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villaseta panorama

Villaseta ad Agrigento

2 Gennaio 2021 //  by Elio Di Bella

Villaseta

Frazione residenziale di Agrigento, vicina a Porto Empedocle, nei pressi della contrada Caos, dov’è la Casa Natale di Luigi Pirandello.

Il borgo si presenta nel suo sviluppo urbanistico più recente, risalente agli anni ’60, secondo una tipologia edilizia tanto diffusa nelle zone periferiche.

Cenni storici

Le radici di questo borgo vanno ricercate già nel nome – “a Sita” – che deriva dal greco  =le biade, e che richiama la sua antichissima vocazione rurale.

E’ noto infatti che già a partire dal VI sec. a.C. il commercio di grano soprattutto con Atene era particolarmente florido, come ci testimonia Diodoro Siculo.

Del resto per una eloquente conferma di ciò basti pensare all’antico culto particolare a Demetra e Persefone, presente non solamente nelle vestigia del tempio-chiesa di S. Biagio e nel complesso del santuario dedicato alle due dee nei pressi della porta prima di Akragas, ma anche nei numerosi reperti numismatici (diverse monete, infatti, riportavano immagini cornucopie, spighe d’orzo, grani di frumento, fiori di papavero e di loto, farfalle, cicale); né sembra da respingere l’ipotesi che diverse cisterne scavate non solo all’interno della città ma anche nei suoi dintorni (ivi compresa Villaseta) fossero veri e propri depositi di grano.

Non si esclude, però, la possibilità che derivi dall’arabo “sita” (pr. sida) =signora (il Picone chiama così la contrada a due miglia a sud-ovest di Agrigento, nelle sue “Memorie storiche agrigentine”); o ancora che sia da collegare alla coltura del baco da seta, ivi piuttosto intensa.

 Villaseta e l’archeologia

Segni di civiltà preelleniche, come le tombe a forno o a camera proprie del culto dei morti fra le genti sicule, testimoniano una frequentazione del sito fin da epoche molto remote.

Scavi più regolari effettuati a partire dagli anni Sessanta, dimostrano che resti funerari risalenti alla fine del V sec. a.C. a Poggio Giache (qualche chilometro più ad est di Villaseta) possano appartenere all’estremo lembo sud occidentale della più estesa necropoli di Akragas (Pezzino) oppure addirittura costituire una struttura cimiteriale autonoma, e questo darebbe al luogo il carattere di proàstion, cioè di grosso borgo, come quello di Montelusa o di Mosè, a corona della grande città.

 Il livello di raffinatezza espresso dai numerosi pozzetti funerari dotati di eleganti crateri, propri della ceramica attica figurata o a semplice vernice nera (che sistematiche campagne di scavo negli anni ’80 hanno portato alla luce) è collegabile al tardo manierismo classico.

E poi, a poco a poco, anche dalla città dei morti cominciarono a giungere i segni della decadenza della città dei vivi.

Dal secolo IV in poi, infatti, le tombe si vanno facendo sempre più modeste: saranno semplici tombe terragna o a fossa, scavate nella roccia, a testimoniare il declino di quella che il poeta Pindaro aveva chiamato “città, la più bella fra quante albergo son d’uomini”.

 Villaseta e Pirandello

 Lungo è il silenzio dei secoli che si sono susseguiti in questa contrada la quale, tuttavia, continuò ad essere un nodo di collegamento, all’uscita della strada di Fondacazzo, negli scambi commerciali legati soprattutto allo zolfo, fra la Girgenti della memoria pirandelliana e quella “borgata di mare cresciuta in poco tempo a spese della vecchia Girgenti e divenuta ora comune autonomo” (Porto Empedocle).

E per restare nel clima del romanzo, forse più autobiografico che storico, I Vecchi e i Giovani, ecco come Luigi Pirandello ci descrive la “Seta” dell’ultimo Ottocento: “Casale d’una cinquantina d’abituri allineati sullo stradone, fondachi e taverne per i carrettieri, la maggior parte, da cui esalava un tanfo acuto e acre di mosto, un tepor grasso di letame, e botteghe di maniscalchi, di magnani, di carrai, con una stamberguccia in mezzo, ridotta a chiesuola per le funzioni della domenica”.

Eppure non manca in questo modesto borgo qualche sprazzo di eleganza e di ricchezza come l’aristocratica villa dal portale finemente cesellato nel ferro, di Don Domenico La Lomia di Canicattì, imparentato con l’altra famiglia nobiliare dei marchesi Giambertoni di Girgenti, che possedeva vari feudi a Villaseta.

 E poi è ancora con Pirandello che scopriamo a Villaseta la “magnifica tenuta di Primosole”, primo scenario naturale della “Giara”, vero trionfo di quella ruralità che fu nel grande scrittore un segno di fedeltà alla terra dove nacque e dove volle essere ricondotto dopo la morte.

 Né Villaseta, pur dietro il torpore che sembra acuito dalla calura del sole, è rimasta estranea ai primi moti risorgimentali, quando nel 1820 gli abitanti del luogo umiliarono un intendente borbonico, simulandone più volte la fucilazione dopo averlo bendato.                                                                         

Villaseta e il Novecento

Giunti alle soglie del XX secolo, il borgo si ingrandisce sempre più, pertanto diventa indispensabile dotarlo di servizi necessari.

Arriva così l’acqua del Voltano nel 1907, l’impianto di illuminazione elettrica nel 1908, le scuole elementari nel 1910.

Una data triste da ricordare è il 1943, anno nel quale a Villaseta furono radunati soldati italiani e soldati tedeschi per essere deportati dagli Alleati nei campi di concentramento della Tunisia.

  La Madonna della Catena e le sue chiese

   L’antica chiesa

Villaseta, piccolo centro vivace e densamente popolato, testimonia da più di mezzo millennio una fervida tradizione del culto mariano.

 Le prime testimonianze della devozione popolare fanno riferimento a due documenti conservati presso la Curia Arcivescovile e riconducono ad un’epoca anteriore al XVI secolo.

In tali documenti, rispettivamente del 1571 e del 1615, si chiede, infatti, prima al Vescovo Giovanni Battista De Hogeda (1571-1573) e poi al Vescovo Vincenzo Bonincontro (1607-1622) da parte dei Carmelitani (che già avevano fondato un convento, in Agrigento, accanto alla chiesa della Madonna della Catena, nei pressi del quartiere Rabatello) l’edificazione di un altro convento più vicino al mare, proprio accanto alla chiesetta di Maria SS. della Catena a Villaseta.

Da questi dati cronologici consegue che la chiesa fosse preesistente.

Percorrendo il tratto di sentiero che, dopo la via Zunica, porta ai resti dell’antica chiesa si possono con un po’ di buona volontà individuare ancora la parte absidale di una non consueta forma quadrangolare con volta a crociera costolonati poggiante su piccoli capitelli.

All’interno si può solo intravedere la nicchia absidale (nella quale verosimilmente doveva essere collocata una statua lignea della quale si parlerà in seguito) e l’altare con decorazioni a stucco, segno di un rimaneggiamento del ‘700, mentre delle pareti laterali dell’edificio rimane solamente parte di quella di destra, come testimoniano un paio di arcate di probabili cappelle votive e qualche fregio lungo un modesto tratto di cornice.

Del convento succitato resta ancora meno: un muro, a nord-ovest, assai diroccato, nel quale tuttavia è possibile osservare un’edicola sacra che fino a qualche anno fa ha ospitato un dipinto del XIX secolo su materiale lapideo, opera di Raffaello Politi.

Il dipinto lapideo di Raffaello Politi

Sulla parete di destra della chiesa, incastonato in una pregevole e artistica cornice in pietra tufacea, è collocato un dipinto in pietra, inedito, di Raffaello Politi, restaurato con fondi parrocchiali.         

             L’opera, realizzata nel 1824, è rimasta, come si è già accennato, per lungo tempo nell’edicola sacra inglobata nel rudere del convento del Carmine ormai quasi del tutto scomparso.

            Il quadro si ispira con evidenti richiami alla Madonna Sistina di Raffaello, tuttavia presenta degli adattamenti richiesti dal committente come la targa dedicatoria che ha costretto l’artista di Siracusa ad eliminare uno dei due angioletti presenti, invece, nell’opera dell’Urbinate, o l’aggiunta delle catene, mentre papa Sisto e S. Barbara hanno lasciato il posto ai locali santi agrigentini Gerlando e Biagio.

            Da notare che sul piviale di S. Gerlando, sulla spalla destra, è inciso lo stemma di Agrigento. Senza, ovviamente, pretendere di stabilire dei confronti fra le due opere, sembra, però, legittimo osservare che la dolcezza e le sfumature del viso della Madonna del Politi non danno all’opera il carattere riduttivo che è proprio delle “copie”, rispetto ai modelli.

            Una committenza locale così propensa a richiamare nella nostra piccola Villaseta un nome prestigioso come quello del Politi, ci dà conferma di un interesse per l’arte particolarmente degno di ammirazione, soprattutto considerando il contesto nel quale si è sviluppato.

La statua della Madonna della Catena

Le sue peregrinazioni

 In un un’artistica nicchia della parete di sinistra della chiesa s’offre ai visitatori la già citata statua lignea riportata da un recente e sapiente restauro all’originaria composta bellezza.

Si tratta di un’opera lignea policroma con tracce di lumeggiatura dorata di un ignoto scultore meridionale del XV secolo.

 E’ probabile che il posto originario nel quale essa fu collocata sia stata la nicchia absidale dell’antica chiesa in contrada Zunica.

Con il passare del tempo, il degrado sempre crescente in cui versava la chiesa, suggerì di porre la statua in un’edicola votiva, peraltro vicina alla chiesa, sita in un terreno appartenente alla famiglia Scaglia la quale, quando le fu espropriato quel terreno, continuò a custodire il simulacro nella propria casa ottocentesca che è abbastanza facile individuare per la sua sobria raffinatezza fra gli edifici relativamente moderni che la circondano. I signori Scaglia la riconsegnarono poi al parroco della chiesa.

Ma neanche qui la statua trovò pace perché, come si è già riferito, il luogo fu lasciato degradare.

Quando, finalmente, si intervenne per il restauro della chiesa, durante i lavori, la statua era stata già sbrigativamente caricata su un mezzo come materiale da eliminare e l’avremmo perduta per sempre se non fosse intervenuto tempestivamente il parroco, don Angelo Fraccica, a recuperarla.

 Ben presto si arrivò ad un doveroso, seppur tardivo, progetto di restauro dell’immagine tanto cara al popolo della Madonna della Catena.

E non mancò l’assistenza finanziaria della Banca Nazionale del Lavoro e il contributo dei vari club della città di Agrigento, che risposero all’invito dell’ufficio dei beni culturali della Curia Vescovile con sensibilità in un impegno comune.

 Ed ecco la rinascita di una vera opera d’arte, restituita non solo alla devozione popolare ma a chiunque sappia apprezzare il bello.

La “Chiesuola”

Un noto passo del citato romanzo I Vecchi e i Giovani, ci descrive la successiva sede del culto della Beata Vergine della Catena, nel corso dell’800, come “una stamberguccia… ridotta a chiesuola per le funzioni della domenica”.

In effetti, per un lungo periodo l’edificio fu così poco curato che addirittura parte del tetto crollo, lasciando alle intemperie e all’azione devastante dell’umidità e delle muffe gli arredi, compresa la famosa statua cui si è già fatto cenno.

La “stamberguccia” è, oggi, un piccolo gioiello architettonico, grazie agli attenti restauri del ’93 finanziati con fondi della comunità parrocchiale e seguiti con cura e solerzia dal parroco don Angelo Fraccica.

Il luogo riveste anche un interesse particolare di natura, diciamo, storico-letteraria, dal momento che qui Pirandello ricevette la prima comunione e dove, a quanto si apprende da testimonianze orali, ebbe modo di incontrarsi con la futura moglie, Antonietta Portulano.

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, girgenti, villaseta

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