di Antonino Cremona
Doveva essere di qui la vecchia che piangeva la morte di Nerone, lamentandosi perché al peggio non c’è fine. La storia di questa città è un precipitare nel vuoto. Dai borghi dei giganteschi lotofagi sicani alla fondazione e al predominio di Akragante — è vero — trascorse un lungo periodo di civiltà e di splendore;
sia pure inframmezzato dalla tirannide di Falàride, dall’ambizione di Trasidèo, dalla reazione nobiliare sul democratico Empedocle.
La città non ebbe fama solo, a mezzo di Cicerone e di Dante, per il terrore instaurato da Falàride — ed esasperato con il toro di bronzo, orrenda macchina di morte ch’egli fece costruire da Perilao con acuminata fantasia ispirata ai riti punici di Moloch — ma per l’interesse di Pindaro (e di Polibio, di Pitagora, di Plutarco, di Zamblico, Ateneo, Gorgia, Virgilio, Diodoro Siculo, Lucrezio, Simonide, Diogene Laerzio) alla saggezza di Tenone, alla scienza e alla magia di Empedocle, alla filosofia e all’oratoria e alla medicina di Acrone, alla storiografia di Filino, alla commedia di Dinoloco, alla poesia tragica di Carcino, di Empedocle il giovane, di Archino, alla musica di Metello, a Polo rivale di Demostene in oratoria, alle straordinarie virtù esecutive del flautista Mida, alla splendida ospitalità e all’arguzia e all’eroismo di Gellia, all’eloquenza fluida e serena (come Cicerone la loda) del democratico Sofocle, alle vittorie olimpiche di Terone e di Esseneto, alla magnificenza della città, alle sue conquiste che la fecero padrona di molta parte della Sicilia e del Mediterraneo, alla sua ricchezza di acque, di prodotti, di commerci, di pascoli per i suoi cavalli bianchi.

Raggiunto il culmine dello splendore, inizia il crollo inarrestato. Si sottomise a Siracusa, poi a Cartagine, cercò di rifiorire con Timoleonte ripopolandosi di coloni elei e di tornare ad estendere con Finzia i propri domìni, ma si arrese a Pirro, ai romani (anch’essa facendosi granaio di Roma), ai vandali, ai bizantini. La metropoli diventa una distesa di macerie;
un villaggio ormai lontano dal mare, misero e incolto, quale lo prendono i saraceni per farne di nuovo un grande vasto giardino. Non più Akragante né Agrigentum, la città si chiama Girgenti. Girgentano è il famoso giureconsulto malikita Abu Bakr, e da Girgenti inizia — nell’anno arabico 325 — la ribellione degli arabi siciliani contro l’emiro Sàlim ibn Ràsid.
Sotto i normanni, che pure l’arricchiscono di vari monumenti, la città continua a calare nel suo precipizio. Vengono gli angioini, si ribella nel 1644 per la mancanza di grano, si sottomette a Vittorio Amedeo II di Savoia, poi all’Austria, si dissangua nella repressione austriaca delle cospirazioni, passa sotto il dominio spagnolo ed è insignita del titolo di Magnifica. Poi vengono i borboni, poi Garibaldi, e l’unità. Qualche dimostrazione durante i Fasci Siciliani, qualche iscritto all’Internazionale, poi arriva l’autonomia siciliana.

I difficili nomi degli akragantini illustri sono ricordati condiffidenza; ad essi sono intitolate delle strade, per il gran intestardimento dell’avv. Raimondo Firetto (ultimo discepolo in poesia — dice — di Empedocle).
Così via Dinoloco diventa, nel parlare di tutti, Binocolo. A nessuno importa che s. Gregorio fu qui vescovo nel VI secolo, che nel XV e nel XVI furono nostri concittadini lo storico Federigo del Carretto, il grammatico e oratore sacro Niccolò la Valle, il celebre dotto gesuita Giuseppe Biondo, il medico e filosofo Francesco Cavallo; nel XVII e XVIII secolo il giurista Mario Diana domenicano, il giureconsulto Giuseppe Caruso, il drammaturgo e giurista Francesco del Carretto, il poeta e filologo Francesco Antonio Bardi, l’onoratissimo fra Domenico Palamengo poeta in latino e in italiano e oratore sacro (accademico degli Infecondi di Roma, dei Gelati ed Inutili di Bologna, dei Riaccesi di Palermo).
Nessuno ricorda Guglielmo Raimondo Moncada, celebre ebreo girgentano convertito, canonico della cattedrale e amico di papi, dottissimo di lingue europee ed orientali, rilasciato — poi — come si esprime l’eufemistico linguaggio dell’Inquisizione (cioè morto nell’incendio del suo auto da fé) essendosi scoperto che davvero non si era convertito mai. Una lapide è dedicata a Michele Fodera (fisiologo e filosofo, conosciutissimo ai suoi tempi in Italia e in Francia anche per le idee consonanti con l’internazionalismo bakuninista), un’altra lapide a Giuseppe Lauricella « celebrato per le sue ricerche sui campi elastici e sulle equazioni integrali », un mezzobusto a Niccolò Gallo; però non si ha memoria di Gabriello Dara, di origine albanese, noto cultore di quella letteratura, archeologo, avvocato; di Filippo Fodera, grande oratore forense, fratello di Michele; di Giovanni Ricci Gramitto, avvocato principe, organizzatore dei moti separatistici del 1848 e ministro del governo provvisorio di Ruggiero Settimo, autore di poesie politiche, morto a 46 anni in esilio a Burmula, nell’isola di Malta.

Più sono le dissimiglianze degli agrigentini, che le somiglianze con gli altri siciliani. E quel giudizio che sui siciliani De Amicis esprime, nel suo libretto di viaggio del 1908, riguardo agli agrigentini può essere voltato così:
« Strano carattere, debole e mutevole nella volontà, facile allo scetticismo, pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento individuale, che in altri popoli è il più grande propulsore delle iniziative, produce l’effetto di far curvare l’individuo dinanzi all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare le moltitudini a pochi padroni, di perpetuare lo spirito del feudalesimo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i rampi »; là dove, per i siciliani in genere De Amicis aggiungeva che quel carattere è « violento e tenace nella passione », facile all’entusiasmo, « eroico nei suoi impeti generosi ».
Riconosciuti — dunque — all’agrigentino tutti i difetti, compreso quello della pazienza, si può continuare a leggere — anche riguardo a lui — quella notazione del De Amicis:« Un grande errore è però il giudicare il siciliano dalla collettività, come la maggior parte di noi italiani facciamo. Egli ha tanto da guadagnare a essere conosciuto individualmente e da vicino. Lavoratore, ragionatore, padre di famiglia, amico, ospite, egli si rivela tutt’altro uomo da quel che pare visto da lontano, nella moltitudine ».
Ma l’agrigentino non ha solo questi pregi nella sua vita privata, e questi vizi nel suo comportamento sociale; vi è dell’altro: Agrigento e i suoi abitanti sono quelli che — di peso — Pirandello ha inserito nelle proprie opere. E Sciascia, su di essi, in Pirandello e il pirandellismo ci dà una pagina rara: « Girgenti, Sicilia. Per Pirandello chiamiamola col suo nome di ieri, quello degli arabi, quello del regno dei Borboni e di Umberto I: così ancora coi loro scialli e i loro fagotti vi si recano per i settimanali colloqui al carcere di Santo Vito, per la « causa » che si discute in tribunale, per il passaporto di emigrante in questura.
Girgenti: angusta, ristretta, tortuosamente chiusa in sé; araba nella struttura, nella sua chiusa essenza di « casbah », nella sua sofisticata tortuosità ascensionale — fino alla Cattedrale alta, col suo san Gerlando vescovo, lo scheletro rannicchiato di Brandimarte paladino (divenne poi san Felice, vi spiegano), le travate del soffitto dipinte, che vi fanno pensare ai carretti: e cattedrale sia come un grande, vecchio carretto, e si muovono cigolando, nonostante le sue colonne nuove e fredde, verso della vallata aperta e verde, verso il tempio di calda arenaria che san Gerlando salvò dalla distruzione.
Ma occorre dimenticare i templi solari nella valle viva, dimenticare Agrigento ». « La Bibbirria, la porta dei venti, si apre ad un vento che riempie la città di un murmure di conchiglia, un vasto segreto mormorio che sveglia le strade fossili, e dalle finestre socchiuse entra dentro stanze stinte piene di fotografie ingrandite, di cuscini pirografati, di vecchi orologi, di polverose porcellane.
E’ un vento d’alba che schiude appena le imposte: c’è come quel senso di attesa, quel brivido di emozione che scorre in un teatro prima che il velario si apra. E ciascuno, dentro quelle stanze grigie, tra quelle buone cose di pessimo gusto, prepara il suo volto, ripassa la sua parte, e rifa le battute che toccano agli altri per esser sicuro di non incrinarne il ritmo con le sue.
Eccoli pronti, ora: si aprono le finestre prima cautamente spiragliate, si animano le strade a chiocciola, gli angiporti, le altane. Ma guai a sbagliare una battuta: tutta la rappresentazione crollerebbe ».
Si può condurre gli altri al proprio giuoco; si deve stare al giuoco degli altri. Tutta la vita, pubblica e privata, è tesa — sino a lacerarsi — in queste due contrastanti direttive. Quasi tutta l’opera di Pirandello ne è una precisa testimonianza.
Questa malsana regola sociale dà i suoi torbidi frutti: il disinteresse alla vita politica, ma la passione per tutti i sortilegi e le soggezioni che si ammantano di politica; il gusto puramente estetico, aneddotico, dello scandalo; la sopportazione incredibile, sterilmente ironica, a vedere rovesciati tutti i rapporti: quelli fra gli uomini, quelli con l’ambiente, quelli della natura verso i suoi abitanti.
Questa ch’era una terra feracissima s’è fatta povera e stenta, le sue acque — che pullulano negli ipogei spontanei e in quelli adattati dall’uomo paleostorico e dai greci — sfuggono al bisogno degli agrigentini di lavarsi, alla loro sete; questa città, ch’è stata sempre un centro turistico di rilevante importanza — prima perché le sue dovizie costruttive erano recenti, poi perché sono assai vistosi i resti archeologici — allontana il commercio turistico con l’assuefarsi alla sporcizia e all’arretratezza, ambedue — anzi — industrializzando nei casamenti atteggiati a grattacieli stesi a sipario sulla valle: per difenderla — con i suoi templi, con le sue rovine — dai corrosivi sguardi degli uomini, per preservarla al mare e al sole; un sipario, un frangivento continuo di palazzi e di grattacieli brutti e inospitali.
E rimasti di qua dal sipario, nel chiuso della città torreggiata dagli estranei nuovi palazzi, si vive nella polvere, nella fanghiglia, nella confusione, nell’immondizia. Sarebbe bastato — invece — copiare gli antichi: i sicani sulle cui costruzioni fabbricarono i greci, su queste i neogreci di Timoleonte, i giudei, poi i romani, gli arabi, i normanni (cioè gli arabi ancora); la città si esponeva alla vista delle navi — e da ogni punto di essa tutto poteva esser veduto — perché era disposta a terrazze digradanti, nel tempo saraceno fiorite in vari modi di cui solo resta qui e lì qualche . gelsomino.
Si è preferito — invece — diffidare dell’intelligenza e dell’istinto, ammassare edifici l’uno sull’altro a togliersi luce e respiro, l’uno davanti all’altro in una corsa pazza al mare in cui prevarrà l’ultimo: quello che proprio nel mare potrà essere posto.

Questo imbarbarimento, seguito alla cacciata degli ebrei — medici e commercianti, e docenti dell’università aperta a tutti — aura da molti secoli.
Così, nella novella il vitalizio, Luigi Pirandello descrive Girgenti: « su e su per tutti quei vicoli a sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti e tutti in ombra, oppressi dai muri delle case sempre a ridosso, con quel po’ di cielo che si poteva vedere nello stretto di essi, a storcere il collo, che poi nemmeno si riusciva a vederlo, abbagliati gli occhi dalla luce che sfolgorava dalle grondaje alte; finché non arrivava al Piano di San Gerolamo su in cima alla collina.
Ma arrivato lassù, di tutta la città non scorgeva altro che tetti: tetti tesi in tanti ripiani, tetti vecchi, di tegole logore, e tetti nuovi, sanguigni, o rappezzati, che sgrondavano di qua e di là, chi più chi meno; qualche cupola di chiesa col suo campanile accanto alche terrazza su cui sbattevano al vento e sbarbagliavano al anni stesi ad asciugare ».
E nel romanzo I vecchi e i giovani: “Si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciotolati, sudici spesso, intanfati di cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buie come antri », « e dalle catapecchie delle povere donne, che passavano le giornate a seder sull’uscio, le giornate eguali tutte, vedendo la stessa gente alla stess’ora, udendo le solite liti che s’accendevano da un uscio all’altro tra due o più comari linguacciute per i loro monelli che giocando s’erano strappati i capelli o rotto la testa. . . ».
Una vita — dunque — negata a se stessa. Arroventata e blandita dallo sparlamento, da questo o quel film di terza categoria, dalla televisione che — per chiunque — fa testo, Le biblioteche di fatto non esistono, e sono abbandonate con la scusa che nessuno le cerca.
E’ chiaro ch’è ricercata e seguita quella del museo nazionale, perché è aperta. Quel museo, e il museo civico, le stesse pietre della valle buttate come lucertole al sole, non incuriosiscono se non i turisti. La gente s’intasa nel curvo tracciato arabo della via Atenea, per vedersi e scrutarsi, anche quando potrebbe fare venti passi in più e passeggiare nell’aperto del viale. Esiste un cineforum, ma dedito a films di qualunque livello e a premi di cioccolatini a chi trova la frase più « bella » adatta al commento musicale del film da vedere.
Due clubs maschili e uno femminile, recentissimo, che sembra possano incidere in qualche misura sulla realtà sociale: ma lo fanno nel solito modo paternalistico — che forse è sempre qualche piccola cosa — del sangue prelevato per l’ospedale o della borsa di studio. Ogni albero, ogni filo d’erba, è abbandonato e poi tolto per far posto ai palazzi. I partiti fabbricano raccomandazioni e vendette, non fanno politica. Tempo fa ad Alfredo Todisco il quale chiedeva « I professori che fanno? » rispondeva icasticamente un corrispondente di giornale, Santo Carlino:
« Vanno dal macellaio, a comprare la carne ». La carne dura, presa dai rivenditori nei mercati di scarto. Se conferenze raramente sono tenute, non dibattiti, non conversazioni, sono colme di luoghi comuni pronunciati col paesano tono della maggiore solennità. La casa natale di Pirandello è monumento regionale, solo per mostrare i mobili finti della sua epoca. Nessuna iniziativa, se non quella (per fortuna sempre smorente) di alzare un monumento a don Luigi magari a cavalcioni di un asinelio — o di gemellarsi (ottimi viaggi e svaghi per chi se ne interessa) con Bonn o altri luoghi, sempre per via di Pirandello. Praticamente, non ci sono contatti culturali in alcun posto. Ma non ve n’è bisogno. Basta che vi siano gli spaghetti col sugo, alle due, e la verdura a tavola la sera. L’involuzione, lenta ma larga, continua. Si torna indietro.
Scriveva un anonimo giornalista, il 4 maggio 1874, su La Gazzetta d’Italia: « Girgenti è un ammasso di casupole e di tuguri; le vie, non vie, ma sentieri e rampe scabrose e tortuose e piene di sporche e cenciose creature non solo, ma puranche di bestiame grosso e minuto; gli alberghi, ricovero d’insetti e di sudiciume, fanno venire i brividi addosso ».
E annotava nell’88 — prima del 1000 — lapidariamente ’Al Muqaddasi: «Girgenti giace sul mare; murata; vi si beve acqua di pozzo ». Stanco, tardo, lento, il medioevo (quello delle capacità, degli intelletti) ancora sonnecchia tra le due alte colline.
Per questo Agrigento è un’isola.
Un discorso organico — ad esempio — sulla Sicilia di Sciascia tra Agrigento e Caltanissetta non si può condurre. Già le frazioni — quella valliva di Villa Seta, le montane Montaperto e Giardina Galloni, la marina di San Leone — sono un ambiente diverso, e gli abitanti sono altri abitanti. Navarro rientra in una figura geometrica composta con Averroè, Cervantes, Unamuno, Pirandello, ma egli — sambucese — è tutt’altra cosa di Luigi Pirandello, così come — da lui — Alessio di Giovanni. Sciascia è di Racalmuto, e come Navarro, come Pirandello, è intriso della mediterranea ironia che circola tra le sponde d’Africa e quelle di Spagna. Ma fra di loro non hanno maggiori contatti. Il mondo di Pirandello — che coincide col mondo di ogni altro luogo, nella scelta operata dalla poesia — è Girgenti; il feudo e la miniera quella del ciancianese Di Giovanni; Sambuca — paese montano e tardoromantico — quello di Navarro (e Parigi, e tante altre cose); quello di Sciascia — invece — è Racalmuto e la Sicilia: mai Girgenti, monade compiuta di tutte le sue razionali assurdità. Poeti di campagna quelli (tranne Sciascia, che sfugge a definizioni del genere), poeta del borgo Girgenti — invece — Luigi Pirandello. In tutta la sua precipitante storia, la città ha mantenuto particolarità diverse da quelle di ogni altra; forse è vicina a Spoon River, essendo un luogo defunto e insepolto; merita, comunque, un discorso a parte.
Si può cercare di avviarlo ascoltando le personalità del modo di vivere girgentano.
Da Antonino Cremona, Passa un Fatto,Celebes editore.