Le campane della Chiesa di san Pietro annunciavano la prima messa, quella delle sei e la ronda in Via Atenea aveva appena smontato.
I primi muli erano usciti da Porta di Ponte e anche nel piano di fronte la villa gli “stazzunara” avevano appena aperto le botteghe. Tutto come sempre nella piccola città di Girgenti. Anche i mandorli erano puntualmente fioriti in quella prima settimana di febbraio del 1861.
Ma per don Tano Vajola non fu però una mattina come le altre.
Sotto un sasso che ostruiva il cancello di casa trovò un biglietto.
Sapeva leggere appena ma capì tutte le parole che c’erano scritte: «Caro amico, poche parole e vestito di panno, o denaro o il pugnale; siamo venti padri di famiglia disperati; portateci onze venti per la sera, all’ore tre dietro la Chiesa di San Vito. Se non vi smovete, uno di noialtri viene di presenza col pugnale al petto».
Era una lettera di scrocco.
Non ne aveva mai ricevute, ma sapeva di tanti che ne ricevevano a decine durante l’anno.
Ciò accadeva soprattutto da quando dopo la rivoluzione dell’anno precedente, i garibaldini avevano aperto le carceri invitando i prigionieri ad unirsi a loro per buttare a mare i soldati borbonici. Ma quelli presto tornarono a formare nuove bande e adesso la facevano da padroni.
Non sappiamo come sia andata a finire la vicenda di don Tano. Abbiamo trovato la lettera in questione tra le tante carte dell’Archivio di Stato di Agrigento. Non è accompagnata da alcuna relazione.
Essa comunque riemerge dal passato e ci offre una triste testimonianza di storia, di minacce e di richieste di “pizzo” che evidentemente da molti anni accompagna la storia della città di Agrigento.
Si conoscono gli autori, ma si lasciano camminare per strada
Lo storico agrigentino, Giuseppe Picone, nell’opera Memorie storiche agrigentine, scrive: «Qui sono frequenti i precetti di scrocco. Se ne conoscono gli autori, e si lasciano camminare nelle strade! Non si sa se l’anarchia fosse maggiore della vigliaccheria dei magistrati».
Un linguaggio molto duro, ma ben comprensibile, se si tiene conto che anche a Giuseppe Picone venivano inviate lettere minatorie. Ma ben poco potevano fare in verità anche i magistrati più solerti poiché spesso tali reati non venivano denunciati, l’omertà era la norma.
Interrogato dalla commissione antimafia nel 1875, il Colonnello Comandante della zona di Girgenti rispondendo ad una domanda sullo stato della criminalità in provincia rispose: «Nella più parte dei comuni rurali l’amministrazione è in mano alla feccia, la povera gente che lavora, invece di buoni esempi, non vede che cattiva gente che s’innalza coll’usura o collo scrocco o col ricatto.. .
Io ho cercato, sia per dovere d’ufficio, sia come cittadino di mettermi in relazione con quelli che conoscono che potrebbero aiutare la forza perché, dico, è impossibile che le truppe possano far qualcosa senza l’aiuto dei cittadini, ma non ebbi che parole, dei fatti non potei averne mai, non potei indurli a nulla, e sì che ho cercato sempre di dare loro tutta la maggiore garanzia di segretezza, ma non c’è stato modo».
Oltretutto molti in città sostenevano che alcuni dei notabili più in vista proteggevano, se non dirigevano alcune di queste bande e godevano del loro ombrello protettivo.
Il barone Celauro a Girgenti era stato più volte sfiorato da indagini delicate e una breve condanna gli venne inflitta i occasione del processo alla celebre banda Sajeva che aveva tra l’altro sequestrato nel 1875 il potente barone Cafisi, proprio per fare un favore al Celauro si diceva a Girgenti.
La lettera dei commercianti agrigentini: noi emigreremo
Ai primi di aprile del 1863, settantadue commercianti di Agrigento, inviarono una lettera di protesta al Prefetto Enrico Falconcini manifestando la propria preoccupazione per la diffusione del “pizzo“.
Un fenomeno, scrivono i commercianti della città “che si organizza nel nostro circondario con estese proporzioni”. Insieme ad esso denunciavano in gran numero: ” i furti, gli omicidi, le grassazioni, gli scrocchi, i sequestri di persona si consumano, senza che una resistenza efficace li arresti e li prevenga “.
Nella lettera venivano indicati alcuni rimedi, ma si concludeva amaramente con questa minaccia alle autorità: «Noi emigreremo con tutte le nostre famiglie, per trovare altrove quella pace e quella tranquillità che siamo tanto desiderosi di riacquistare: abbandoneremo sin da oggi le nostre campagne. Chiuderemo le nostre miniere, nella coscienza di non essere per nulla responsabili degli effetti che ne risentirebbe la società, per più migliaia di operai che sarebbero buttati per le vie in cerca di lavoro».
Sembra scritta oggi.
Elio Di Bella