ITINERARI TURISTICI. SOSTA A FAVARA
Come il suo nome si slarga nel canto, Favara si distende in piano nella vallata che è ora tutta verde e biancheggiata da petali, con una serie di case tutte nuove, dipinte di celestino e di rosa, colori, tenui, di zucchero filato e di pastarelle nuziali.
Tanto che, alla fine, il vecchio e fiero castello chiaramontano si è nascosto quasi in recinto, e occhieggia, nella piazza solare, con finestrelle larghe e composte, di grazia rinascimentale.
Il suo cortile severo, gli anditi minacciosi, le feritoie aperte nell’ombra, il ricordo delle fiere lotte e delle ribellioni represse, è ora lontano: sulla scaletta appare gemmata nella ghirlanda del triplice arco la porta gotica traversata da una trabeazione marmorea di purezza ellenistica, dove genietti alati trascinano bighe come nei vetustissimi cofanetti di Bisanzio scolpiti nell’avorio per riporvi i profumi delle donne o le reliquie dei santi.
Ma, oltrepassata la soglia, si va a ritroso nel tempo: la cappella che ha il consueto gioco delle chiesette normanne: cupola su base quadra e nicchie angolari che amichevolmente concordano gli angoli alle curve: purissima architettura romanica siciliana, rimasta integra nel castello chiaramontano voluto da Federico II, signore di Siculiana, Racalmuto e Favara, verso il 1270 e poi amplificato, ornato e decorato con affreschi nel 1488 da un ignoto architetto di cui per la prima volta vediamo il nome: Birnardu Sitineri. Vanitoso, mastru Birnardu ha posto sulla parete destra dell’ingresso un’epigrafe siciliana, non facile da interpretarsi malgrado gli studi del dotto Eugenio Valenti, tanto contorta essa ed è inframmezzata di elementi figurativi, una cosa è però certa, che, per comando del Signore Pietro Parapertusa, egli eseguì i soprarchi nel 20 gennaio 1488.
E poiché molti elementi del castello riportano ad architettura del ‘400 e poiché mastro Bernardo si reputa meritevole, nell’epigrafe di essere ricordato dopo morto, e la famiglia Parapertusa, venuta in Sicilia col re Martino, da cui si ebbe il castello, lo chiamò a lavorare nella bella opera chiaramontana e gli concesse di porre boriosa epigrafe, proprio lì all’ingresso, questo ignoto mastro Bernardo dovette avere fama e chi sa non gli accada tra poco di diventare uno dei capisaldi dell’architettura militare e civile di Sicilia, così scarsa di nomi e così ricca di opere.

Una cosa egli fece di bene: il castello ebbe ampie finestre, nel secondo ordine, perché ampiamente la luce entrasse tra le vecchie mura e perché dall’interno, mirabile fosse la visione della vallata morbida e ondulata al soffio del vento, che le spighe incurva e raddrizza. Quando lo si è visto, il castello, malgrado siano scomparsi e non sappiamo dove, il magnifico rosone che ornava la facciata della cappella e le colonnine di porfido e i mosaici, e le pitture e i mobili, quando lo si è visto nella sua bella e severa forma costruttiva nello spazio, immenso che lo circonda, fatto di verde e di luce, di luce e di oro, impossibile è ricordare altre opere, altri quadri, altre decorazioni.
Ma egli sta da presso la chiesetta settecentesca del Rosario, quasi a ricordare che, in Sicilia, due forme d’arte eternamente dominano, arte medioevale, arte barocchetta: severità rude di massa, e leggiadra decorazione di stucco; architettura sobria, austera, e sorridente, gaudiosa libertà decorativa; rigore di logica costruttiva e fantasia audace di curvilinee architetture: come i canti di Sicilia fatti di pena e di sorriso.
Accanto al castello medioevale c’è la trionfante affermazione del barocchetto nella chiesetta del Rosario: c’è un soffitto a cassettone di forma quattrocentesca ma di decorazione settecentesca: a foglie, a conchiglie dipinte col più vivace e popolaresco cromatismo e immagini sacre sul fondo di ciascun cassettone che ora pongono sulle labbra nomi di raffinati pittori, ora riportano improvvisamente a pittura popolaresca.
Grava, il soffitto, sulle pareti bianche di stucco e par che restino schiacciate e sgomente le frotte di angioli, che si sono inerpicati sopra la trabeazione, a cinque, a otto, paffuti, chiomati, sorridenti, ridenti e crucciati, come preparati ad una rapida manovra per spingere più alto il soffitto che li annoia.
Bianche di stucco, morbide e carnose, queste creature riportano il pensiero alle altre della chiesa di S. Spirito ad Agrigento e alle altre ancora di Naro, la «fulgidissima», e riportano a pensare alla facilità tecnica, al buon gusto di quelle maestranze agrigentine e narensi, che per tutto il settecento sparsero ornati, di legno o di stucco, in oro o di seta, per ogni cappella, per ogni chiesa, che una gamma di fede costruttiva.
espertissime maestranze agrigentine
Maestranze espertissime a Naro e a Palma Montechiaro: quel Felice Vinci che intagliava il legno sapientemente, quegli stuccatori un po’ incerti, ma pieni di fantasia che decorarono le chiese narensi in massima parte costruite da maestranze agrigentine; produzione popolare, ma qualche volta elegante e raffinata, pur sempre piacevolissima assai più di quella fatta di cartapesta e di terracotta e ritirata in serie dalle fabbriche di immagini religiose.
Come nella chiesa di Favara, costruita con solennità senza pari nel puro stile lombardo del Rinascimento, con una cupola alta sessanta metri, che par buchi l’infinito, bianca e immensa all’interno e poi ornato soltanto da statuette di fabbrica, senza che il soffio di un cuore umano, l’ardore di una fede, la diligenza esperta di una mano abbia modellato, creato, ispirato un volto di Vergine, una testa di Cristo, un corpo di bimbo.
Pur semplice o popolaresca, pur ingenua o inesperta, come appare gradevole agli occhi e dolce al cuore, l’opera degli antichi artigiani locali, che nella chiesa del Rosario hanno decorato con tanta fantasia il soffitto, o degli altri che hanno animato di stucchi le bianche pareti, o delle altre artigiane che hanno tessuto stoffe preziose e hanno trapunto d’oro e di seta i begli arredi della Chiesa Madre di Favara e gli altri, ancor più belli, della chiesa di S. Francesco a Naro. Artisti ed artigiani: e ciascuno dava il meglio nell’opera di fede, di bellezza, di ornato.
Maria Accascina, Giornale di Sicilia, 6 maggio 1938