Girgenti come si chiamò fino al 1927 la città di Agrigento fu nel medio evo culla dell’illustre famiglia dei Chiaramonte.
Federico I, signore di Siculiana, sposata l’agrigentina Donna Marchisia Prefoglio, si fermò in questa città, dove nacquero Manfredi I, Giovanni II e Federico II che diedero vita alla più potente signoria feudale della Sicilia.
Ai Chiaramonte, che fecero costruire ospizi, chiese, conventi e castelli, si debbono le muraglie e le fortificazioni che, alla fine del XIV secolo cinsero la città, lasciando fuori soltanto l’antico Rabato.
Iniziando dalla parte sinistra della “Porta del Ponte“, come veniva chiamata la porta che costituiva l’ingresso della città, le mura scendevano fino alla prima torre, per poi voltare a sud dove si susseguivano le altre quattro che servivano di difesa alla città.
Sotto la seconda si apriva una porta detta del Marchese, nella cui parte interna si vedevano le armi dei Chiaramonte; dopo la quarta torre si apriva l’altra porta (ancora esistente) detta dei Panettieri, anticamente chiamata “Bellicaudi”, corruzione della parola ara ba “Bab-el-Kaid” che significa “Porta del Giudice“, secondo alcuni storici, e da “Badd-ahel”che significa “parte popolata”, secondo altri, perchè immetteva nel popolare quartiere di “Ravanusella”, diminutivo di Ravanusa, parola anch’essa derivata dall’arabo “Rab” (di= mora) e “nas” (gente qualunque).
Questo quartiere agrigentino prende ancora il nome di Ravanusella ma dalla gente del popolo viene pure indicato come “Bellicalli”.
Da questa porta le mura arrivavano ad un’altra torre detta di Notar Andrea, posta poco dopo l’attuale chiesa di Ravanusella, torre adibita ad uso di macello fino al l849, anno in cui nell’aprile rovinò per averla alcuni ingegneri del genio militare indebolita dal lato est praticandole una grande apertura per la posa di un cannone per la difesa della città dalle ritornanti truppe borboniche, già sbarcate a Messina.
Le mura voltavano, poi, ad oriente fino ad incontrare la porta detta, nel Quattrocento, dei Pastai (in seguito nominata dei Saccaioli) ancora esistenti, sopra la quale venne costruita la ormai demolita chiesetta di S.Lucia; seguivano fino a Porta di Mare, poi voltavano ad ovest dove si apriva la porta detta di Mazzara, corruzione del nome arabo di “El-Maha-ssar” che significava “torchio o trappeto” secondo il Picone, che vorrebbe impiantato in questo luogo una manifattura dello zucchero. Ma tale industria, anche sotto la dominazione araba in Girgenti, non esistette mai, per cui è senz’altro da accettare l’interpretazione data da altri storici ed arabisti, che il nome derivi da “Ma’sarah” che significa “luogo dove si pigia l’uva”, cioè il palmento,c osa possibilissima ad esistere anticamente nel Rabato (dall’arabo Rabat, che significa sobborgo al quale la porta immetteva.
Il 25 settembre 1873 venne abbattuto un pilone di questa porta. Seguivano, poi, le mura la linea nove ora sorge l’Istituto Gioeni, fino ad arrivare allo “Hosterium” (detto “Lo Steri”) fatto costruire da Manfredi I Chiaramente, dopo che la madre, rimasta vedova, volle destinare il proprio palazzo a monastero di monache cisterciensi (Monastero di S.Spirito), “steri” ora diventato Seminario Vescovile accanto a cui si apriva la porta detta dei Cavalieri, che dopo rovinata venne sostituita con un arco detto”pertugio”.
Voltavano, indi, le mura a nord, seguendo la linea della Chiesa Madre fino al Castello (ora non più esistente) per incontrare la “Porta Biberria“, nome che taluni, con amena trovata, vorrebbero far derivare dalla leggendaria frase che si attribuisce senza fondamento storico a S.Libertino, primo vescovo di Girgenti, allorché venne martirizzato in quel luogo: “Gens iniqua, plebs rea non videbis ossa mea”, mentre più che da “plebs rea”, il nome deriva dall’arabo “Bab-er- riab” che significa “porta dei venti” secondo il Picone,o da “Babu- r-riab” che significa “porta della collina elevata ” secondo altri.
Da porta bibbirria le mura continuavano fino all’angolo della Chiesetta di S.Maria degli Angeli da dove, voltando a oriente, si ricongiungevano con Porta del Ponte.
Queste mura, alla fine del sec. XVI erano già bisognevoli di riparazioni, e nel 1540, temendo le incursioni dei corsari che in quel tempo infestavano i mari di Sicilia, Bartolomeo Montaperto, segreto ed ambasciatore di Girgenti al Parlamento tenuto nel maggio di quell’anno, in Messina, dal Viceré Gonzaga, ottenne la facoltà d’imporre per tre anni “il balzello” di cinque grana su ogni salma di frumento che si consumava in Girgenti, destinando il ricavato relativo alla riparazione delle mura chiaramontane.
La “Porta del Ponte” era inclinata rispetto l’asse della “Strada Maestra” (la principale via cittadina, ora via Atenea) con un angolo in direzione dell’attuale caserma dei carabinieri. In essa si vedeva come scrive il Picone, “lo stemma del re Federico, che non curato fu barbaramente infranto, il che induce a ritenere il buon accordo coi Chiaramonte ed il consentimento di quel sovrano “all’esecuzione di quell’opera di fortificazione nonché le lotte tra la potenza regia e la baronale non ancora sorte per intorpidire il regno”.
L’esimio storico agrigentino afferma che “era di magnifica costruzione, con gli archi nel consueto sesto acuto meraviglioso era lo incavo della saracinesca”, e le sue parole troverebbero conferma nel detto popolare che includeva la porta fra le cose più notabili della città:
“Tri su li cosi di Girgenti: Fonti, Ponti e Porta di Ponti”.
Accanto la Porta di Ponte, dalla parte destra (dove ora è il palazzo Caratozzolo) esisteva una mediocrissima a caotica costruzione, che era la casa Argento, dove si trovava un nauseante e puzzolente fondaco per il ricovero degli animali, detto “fondaco Argento”, mentre dalla parte di sinistra, entrando sorgeva una costruzione modesta ma decente: la casa Mendolia.
Nel febbraio 1762 il Re autorizzò il Decurionato di Girgenti a portare in città l’acqua “della miraglia”, nel novembre dello stesso anno, per impiantare una fontanella, venne nominato un perito e redatta una relazione, dopo aver data una livellazione all’ampio piano che estendevasi davanti la porta, detto punto “Piano di Porta di Ponte”. Fu una livellazione per modo di dire, perchè il piano, fino a tutta la prima metà del secolo scorso, si presentava come un mare di dune, pieno di cespugli e ciuffi di erba, e ricco di sassi, dove facevano brutta mostra i così detti “stazzuna”, con accanto i “burgi”, cioè modestessimi casolari di figuli, con accanto cumuli di paglia che servivano per le rudimentali fornaci dove venivano cotti mattoni, brocche, tegole ed altre stoviglie.
Questi stazzoni esistevano parte nel sito dove ora sorge il palazzo del governo, e parte dopo la casa Argento, lungo la muraglia (dove ora esiste il palazzo Scaglia) e sovrastavano da una collinetta piena di opunzie alias fichi d’india (dove ora si erge il grattacielo dello Standa) la strada rotabile (ora via Gioeni). Venivano alimentati dall’argilla estratta dallo stesso spiazzo (detto poi dal popolo: “Piano di Sanfilippo“), nel sito dove in seguito sorse l’ingresso della Villa Comunale, e dove si era formata una conca che si riempiva di acqua piovana, agevolando i figuli nell’estrazione dell’argilla. In quel maleodorante stagno, i monelli si divertivano buttare sassi per veder schizzare l’acqua.
Vicino a questo stagno, stava la collinetta del “Calvario” con le sue grandi croci, dove gli agrigentini accorrevano il Venerdì Santo per assistere alla discesa della croce, battendosi le guance con le mani in segno di mortificazione, ad ogni chiodo tolto al simulacro di Gesù Cristo, strana usanza che ancora oggi si ripete, ma nella Chiesa Cattedrale.
Dalla parte sinistra della “Porta del Ponte”, dopo la casa Mendolia verso sud, si estendeva una vallata che per la sua forma veniva detta “La Nave”, dove nel 1850 il Colonnello Pasquale Fleres, comandante del 5°Fanteria, fece impiantare dai suoi soldati una graziosa villetta (che si estendeva fino alla Chiesa di San Calogero) dopo aver rintracciata una vena d’acqua in quella località a nord vi era una banchina che serviva per pubblico passeggio.
Dietro la Chiesa, la collina con fichi d’india, ed in alto il Convento francescano di San Vito fatto costruire, nel 1432, dal Senato di Girgenti per avvicinare il Beato Matteo alla città (ora adibito a carcere giudiziario). Dov’è la caserma dei carabinieri, vi era un altro “Stazzone”.
Questa era, nella metà del secolo XIX, la “Porta del Ponte” ed il suo piano, che fu testimone di fatti e misfatti, tra i quali, prima del 1848, la pubblica fustigazione di un tale Antonino Averna, detto “Ninazzo”, e nel I848 la giustizia sommaria fatta dal popolo degli assassini a scopo di rapina del Sacerdote Calogero Fardella tali Lione, suo servitore, e tali Romano e Carrabba, per citare gli episodi più eclatanti.
Estr. dal giornale “L’Amico del Popolo” del 1968 – a firma di A.Giuliana Alaimo .