di Dante Bernini
Nella Girgenti della prima metà del XVIII secolo, investita dai secolari malanni sociali, colpita gravemente dalla fame e dal brigantaggio, sfiorata dal terremoto e dalla peste, un vescovo illuminato, monsignor Lorenzo Gioeni si sforzò di contribuire a risollevare la città e il suo gregge dalle sventure da cui sembravano da sempre perseguitati. Si fece promotore di molte iniziative socio-economiche, istituendo, oltre che il monte frumentario, scuole e ospizi, ma soprattutto promuovendo la costruzione del Molo nel Caricatore di Girgenti, in sostituzione del vecchio e malandato “sbarcatoio”. S’ingaggiò allora fra il vescovo e il re Carlo III a cui era stata chiesta l’autorizzazione ai lavori, una nobile gara su chi dovesse provvedervi, vinse ovviamente il re che riservò alla competenza dello Stato disegno ed esecuzione dei lavori.
Forse con quest’opera, per i tempi gigantesca e comunque decisiva per le sorti della città, può farsi cominciare il periodo neoclassico a Girgenti, anche se per prima paradossalmente ne rimase ferita l’architettura classica e la storia stessa della città con lo spoglio delle rovine del Tempio di Giove, in parte avviate al Caricatore per la prima fondazione del nuovo Molo. Con la soprintendenza del conte Giovanni Filangeri, si gettava la prima pietra nel 1749, e chissà che non fosse non una qualunque pietra bensì una porzione di triglifo o un frammento del fregio o di un Telamone. Nessuno naturalmente protestò, nemmeno Winckelmann che non aveva ancora messo piede in Italia, dove sarebbe giunto nel 1755, l’anno dopo la morte del vescovo Gioeni, il quale chiuse i suoi giorni nel 1754 nella costernazione generale dei girgentini che da quel vescovo erano stati beneficati in modo eccezionale.
Il suo successore Andrea Lucchesi Palli, altro vescovo illuminato, se non illuminista, non fu da meno, favorendo la diffusione

dell’insegnamento e della cultura, mediante la fondazione tra l’altro della biblioteca da lui detta lucchesiana in cima al colle di Girgenti, accanto alla Cattedrale e al vescovato, ricca di molte migliaia di volumi e di un’importante raccolta di manoscritti, oltre che italiani e latini, greci e arabi. Peccato che di quella biblioteca il ricordo più vivo stia tutto nell’orrore espresso da Pirandello, al momento in cui stava lasciando la patria per il soggiorno di studio in Germania. Gaspare Giudice nella sua magistrale biografia dello scrittore agrigentino così ne riferisce:
Prima di partire dalla Germania, Pirandello torna in Sicilia e passa un’estate con i suoi. Da Palermo con una lettera datata agli “idi di settembre del 1889”, egli fa al Monaci un resoconto di questa ultima stagione siciliana. Dice che, fin dai primi giorni del suo ritorno in Sicilia, si è ridotto “in così malo modo da non sapere resistere al violento attacco d’una malattia che l’ha condotto quasi al limitare della morte e dalla quale teme di non potere liberarsi mai più tutta la vita”. E aggiunge: “Ella immagini: una endocardite. Attribuisca a ciò la causa del mio lungo silenzio, e abbia una parola di compatimento pel suo povero Pirandello, il quale peraltro non ha mancato di ricordarla sempre con affetto e devozione, serbandosi fedele alla promessa fattale di recarsi – non appena è stato possibile – in Girgenti, a cercare se in quella biblioteca Lucchesi-Palli…fossero degli antichi manoscritti. Molti di fatti ne trovai, e alcuni, stimo io, di qualche valore. (La Biblioteca Lucchesi-Palli, chiarisce il Giudice, è la stessa dove Vincente De Vincentis, un personaggio de “I vecchi e i giovani”, che corrisponde a uno studioso girgentano realmente esistito, Michele De Gubernatis, sta in eterno a compulsare e a studiare i codici arabi, mentre i beni familiari gli vanno in rovina).
Al maestro Pirandello scrive che la biblioteca, affidata a un prete Schifano, “presso che illetterato”, “va in perdizione”, che i manoscritti antichi “circa cento”, “sono ridotti a tale da non poterne in alcuni casi più far conto e copia”, mentre Curia vescovile e Comune sono in lite per il possesso di quella sede. Poi racconta, pittorescamente, e con stile da cronista umanistico, il suo primo ingresso in biblioteca: “…vidi nella penombra fresca che teneva l’ampio salone rettangolare, presso un tavolo polveroso, cinque preti della vicina Cattedrale e tre carabinieri dell’attigua caserma, in maniche di camicia, tutti intenti a divorare un’insalata di cocomeri e pomidori. Restai ammirato. I commensali stupiti levarono gli occhi dal piatto e me li confissero addosso. Evidentemente io ero per loro una bestia rara e insieme molesta. Mi appressai rispettosamente (perché no?) e domandai del bibliotecario. “Sono io”, mi rispose uno degli otto, con voce afflitta dal boccone non bene inghiottito; “Io vengo a chiederle il permesso di vedere se in questa…(non dissi taverna ma biblioteca) sono dei manoscritti”. “Là giù, là giù, in quello scaffale in fondo”, mi interruppe la stessa voce impolpata di un nuovo boccone, e gli otto bibliotecari si rimisero a mangiare. O Marius De Maria, sospirai io, pittore bizzarro e fratel mio d’elezione!
Lo scaffale accennatomi era aperto: chi ne avesse avuto voglia avrebbe potuto servirsi a comodo; ma quei libri non conoscono altri visitatori che i topi e gli scarafaggi…”.
Descitti i manoscritti (fra cui quelli arabi, “fonte copiosa di studi al compianto senatore Michele Amari, il quale per essi frequentò tre mesi interi la biblioteca”), Pirandello dice che, a motivo della salute, non poté attendervi più di una settimana, e conclude dicendo: “Ora mi dispongo a partire per la Germania. Il giorno 26 sarò senza dubbio a Roma dove non mi tratterrò più di tre giorni premendomi di trovarmi a Bonn a tempo debito”.
Non saprei dire quale conto facesse sulla riconoscenza del suo gregge monsignor Lucchesi Palli, ma del disinteresse delle pecorelle dice il modo in cui il dono era stato accolto e conservato per quel secolo che era trascorso dalla morte del donatore alla visita, così tardiva, dello scrittore.
E tuttavia in quel secolo abbondante era in certo modo mutato il volto dell’antica cittadina arrampicata sul colle, anche in funzione della nuova cultura che veniva affermandosi in Europa, e lentamente e tardi anche a Girgenti, agli estremi confini di quell’Europa. Si affollavano attorno alle rovine classiche che qui si custodivano, artisti e letterati, fra i più celebri Goethe, e lui come gli altri piuttosto per ricevere che per dare, eppure i contatti erano stabiliti, Girgenti era entrata nel circuito culturale, e qualche frutto doveva trarne, un’idea almeno da elaborare con la lentezza della periferia.
L’economia, con l’apertura del Molo si riassestava, commercianti e industriali dello zolfo si sostituivano all’antico ceto parassitario dei feudatari. Si cominciò a pensare anche alla città, tentando di migliorarne l’aspetto generale e sopratutto la viabilità. Furono selciate le vie urbane, si corresse il corso della via Atenea, che diventò la principale arteria cittadina, e in armonia col più antico progetto chiaramontano di rinnovamento urbanistico varato sul finire del Duecento varcò la cinta muraria, sicché la città poté discendere verso la Valle dei Templi e il suo stesso passato classico.
porta di ponte
Ai due capi della via principale due monumenti voluti dalla cittadinanza furono realizzati, a non molta distanza di tempo fra loro, in forme neoclassiche. In cima la Piazza della Riconoscenza e in fondo la Porta di Ponte. Come narra diffusamente il Picone nelle sue Memorie storiche, nel 1826, quando già in città montavano fermenti risorgimentali, fra ribellioni e tradimenti, arresti e congiure, si dette incarico all’artista palermitano Valerio Villareale di eseguire un “colossale simulacro in marmo” del re Francesco I.
Quella commessa apriva una tragicomica pochade burocratica, in cui la città di Girgenti designata a capo-valle, veniva retrocessa alla sua primitiva condizione, quindi il decreto di abolizione veniva revocato, revocata la revoca, mentre malgrado tutto la statua arrivava al Molo e veniva trascinata a braccia dal popolo festante fino al centro della città, nella piazza di S.Giuseppe, col beneplacito reale e l’entusiasmo popolare, fra corse di cavalli e sparo di mortaretti. A feste fatte, giunse infine notizia della grazia concessa dal re “onde Girgenti continuasse a reggere la sua provincia”, e “da allora la piazza ove fu eretta la statua fu appellata della Riconoscenza” (Picone). Si sconosce quale fu il destino ultimo del monumento.
Sulla stessa piazza s’affacciava già, inaugurato nel 1835, col suo colonnato neoclassico il palazzetto del Circolo Empedocleo, progettato da Raffaello Politi, un artista siracusano (1783-1870) stabilitosi a Girgenti e qui attivo oltre che come pittore e incisore, come animatore culturale e quale archeologo, purtroppo anche, per quel che si sa, procacciatore di vasi greci cavati dalle necropoli agrigentine per il re di Baviera.
circolo empedocleo anni trenta
Poco più tardi, nel 1868, per delibera del Consiglio comunale si demolì l’antica porta trecentesca, là dov’era un ponte levatoio (donde il nome che aveva preso di Porta di Ponte) inclusa nel circuito delle mura chiaramontane. La nuova Porta, persa all’incirca la memoria dell’antica cinta, assume la forma di una sorta di Propileo aperto da logge e nicchie e concluso da un fregio aggettante ornato coi simboli della città e altri motivi decorativi, in modo da dar l’idea di un fregio dei templi dorici, i cui moduli peraltro erano già stati discretamente rievocati nella facciata della vicina chiesa di S.Pietro, rifatta nell’ultimo quarto del XVIII secolo su una preesistente di epoca medioevale.
villa garibaldiMa l’opera che più di ogni altra si rifaceva forse alla cultura e si direbbe all’ideologia neoclassica era la Villa Garibaldi, già Maria Teresa, iniziata a costruirsi nel 1850, grumo di nostalgico rimpianto per quanti ebbero l’occasione di goderne il fascino prima che tecnici sconsiderati e amministratori incolti ne decidessero la distruzione alla fine dell’ultima guerra. Poiché non sono tra quei fortunati (o sfortunati) nostalgici, non posso che rifarmi, anche in mancanza di un adeguato ricordo fotografico, a quel poco che ho potuto apprendere da occasionali colloqui con amici o conoscenti.
Doveva trattarsi di un jardin pittoresque, concepito e organizzato all’inglese, arredato con piccole tipiche fabbriche, e non so quali altri artifici, come uno di quei parchi privati che soprattutto nel Settecento si diffusero in tutta l’Europa, e anche in Sicilia (Villa Belmonte di Palermo, ad esempio), e nei quali s’incarnava l’idea del “paradiso terrestre”. Se poi non è vera la considerazione che fosse questo Eden a sforzarsi di somigliare a un parco francese, o inglese o tedesco, più di quanto il parco tendesse a somigliare a uno sconosciuto “paradiso perduto”. Girgenti, nella sua povertà, s’era creata anch’essa forse inconsciamente il suo “paradiso perduto”.