L’intero litorale del territorio provinciale agrigentino fu segnatamente interessato dal fenomeno della “pirateria”, fin dagli albori della nostra civiltà, da sempre legata al Mediterraneo, i pirati infestarono questo mare
Questo brigantaggio “marinaro”, endemico nella vita dei nostri mari e quasi quotidianamente presente nella travagliata esistenza delle popolazioni agrigentine, che del mare fecero la ragione del loro sviluppo, ha segnato della sua triste presenza, la storia, non solo delle città costiere della nostra provincia, ma dell’intera Isola, per lunghi e sanguinosi secoli scomparendo definitivamente all’orizzonte del “mare nostro” soltanto ai primi decenni del secolo diciannovesimo.
Per comprendere meglio il fenomeno piratesco che ha interessato le nostre genti è opportuno tuttavia puntualizzare le caratteristiche che contraddistinguevano i Corsari, “colleghi” più raffinati dei volgari Pirati,citando uno dei maggiori studiosi del fenomeno:
Corsaro propriamente dicesi di colui, che, quantunque privata persona, nondimeno (autorizzato con lettere patenti del suo sovrano), comanda un bastimento armato, e corre il mare contro i nemici del paese in tempo di guerra, a suo rischio e guadagno.
Al contrario i pirati si pareggiano in tutto cogli assassini: compagnia di ribaldi senza altra legge che il libito, uniti insieme per rubare sul mare, senza bandiera, o vero con bandiere bugiarde, senza rispetto di pace o di tregua, senza patenti, senza tribunali: pubblici nemici di tutti, peste e flagello dei mari. Furono questi ultimi ad infestare la nostra costa con azioni di brigantaggio, sbarcando nelle zone più riparate dal vento, ma anche dalla vigilanza costiera, come la Punta di Majata (oggi chiamata appunto la scala dei turchi), la baia di punta grande, punta bianca, l’attuale lido rossello, pietre cadute (giallonardo) bovo marina ecc.
Si può pertanto affermare che la pirateria costituì da sempre una attività economica molto lucrosa fondata sulla rapina e la violenza, praticata alacremente da tutte le genti del Mediterraneo: i Fenici furono spietati pirati, così pure i Greci primitivi (come Omero ci ricorda), ma la praticarono anche, in maniera più o meno ufficiale, i Romani, i Cartaginesi e tutti i popoli islamici. Questi ultimi, spinti da motivi anche religiosi, lasciarono in questa attività una impronta così profonda (soprattutto ai danni delle nostre popolazioni) da significare tanto nettamente il modello storico di pirateria mediterranea, sebbene da sempre tutti i popoli rivieraschi del mondo la praticarono incessantemente.
Il ricordo delle incursioni piratesche è ancora vivo nelle tradizioni del popolo agrigentino. L’usato grido “mamma li turchi” può darci la misura di quanto poco tempo sia trascorso dagli ultimi sanguinosi episodi del flagello pirata, i cui beceri protagonisti vennero comunemente chiamati, a cominciare dal XVI secolo, “i Turchi” o “pirati barbareschi”.
Questi, in effetti, erano popolazioni di discendenza turca insediatisi, nel tempo, lungo la costa nordafricana, detta “magreb“, dove furono fondate città autonome come Tunisi, Tripoli e Algeri, delle quali principale industria fu la “guerra da corsa”. Una guerra senza regole, senza strategie nazionali, praticata da individui, anarchica e volgare, con esclusivi scopi di rapina che tormenterà la vita delle coste agrigentine (ma non solo di quelle) fino alla prima metà dell’ottocento. L’episodio di pirateria barbaresca più recente di cui si trova documentazione, risale al 1828 ed è avvenuto lungo il tratto di costa tra Sciacca e Eraclea Minoa.
Dalla documentazione d’archivio, relativa al fenomeno delle incursioni piratesche lungo la costa agrigentina, si rileva che a partire dalla metà del 1700 l’attività corsara fece registrare la propria presenza quasi quotidianamente durante la buona stagione. Le relazioni sugli atti di pirateria che i vari distaccamenti per la difesa costiera inviavano alle autorità di Girgenti si succedevano, infatti, a ritmo incalzante.
L’episodio che di seguito narro, tratto da una di queste numerosissime relazioni, seppure simile, nelle modalità, a centinaia di altri che si verificarono a quel tempo, può tuttavia fare comprendere meglio la dinamica storica e militare del fenomeno piratesco.
Il fatto si è consumato in territorio di Siculiana, in un luogo prospiciente il mare chiamato, ancora oggi, ” a cannicedda”, a metà strada tra le due torri di guardia a difesa di quel tratto di costa: Torre Salsa e Torre di Monterosso:
Era l’alba del 6 ottobre 1804. Il comandante del distaccamento di Foce Salsa e Monterosso avvista un legno barbaresco in procinto di sbarcare la sua triste ciurma nel tratto di spiaggia sotto la “pagliara grande” (che serviva da rifugio per i soldati) e precisamente nel sito detto la “cannicella”.
Il sergente del distaccamento, resosi conto dell’imminente pericolo, incominciò a gridare all’indirizzo dei corsari, ingiungendo loro di allontanarsi con la minaccia di fare fuoco con l’artiglieria della torre di guardia.
I pirati, però, per nulla intimoriti continuarono imperterriti le manovre per lo sbarco. Il sergente diede ordine ai sottoposti di sparare contro la barca corsara, la quale rispose immediata-mente al fuoco con una buona scarica di “trombonate” (così nel documento), Fortunatamente la sicura esperienza militare del nostro buon sergente gli impedì di cadere nell’intelligente inganno tattico messo in atto dai pirati, rendendosi subito conto che quella, decisa aggressione era un diversivo per impegnare i soldati della guardia costiera, mentre un altro gruppo di pirati avrebbe tentato uno sbarco in una insenatura poco distante dalla torre.
Il sergente mandò subito due soldati ad esplorare il lato destro della “cannicela” solitamente indifeso, i quali, appena giunti sul posto, videro che un gruppo di pirati si accingeva a sbarcare da alcune “lance” proprio in quel tratto di spiaggia e così tornarono ad informare il comando del distaccamento sulle reali intenzioni dei barbareschi.
Il sergente lasciò soltanto quattro uomini a sostenere il combattimento con il legno, mentre al comando di 19 soldati si portò a dare battaglia ai pirati che nel frattempo avevano preso terra, otto dei quali già si erano inoltrati nella campagna vicina, cercando di 94 aggredire alcuni pastori che erano a guardia delle loro greggi, il sergente e le guardie regie si lanciarono all’inseguimento dei sparando con i loro schioppi e riuscendo così a salvare i pastori (e le pecore) da sicura cattura.
I pirati riuscirono a fuggire (dal documento si evince che i barbareschi non possedevano armi da fuoco) ricongiungendosi con i compagni che ancora si trovavano sulla spiaggia.
I pirati si imbarcarono sulle lance e si allontanarono velocemente, fatti sempre segno dei tiri di schioppo del sergente e dei suoi soldati. Ad attenderli poco al largo c’erano uno “sciabecco”, tipica nave corsara, una”galera” ed una “galeotta” che recuperate lance ed equipaggi fecero vela verso mezzogiorno.
Gli stessi ritornarono però qualche giorno dopo sbarcando su un’altra spiaggia ed utilizzando il medesimo stratagemma che fu già abilmente sventato dalla attenta difesa delle spiagge di Siciliana.
di Arturo Attanasio
Rivista Agrigento Nuove Ipotesi n.6 anno 2003