Il sarcofago agrigentino detto di Fedra
di Pietro Griffo
Ho recentemente trovato, tra vecchie carte del mio archivio personale le bozze di un articolo che, per motivi che non ricordo, rimase incompleto e non venne perciò pubblicato. Era il tempo di poco posteriore alla guerra dei primi anni ’40. Mi ripromettevo di trattare del notissimo sarcofago marmoreo col mito di Fedra e di Ippolito che allora si conservava, con una piccola raccolta di altre anticaglie, in una sala adiacente alla navata nord della Cattedrale.
[Da lì fu poi trasferito nel Museo Diocesano, che venne istituito in quei pressi, fino a quando, su mia proposta generosamente accettata, e perché documento archeologico che non guastava fosse tenuto vicino alle grandi testimonianze possedute dal Museo Nazionale (inaugurato nel 1967), gli fu data ospitalità nella restaurata Chiesa di San Nicola, da dove può sostanzialmente dirsi che ha inizio la visita di questo nuovo prestigioso istituto].Del sarcofago, prima che tutto questo avvenisse, tra le provvidenze contro gli incombenti pericoli della guerra, nella difficoltà di rimuoverlo dal luogo allora occupato e nella considerazione che poco opportuno e sempre insufficiente sarebbe risultato qualsiasi apprestamento difensivo in situ, ebbi cura che fosse rilevata una rigorosa riproduzione in gesso, si che, in caso di danni totali o parziali che dovesse subire, rimanesse della bella scultura una documentazione scientificamente soddisfacente e si perpetuasse il ricordo di uno tra i più importanti testimoni dell’opulenza delle necropoli agrigentine in un periodo che in quegli anni non era certo il più studiato dell’antica storia della città.
Il calco passò già dalle origini a far parte delle collezioni del Museo Civico. Mi dispiace dirlo: non so che fine abbia poi fatto.
L’originale dell’opera fu rinvenuto, in un anno imprecisato del sec. XVIII, “nella campagna agrigentina”. Basti qui una breve descrizione delle raffigurazioni scolpite che lo caratterizzano.
È di marmo greco. Sul lato maggiore: la nutrice svela a Ippolito intento con i compagni ai preparativi per la caccia, l’incestuoso innamoramento che ha per lui la matrigna. Sul lato breve di destra: il dolore di Fedra, svenuta su uno scanno e amorevolmente assistita dalla nutrice e da un gruppo di compagne, per la repulsa di Ippolito. Su quello di sinistra: la morte dell’infelice Ippolito, travolto e trascinato dal suo carro, un groviglio di corpi fortemente espressionistico, per opera di Posidone. Sul lato lungo posteriore: scena di caccia al cinghiale. Belli, per correttezza di forme e accuratezza di esecuzione, il l° e il 2° dei lati descritti, specialmente quest’ultimo. Interessanti, dal punto di vista tecnico, gli altri due, non compiuti, o addirittura – come quello della caccia al cinghiale – rimasti allo stato di abbozzo. Belli altresì i motivi zoomorfi e fitomorfi (ovverosia animali e vegetali) che ornano due lati dello zoccolo.
L’articolo che m’ero apprestato a scrivere – come ho detto all’inizio di quest’altro mio in corso – si proponeva ovviamente di intrattenersi sui caratteri stilistici del sarcofago e di trarne le dovute precisazioni cronologiche. Non mi avvenne di farlo allora. E però m’è rimasta una interessante parte di quel testo che, all’inizio della sua stesura, chiedeva al lettore che mi fosse consentito di esporre il ricordo di un incidente personale riguardante il problema. Mi vorranno ora perdonare gli amici agrigentini se oso riprodurre qui nella loro integrità le pagine ad esso dedicate. Eccole.
“Qualche anno fa; in Agrigento. Mi trovavo a parlare, nell’antisala di una importantissima biblioteca cittadina [la Biblioteca Lucchesiana]… con un noto reverendo Monsignore, quando il discorso … venne a cadere sul sarcofago di Fedra del Museo (?) della Cattedrale. Ad un tratto, ecco il Monsignore a chiedermi, bruscamente, quasi d’impeto, dimostrando un assai vivo interesse per il nuovo argomento, che dava agio a lasciare gli altri fino allora tracciati: – Qual è, di grazia, la Sua opinione su questo nostro capolavoro, signor Soprintendente?
Rispondo con semplicità, aderendo volentieri alla brama di sapere del mio interlocutore: E’ un bel lavoro di officina romana dei primi secoli dell’Impero: in cifra tonda, della metà circa del II sec. d.C.
Leggo sulla faccia del Monsignore (come sulle pagine di un libro rapidamente sfogliato, o meglio: come in una sequenza di quadri per cartoni animati esposti l’uno accanto all’altro nello studio di quel mago del disegno umoristico che è l’americano Walt Disney) tutta una serie di sentimenti che mai avrei sospettato fosse capace di mutare con tanta facilità e, perché no? disinvoltura. Delusione, incredulità, sdegno, penosa incertezza (“Ma è pazzo?, non è pazzo?), commiserazione.
Per fortuna, com’era del resto da aspettarsi in un uomo adusato all’esercizio della pietà evangelica, quest’ultimo sentimento prevalse. Ed egli ci si fermò, con benevolenza, conscio dell’opera buona che si apprestava a compiere. Grazie a Dio – egli disse – Ella ha così parlato con me, e la cosa, non dubiti, rimarrà fra di noi. Ma le pare? Opera romana questo pregevolissimo marmo, che in tutto il mondo ha sempre destato sensi di sconfinata ammirazione, e che della città di Agrigento è precipuo decoro, gloria senza pari? Opera romana questa sublime scultura nella quale vibra ancora, a distanza di millenni, l’ansioso errare dello scalpello greco che la trasse dalla informe materia: questo capolavoro fra i capolavori, che, a giudizio di autentici competenti quali il compianto Mons. Lagumina e l’illustre Prof. Salinas, reca inconfondibile l’impronta del divino genio di un Fidia?
E già! Perché – dico io – può concepirsi per la competenza artistica di un Monsignore … che un’antica scultura esistente all’ombra del proprio campanile (ritenuta, al solito, la più bella fra le belle: il non plus ultra della perfezione stilistica e formale: la cosa del maggior pregio che sia posseduta da pubblici istituti o collezioni nel mondo) sia stata creata da altro genio che non quello di Fidia ed eseguita da altra mano che non quella sovrumana di lui, della quale – tra parentesi – gli archeologi (sarà eccessiva sottigliezza, o forse meglio profonda coscienza delle responsabilità che la vera critica d’arte comporta!) non possono affermare di riconoscere con matematica sicurezza un solo frammento fra l’imponente produzione scultorea che alla officina o scuola fidiaca le fonti scritte permettono di attribuire?”.
Questo dunque quanto mi venne di annotare in appunti di molti anni orsono ricordando quel mio straordinario incontro avuto ancor prima con il Monsignore. Esatta peraltro la datazione che io gli avevo data del bel sarcofago agrigentino. L’ho ripetuta più volte in miei studi anche recenti. E qui ancora succintamente la confermo. Trattasi di un’opera che, quanto ai tipi delle figure e agli schemi compositivi, si ispira senza dubbio ad opere greche di varie epoche (V – IV sec. a.C. per i preparativi alla caccia e per la caccia al cinghiale; l’età ellenistica per l’agitata resa della scena della morte dell’eroe Ippolito) o a modi più schiettamente romani (come nel caso del delirio di Fedra). Stando a queste premesse è lavoro di corrente classicistica uscito da officina romana dell’età adrianea o degli Antonini (II sec. d.C) o, come anche si vorrebbe, da officina attica del III secolo. Agrigento ha ben ragione di andarne fiera.
L’occasione mi è cara per ricordare agli amici agrigentini un altro monumento – anche questo un sarcofago, rinvenuto in epoca ottocentesca nella necropoli romana fuori Porta Aurea – e non per una sua valenza artistica, in quanto trattasi di una semplice arca in calcare duro grigiastro senza ornamenti figurati, ma perché era in essa contenuta una piccola lastra marmorea con iscrizione in lingua e caratteri greci databile anch’essa tra II e III sec. d.C. Eccone il testo, ovviamente tradotto in italiano: “Teano. Visse anni 18 mesi 2 giorni 12. La madre Sabina alla figlia vergine pura dolcissima”. Come non commuoversi di fronte al dolore dell’umile Sabina (nome manifestamente romano) per la perdita della figlia giovinetta, alla quale rivolge espressioni di una delicatezza che non ha pari? L’epigrafe ha avuto perciò vasta eco nei moderni agrigentini, generando varie e sempre commosse ispirazioni poetiche, letterarie, musicali, pittoriche ed altre ancora, di cui – mi si consenta di dirlo – ho abbozzato un mio vecchio scritto (Agrigento romana: Le necropoli e i monumenti sepolcrali) edito nel 1948. E di essa non ho mai rimosso l’intima suggestione che ha da tempo impressa nel mio cuore.
Anch’io ho perduto in lontani anni quello che è stato il primo frutto del mio per altro felicissimo matrimonio. Ed ecco, nel 1998, la pur sempre commovente presentazione che ho data al mio ultimo libro su Agrigento: “Alla sacra memoria dell’adorata LIUCCIA figlia dolcissima con mia moglie soavemente dedico”. Come anche l’archeologia può valere in certi casi a segnare la tua vita!…