perfezionamento successivo dei tipi animali e l’ufficio del sole.
In biologia non fu meno sagace: proclamò il grande principio Omnia ex ovo, l’applicò alla botanica, ebbe qualche nozione del sesso delle piante, vide benissimo che il movimento dell’universo è il reimpiego di elementi disaggregati, che nulla si crea né si perde. Concepì anche la chimica dei corpi organici non immischiò le divinità nelle sue ipotesi. Lucrezio gli deve tanto quanto Epicuro.
Sotto altri aspetti questo Newton ha del Cagliostro; ei camminava nelle vie di Agrigento grave e melanconico, con sandali di bronzo, una corona d’oro in testa, in mezzo a giovani che lo acclamavano.
Si difendeva debolmente quando gli si attribuivano miracoli ed anche risurrezioni e quando l’adoravano come un Dio. Gli agrigentini moderni non ammettono questi rimproveri e non vogliono vedere nel loro celebre compatriota che un ” dotto occupato a moralizzare il popolo, un gran cittadino che rese alla sua patria i suoi diritti politici e diede l’esempio dell’abnegazione rifiutando l’autorità suprema”.
Selinunte ora è cadavere di città. Agrigento vive ancora e ha circa 20.000 abitanti. Lo aspetto di quella sommità coronata di case fitte, elevantisi sulle antiche fondamenta e sui fianchi tagliati della roccia, e grandioso, austero. La mancanza di acqua, l’aspetto arido della campagna, inducono ancora alla tristezza.
duomo
La città moderna, con le sue vie strette, il suo aspetto tetro inaccessibile e chiuso, la sua cattedrale strana, tutta spagnuola, pare un avanzo di un altro mondo. A mezza costa si estende la città antica con i suoi sette o otto tempii, situati per la maggior parte lungo l’antico muro, in modo che dal porto quella linea di edifizii profilasi sul cielo. Il tempio detto dei giganti era per fermo qualche cosa di unico, poiché ha le più grandi colonne doriche che si conoscano.
Diodoro si esprime alla lettera quando dice che un uomo può stare nelle loro scanalature; l’abaco dei capitelli rovesciati a terra produce una specie di stupore. Un solo dei giganti che sostenevano l’architrave è steso a terra. L’effetto di quel colosso, le cui membra disarticolate sembrano le ossa di uno scheletro, è sorprendente. I piedi sono uniti e sottili; quei colossi infatti non hanno mai portato nulla, poiché erano addossati a un muro o a pilastri.
Sono incline a credere ch’essi fingevano di sostenere una volta nell’interno della cella, ciò che spiegherebbe il perché Diodoro non ne parli. All’esterno una tale decorazione avrebbe subito colpito e non sarebbe rimasta sotto silenzio. Il curioso sigillo di Girgenti nel medioevo, rappresentante l’aula gigantum fornisce argomenti pro e contro questa opinione.
Ciò che mi par certo in ogni caso è che questo tempio dei giganti serviva primitivamente a un culto orientale. Girgenti offre ben altre tracce di influenza fenicia nel suo tempio di Giove Atabirio (del Taborre), di Giove Polieus (Melkarth), situato nell’interno dell’acropoli, e negli indizii del culto di Moloch che si leggono chiaramente nelle favole relative al toro di Falaride. Quei giganti se fossero stati nell’interno della cella, potevano rappresentar la parte dei colossi osiridiani nei viali dei tempii d’Egitto e dei seraphim nel tempio di Gerusalemme.
Gli altri tempii di Agrigento son belli senza dubbio; ma a chi ha visto Atene piacciono difficilmente. L’accuratezza dell’esecuzione è minore di quella usata negli edificii ateniesi. Una specie di stucco rivestiva la colonna e dissimulava tutte le imperfezioni del lavoro. Negligenze e approssimazioni come quelle che si notano nella maggior parte dei tempii egiziani se ne incontrano qui ad ogni passo. L’imprevidenza dell’architetto si tradisce. Per fermo la perfezione fu inventata dagli ateniesi essendo arrivati gli ultimi, essi innovarono effettuando l’idea di edifizii fabbricati a priori nella cava, di edifizii in cui ogni pietra è tagliata pel posto che deve occupare. L’esecuzione dei particolari dell’ Erecteo, per esempio, è una meraviglia che fa disgustare di tutto ciò che si vede dopo.
tempio di ercole
Nei tempii d’Agrigento l’intonaco e la policromia nascondevano i difetti. Ogni viaggio, ogni ricerca, ogni studio nuovo è così un inno ad Atene. Atene non creò nulla di prima mano; ma in ogni cosa Atene introdusse l’ideale. E qual rispetto per la Divinità! Come non si cerca d’ingannarla! Si sono scoperti in un buco dinnanzi il Partenone alquanti tamburi di colonne inservibili. Bisogna guardar molto da vicino per iscorgere il difetto che li fece metter da parte. Quello che non si vede è eseguito tanto accuratamente quanto ciò che è visibile. Nulla di quei vergognosi ornamenti vuoti, di quelle apparenze ingannatrici che formano l’essenza dei nostri edificii sacri.
Quella faticosa giornata ci aveva spossati e il cordiale banchetto che ci diedero gli Agrigentini sul campo stesso delle ruine non avea fatto che ispirarci il desiderio del riposo. Ricevemmo quindi con gioia la notizia che la ospitalità ci era preparata presso Gellia. Gellia fu un ricco cittadino dell’antica Agrigento (V secolo avanti Gesù Cristo) che aveva fatto fabbricare molti alberghi, a ognuno dei quali era addetto un portinaio che invitava gli stranieri ad entrare per ricevere una gratuita e splendida ospitalità. Il suo nome è divenuto quello di un albergo in cui prendemmo dolcissimo riposo, dolce ma breve.
Ernesto Renan