Favara
La Storia
Gli Arabi, quando assoggettarono Favara, colonizzarono la Sicilia e la ricivilizzarono verso l’827-828 d.C. (perché era stata soggetta ai barbari vandali), diedero il termine di Fewar ai luoghi dove erano scaturigini di acque. Nella Sicilia Nord-occidentale abbiamo, alle porte di Palermo, la Favara di Maredolce; in provincia di Agrigento la Favara di Burgio e la Favara di Girgenti. Questo spiega perché le origini di Favara si fondono con quelle di Agrigento.
Favara era anticamente una stazione Sicana con vari agglomerati di caverne: sulla « Montagna » (come i favaresi chiamano il Monte Caltafaraci), sul « Saracino », su « Montagnella » o Belvedere e nella zona delle « Ticchiare » da dove provengono gli splendidi vasi del paleolitico-sicano, conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Agrigento, che gli studiosi fanno risalire al 1850-1450 a.C. – Reperti di pregevole fattura con accenni di policromi disegni, del periodo Castellucciano o età del bronzo (1850- 1450 a.C.).
Sappiamo che fu possedimento dello Sceicco Hibin-Hawasci, ma la datazione certa comincia con la costruzione del Castello Chiaramontano operata dal figlio di Federico I Chiaramente (normanno) e dalla Gentildonna agrigentina Marchisia Prefoglio.
Con Federico II Chiaramonte nel 1270-75 si ha la costruzione del maniero che, ad oggi, conserva un fascino misterioso, con cunicoli e labirinti ancora inesplorati.
Attorno al Castello-fortezza, sorsero degli agglomerati che, ingrandendosi vieppiù, hanno dato origine alla Cittadina di Favara, che i Romani, nel 210 a.C., denominarono Fabaria. La datazione attribuita è certa perché nel Castello risulta un blasone chiaramontano scolpito sul frontone ad ovest sulla porta dello stesso ed una scritta in arabo- siculo-normanno con nomi di architetti, castellano e murifabri, che riporta la relativa data di fattura.
Favara, come Girgenti, aveva subito diverse dominazioni succedutesi nell’isola e, fino alla conquista normanna, verso l’anno 1087, era stata tartassata da balzelli enormi. Questa terra che era stata detta « ferace », dalla ricchezza delle sue sorgive che erano più di cinque ed alimentavano i « rabati » – rioni (Giarritella, Fontana d’Angelo), Canale, S. Calogero, Cicchillo e Sant’Angelo), veniva sfruttata da governanti rapaci che sgovernavano col bastone e le rapine prepotenti.
I Greci di Falaride nel VI secolo a.C. sopraffecero i Sicani autoctoni, i Cartaginesi ed i Romani si sostituirono ai Greci nel 210 a.C. e fino al 330 d.C., quindi i Bizantini che durarono fino al 1087, cioè fino alla conquista normanna di Ruggero I.
Favara con Caltafaraci erano due Casali di origine araba ed erano divenuti possesso di Marchisia Prefoglio o Prefolio, agrigentina, e madre di Federico II Chiaramonte che vi costruì il Castello, come a Racalmuto, Naro, Siculiana e lo Steri a Girgenti (oggi adibito a Seminario).
La costruzione della Fortezza-Castello fu per Favara l’inizio del suo sviluppo perché la popolazione che abitava casolari sparsi della plaga favarese, si senti protetta da ruberie e sorprusi cui era stata sempre soggetta. Con la protezione della nuova Signoria, che si era rivelata più aperta allo sviluppo della civiltà e del progresso dei sudditi, la popolazione progredì con un processo naturale di ampliamento verso modi di vita basati su rapporti di convivenza serena tra poveri servi della gleba e Signori illuminati, i quali dall’operare sereno dei primi, ricavavano maggiori ricchezze e comodi agi.
Nel 1391 Manfredi III moriva senza eredi legittimi e Favara passava ad Andrea Chiaramonte che era figlio naturale, di Matteo e non di Manfredi II, come alcuni studiosi hanno scritto. Con Andrea si estinse la famiglia Chiaramonte. Infatti nel 1392 a Palermo, in Piazza Marina, dinanzi lo Steri Chiaramontano, Andrea venne decapitato per ribellione al Re, unitamente al suo segretario Antonio delle Favare. Il Re Martino, ordinata la confisca dei beni dei Chiaramonte, nel maggio dello stesso anno e prima della decapitazione di Andrea, concesse l’investitura del Castello a Guglielmo Raimondo Moncada.
II Re Martino, con diploma del 1392, nell’investire Moncada, aboliva la consuetudine dell’Asilo, cioè dell’impunità a qualsiasi debitore e malfattore che si fosse rifugiato nel Castello, perché tale impunità offriva occasione di commettere delinquenza a chiunque e, principalmente, ai principi facinorosi del regno.
La Signoria del Moncada ebbe breve durata. Nel febbraio del 1398, infatti dopo sei anni dall’investitura, egli fu dichiarato ribelle ed i beni — Castello compreso- ritornarono alla Corona. Il 3 ottobre dello stesso anno Re Martino con la regina, in Parlamento con tutti i notabili del Regno di Sicilia, in Siracusa, stabilì che le baronie ed i feudi venivano concesse con il suo arbitrato. Cosi la baronia di Favara venne concessa per sé e per i suoi discendenti a Don Emilio Perapertusa che si obbligava a prestare servizio militare alla Corona.
Il primo barone di Favara fu, pertanto, Don Emilio Perapertusa.
Nel 1400 Don Emilio Perapertusa, col permesso del re, vendette la baronia al fratello Bernardo Bilingeri il quale figura nel ruolo dei baroni feudatari del 1408. I Perapertusa lo detennero fino al 1486, data in cui la baronia di Favara venne venduta con la condizione di riscatto, a Don Guglielmo AiutamiCristo ma, poco dopo, la baronia ritornò a Guglielmo Perapertusa che il 28 gennaio 1494 la concesse in dote alla figlia Lucrezia nel giorno del suo matrimonio con Giosuè De Marinis, o Marino barone di Muxaro. I De Marinis 1o detennero fino all’8 agosto del 1559 data in cui venne attribuito il titolo di Marchese di Favara a Ferdinando de Silva sposatosi con Giovanna De Marinis Moncada, i quali non avendo avuto figli lasciarono il Marchesato di Favara alla sorella Maria de Marinis il 26 dicembre 1568. La Marchesa Maria sposò Don Giovanni Tagliavia Aragona, Marchese di Avola. Da questi, non avendo avuto eredi, il Marchesato passò alla figlia Giovanna, sposata ad Ettore Pignatelli, Duca di Monteleone che ne ottenne l’investitura il 22 maggio 1564.
Gli Aragona Pignatelli Cortes, che dimoravano in Palermo, lasciarono come loro rappresentante un principotto, tal Ferdinando Privitera che venne ucciso a furor di popolo perché voleva usare su una giovane fidanzata il «jus primae noctis ». Il Marchesato di Favara passò a Don Fabrizio e poi, l’8 ottobre 1801, a Don Diego, figlio di Don Ettore e Principe di Castelvetra-no che ne fu l’ultimo feudatario perché il 19 luglio 1812 durante la notte si riunirono in solenne adunanza nel salone della Biblioteca nazionale di Palermo tutti i baroni siciliani che, spontaneamente, abdicarono ai diritti feudali, proclamando la indipendenza della Sicilia. Gli Aragona Pignatelli Cortes rimasero proprietari dei beni del Marchesato, affrancarono dai pesi feudali la popolazione, i beni divennero propri e, quindi, poterono anche venderli. L’atto di vendita del castello redatto in Palermo dal notaio Gioacchino Accardi porta la data del 16 aprile 1829. Con tale atto si trasferisce da Giuseppe Aragona di Pignatelli y Cortes, figlio di Don Diego e duca di Terranova, unitamente alle fabbriche dello stato di Favara con tutti i censi ed ogni bene di tale stato al signor Stefano Cafisi. La famiglia Cafisi non ereditò né il titolo di marchese, né altro titolo nobiliare.
Nel 1838 i beni del signor Stefano Cafisi passarono al figlio Giuseppe e da questi nel 1890 al figlio Stefano, con il quale si estinse la discendenza non avendo figli maschi. Il castello di Favara passò in eredità alla signora Maria Cafisi, moglie dell’onorevole Giovanni Miccichè, i figli del quale lo hanno venduto alla Regione Siciliana per 10 milioni di lire.
La Regione Siciliana, dal canto suo, l’ha ceduto in proprietà al Comune di Favara col vincolo di adibirlo ad uffici comunali ma non per altri usi.
Pippo Bruccoleri
IL CASTELLO
DELL’IMPORTANTE MONUMENTO RESTA BEN POCO. SOLTANTO LA MURA ESTERNE, ALCUNE FINESTRE BIFORE DEL LATO EST E UNA GRANDE E PREZIOSA SALA ROMANA, ANDATA QUASI IN ROVINA.
La storia documentata di Favara risale al secolo tredicesimo ed è legata alla famiglia Chiaramonte che, appunto, a Favara vi costrui un castello, tuttora esistente.
Fondatore e primo signore del castello fu Federico II, figlio di Federico I e della marchesa Prefolio e fratello di Manfredi I e di Giovanni detto anche il vecchio. L’anno della costruzione oscilla, in mancanza di un preciso documento storico, tra il 1270 e il 1280 e si deve proprio a quegli anni verso la fine del secolo tredicesimo, l’origine del primitivo sviluppo del paese, la cui denominazione, di origine araba, Fewwàr, significa polla di acqua. Denominazione che verso il 1250 aveva subito la correzione latina, Fabaria e Favara, secondo anche quando scritto in una pergamena conservata nella cattedrale di Agrigento del 20 giugno 1250, dove si legge, tra l’altro: « Homodeus de Favara juratus ». E già nello stesso secolo il casale di Favara, dagli arabi, era stato incluso, nella divisione da loro fatta della Sicilia, nell’ambito di Val di Mazara. Morto Federico II, il castello e il feudo dei Chiaramonte passarono a Manfredi II, che affettuosamente veniva chiamato Manfreduccio. A lui successe Federico III e alla sua morte sali al trono feudale il figlio Matteo Chiaramonte.
Nel 1377, alla sua morte, succedette, per mancanza di figli, il cugino Manfredi III, non perché avesse il diritto, ma per magnanimità del re. Con il suo successore, Andrea, si estinse la famiglia Chiaramonte: l’I giugno 1932, infatti, detto Andrea, in piazza Marina a Palermo, dinanzi allo steri Chiaramonte, venne decapitato come ribelle al potere regio.
Via via poi nel corso dei secoli dal XV al XIX si susseguirono, nel governo del castello e di Favara, le famiglie Montecateno, Perapertusa, De Marinis, Aragona Pigna telli e Cortes, figlio di Don Diego e duca di Terranova, vendette i censi dello stato di Favara, unitamente al castello, al signor Stefano Cafisi. Nell’atto di vendita si legge quanto segue: « li corpi tutti di fabbrica che per essere quasi inutili e di poco servizio, precisamente il Castello di vecchia gotica costruzione e niente adatto allo stato presente all ‘abitazione di persona civile, come altresì per essere abbisognevole di molte significanti riparazioni onde conservarsi, si sono venduti a strasatto per lo prezzo capitale di once millecinquecento ».
Inutile dire che oggi le strutture originarie del castello, per una sorta di noncuranza storica e per l’incuria dei politici, hanno subito gravi danni, alcuni dei quali irreparabili. È proprio il caso di dire si salva il salvabile.
Vero gioiello è (ma fino a quando?) la cappella del castello, espressione dell’art del sec. XIII « situata al primo piano dell’edificio, e tuttavia conservata, nonostante i danni causati dal completo abbandono e le menomazioni antiche e recenti », cosi veniva scritto dal professore Bottali nel 1954. Ma oggi le condizioni strutturali e murarie sono peggiorate.
Appena tre anni or sono sono stati operati dei lavori di restauro e di consolidamento all’interno del castello ad opera dell’architetto Filanceri ed è sorta una Associazione archeologica favarese, carica di tanta buona volontà. Le moderne costruzioni a ridosso o ai fianchi del castello hanno poi deturpato la completa visuale dell’antico monumento.
Inoltre, la distribuzione errata dei carichi rende allarmante l’infiltrazione d’acqua nei muri perimetrali per cui occorrono nuovi e urgenti interventi per salvare un castelli ritenuto ormai monumento-chiave per l’interpretazione dell’architettura siciliana del XIV secolo. Ancora restauri statici, dunque, prima che si possano affrontare i problemi di ripristino dell’edificio e quello della utilizzazione quale museo e quale centro culturale.
Vincenzo Arnone
Le chiese

Fra tutti i centri della provincia di Agrigento, Favara è quello che, in rapporto al suo territorio ed al numero dei suoi abitanti, ha il maggior numero di chiese. Se ne contano tante e tutte di pregevole valore artistico. A quanto pare il sentimento religioso induceva i favaresi a costruire chiese e cappelle, dotandole di autentiche opere d’arte che ancora oggi costituiscono un patrimonio artistico di notevole interesse e pregio. Accenniamo alle loro origini e alla loro importanza.
Chiesa Madre
La Chiesa Madre venne iniziata nei primi del 700. Nel 1760 venne restaurato il prospetto che era rovinato. Nel 1825 si progettò la costruzione della Matrice sul luogo stesso della vecchia. Le spese furono pagate dall’avvocato Biagio Licata, nonno del Principe di Baucina e la Chiesa Madre fu inaugurata nel 1828. La Chiesa è dedicata alla Madonna Assunta. Uno degli altari laterali è dedicato a S. Antonio di Padova che è venerato come patrono di Favara. Nel 1897 venne inaugurata la Chiesaa Madre con la bella cupola che ricopre abside e transetto. È sede della Arcipretura.
Chiesa del Santo Rosario
Dedicata a S. Giuseppe, oggi museo nazionale per la ricchezza dei capolavori d’arte ivi racchiusi. È stata costruita all’inizio del 700 ed è la Chiesa più bella di Favara per la sua decorazione interna, nella quale trionfa lo stile fiorito. L’interno è ricoperto da un soffitto ligneo a quadri.
Chiesa del Boccone del Povero
Sorge sulla collina chiamata via Benificenza Mendola che giunge fino alla collina di S. Francesco. Sulla collina sono ubicati l’Ospizio dei Vecchi, l’Orfanotrofio femminile (oggi casa della Fanciulla) che hanno al centro la chiesetta costruita in stile veneto-lombardo, dedicata alla Immacolata e a S. Vincenzo dei Paoli. All’interno, sul lato sinistro, è sepolto il Barone Antonio Mendola, fondatore dell’opera Pia, in una magnifica tomba, degna del suo grande cuore di benefattore, eseguita dallo scultore palermitano Antonio Ugo.
Chiesa di San Francesco
Sorge in fondo alla collina accanto al convento di S. Antonio che è tenuto dai Padri Minori Francescani.
Chiesa del Transito (fu la prima di Favara), Chiesa di S. Rosalia (ora detta del Purgatorio) Chiesa di S. Nicola da Tolentino, Chiesa di S. Calogero, Chiesa di S. Giuseppe Artigiano, Chiesa della B.M.V. delle Grazie (detta « Grazia Luntana »), Chiesa del Collegio di Maria (annessa al Collegio delle Suore) fatta costruire dal Vesco¬vo Mons. Lorenzo Gioieni, Chiesa del Cannine, Chiesa della Madonna deH’Itria.
Favara si avvale inoltre del Convento dell’Opera Pia Barone Antonio Mendola, del Seminario Vescovile (detto « Minore »), dell’Oratorio voluto da Mons. Antonio Giudice, del Collegio di Maria e della Biblioteca con annesso Museo di Scienze Naturali donati alla città dal Barone Antonio Mendola.
La Madonna dell’Itria
In molti centri dell’Isola si prega per la pioggia, portando in giro per le vie cittadine, i simulacro della Madonna dell’Itria, che si presenta con le mani alzate al cielo, il che vien interpretato dal popolo come invocazione dell’acqua piovana.
E il popolo ripete una nenia con bellissime e commoventi parole: « Signuruzzu, chiuviti, chiuviti: li lavuredda su morti di siti » (Signore, piovete, piovete: i campi lavorati son morti di sete).
E nel caso inverso, se la pioggia è stata troppa, l’invocazione all’Onnipotente implor «Signuruzzu, scampati, scampati: li lavuredda su mezzi ammargiati» (Signore, lasciai lasciate: i campi lavorati sono mezzi impaludati).
La popolazione di Favara, devotissima alla Vergine dell’Uria per implorare le bene che precipitazioni atmosferiche, organizza processioni e trasporta dalla chiesa periferie della Madonna dell’Uria il simulacro sino alla chiesa madre, dove per l’occasione si prega
Narrano testimoni oculari e vecchi, che nei periodi di forte siccità, quando il raccolto fortemente minacciato, la deputazione degli anziani decide l’invocazione alla Madonna; • la preghiera calda e sincera delle masse oranti per le vie cittadine determina qualche volta i fenomeno immediato della pioggia.
P.B
Le tradizioni
QUELLA DI S. GIUSEPPE È LA FESTA PIÙ IMPORTANTE E SENTITA, FORSE L’UNICA CHE RESISTE ANCORA ED È RIVISSUTA OGNI ANNO CON PARTECIPAZIONE CORALE.
I sentimenti e la particolare devozione che S. Giuseppe suscita in tutti i cattolici rappresentano una testimonianza concreta di fede e di fervore religioso.
In particolare a Favara tutto ciò assume dimensioni a dir poco esaltanti.
Infatti in questa operosa cittadina il Santo per eccellenza è onorato e venerato in una stupenda chiesa barocca del XVII secolo, prospiciente la centralissima piazza Cavour. Nel prezioso Tempio, intitolato « Chiesa del Rosario », al centro del lato destro, in un altare ricco di bassorilievi, è situata la statua del venerato Patriarca che regge per una mano un dolcissimo Bambino Gesù.
II mercoledì di ogni settimana è meta di numerosissimi fedeli che si recano in pellegrinaggio a rendere omaggio al Santo snocciolando ritmiche giaculatorie.
Cosi come espresso in premessa tali manifestazioni di fede e di amore per S. Giuseppe non rappresentano un fatto recente ma piuttosto rientrano nella tradizione delle comunità religiose e parrocchiali dell’intera cittadina. Così come è autorevolmente testimoniata dalla nota del Sacerdote prof. Giovanni Lentini, conosciutissima figura di studioso e di uomo di cultura favarese, recentemente scomparso, il quale nella sua opera « Favara dalle sue origini ai nostri giorni » così testualmente descrive la storia della festa di S. Giuseppe:
« Alle origini la festa si svolgeva il 19 marzo, dall’anno 1905 fu spostata alla terza domenica dopo Pasqua-, ora dal 1957 si svolge nella prima domenica di settembre. Essa non rappresenta più la solennità dei primi tempi, ma ne conserva ancora molte caratteristiche.
Fino a pochi anni fa, i festeggiamenti erano affidati ad un « Governatore », che era un falegname locale, estratto ogni anno a sorte.
Il governatore celebrava a suo rischio la festa, ma quasi sempre ne traeva un guadagno non indifferente.
L’estrazione a sorte del governatore avveniva un tempo solennemente, sul palco eretto in piazza Cavour per raccogliere le « promesse », e sul quale prendevano posto i Notabili del paese.
In un’urna di vetro si imbussolavano i nomi dei maestri falegnami, e, ad ogni nove nomi, si immetteva nell’urna una polizza delle stesse dimensioni delle altre con la scritta « Viva S. Giuseppe ».
L’estrazione era affidata ad un bambino con gli occhi bendati, ed era designato come governatore il falegname il cui nome veniva fuori, immediatamente dopo l’estrazione di una polizza con la scritta « Viva S. Giuseppe ». Il nome dell’eletto era imbussolato anche per l’anno venturo e il popolo gioiva, se egli veniva sorteggiato per la seconda volta.
Con l’andar del tempo questa estrazione si effettuò in Chiesa, in un modo semplice: il primo estratto era il governatore designato.
Per un complesso di circostanze, la festa è ora curata da un Comitato di insegnanti, che, dopo la festa, presenta il rendiconto.
Ecco i particolari dei festeggiamenti.
Essa ha inizio il venerdì pomeriggio con l’ingresso delle bande musicali: la cittadina e due forestiere.
Nella Chiesa, parata con sfarzo, si svolge in precedenza la Novena in onore del Santo Patriarca e ogni sera, per una settimana, è portata in giro per le vie dei vari quartieri una piccola statua del Santo, preceduta dalle fiamme delle caratteristiche « fanare » manufatte con la pianta dello Ampedolesmo, in siciliano « disa ».
In piazza Cavour è preparato un artistico palco per l’esecuzione dei brani musicali e su questo palco il mezzogiorno della Dorfienica avviene il tradizionale pranzo della sacra famiglia, rappresentata da un vecchio, una ragazza ed un bambino.
A sinistra dell’ingresso della Chiesa viene eretto un piccolo palco, da dove gli incaricati della festa raccolgono tutta la domenica li pmmisi dei fedeli.
Muli e cavalli bardati con drappi di seta multicolori portano il grano offerto: e i devoti avanzano tenendo in mano un grosso manico di abete con « tacche », piccoli tagli sul legno, dove è posto il denaro che si porta in offerta.
Ogni calata cu li pmmisi è seguita da una delle tre musiche, che girano per tutti i rioni del paese per prelevare i fedeli con le offerte.
In tempi passati, olte al denaro, i devoti offrivano salsicce, agnelli, tacchini, polli e fìnanco pulcini. La questua per la festa viene effettuata il sabato, ma le promesse della domenica vengono spontaneamente offerte per voto fatto o per devozione.
Per tre sere la piazza Cavour è illuminata artisticamente e anche la via Vittorio Emanuele presenta una luminaria multicolore. La processione ha inizio all’Avemaria della domenica.
Alla mezzanotte del sabato e della domenica hanno luogo imponenti spettacoli pirotecnici e sparo di bombe luminose. Notevole per l’occasione il concorso di forestieri e di paesani residenti fuori per partecipare alla celebrazione della secolare festa ».
Da allora ad oggi si sono registrati parecchi cambiamenti nella evoluzione del costume e del gusto e nella stessa struttura economica della cittadina, ma la devozione per S. Giuseppe è rimasta inalterata, anzi in considerazione delle mutate condizioni economiche a festeggiare il Santo sono ora i ricchi agricoltori, gli imprenditori e soprattutto gli artigiani che hanno saputo con il lavoro e la sagacia trasformare ed ingrandire in vere e proprie aziende le loro antiche bottegucce.
In conseguenza di ciò la festa assume i toni di una vera e propria sagra paesana in cui gli aspetti mondani edonistici e consumistici finiscono quasi sempre con il prevalere e con l’offuscare gli aspetti religiosi e mistici.
L’afflusso di migliaia di concittadini emigrati nei vari paesi europei, che puntualmente si riversano a Favara in quel periodo per godere della festa, rende la stessa ancora più pittoresca. Le laute offerte del cuore generoso di questa gente impinguano notevolmente i fondi « pro festa » e vengono a dimostrare ai loro paesani il benessere raggiunto. Ogni anno è sempre uno sforzo maggiore da parte del Comitato ad accaparrarsi il cantante più in voga e più importante del momento, facendo assumere così alla festa un aspetto più canterino che mistico e religioso.
Del resto tutto ciò succedeva anche prima, così come scrive L. Pirandello nella « Sagra del Signore della nave » in cui la festa era soltanto pretesto di divertimento per gli agrigentini degli inizi del secolo. E come se tutto ciò non bastasse, ed a conferma della simpatia che il Santo gode in questo centro, viene effettuata nel corso dell’anno una seconda festa, quella del Io maggio dedicata a S. Giuseppe artigiano. E questo sin dal 1955 da quando ciè Pio XII istituì in tale data la festa dei lavoratori cristiani.
Rita Vita Buscaglia