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sarcofago di fedra

Agrigento, il Sarcofago di Fedra

11 Ottobre 2020 //  by Elio Di Bella

il sarcofago di fedra conservato ad Agrigento
il sarcofago di fedra conservato ad Agrigento

Penso a un temporale dell’estate, il vento si è levato clamoroso e fremente, investe da cima a fondo la chiesa : tremano i vetri, sbattono le porte. Dove non si ode il rombo si immagina questa tumultuosa e scatenata follia che si propaga per le strade di Girgenti preceduta dal polverone. I preti cantano in coro, una fiamma trema su un bacino d’argento e tintinna. Mi par che la furia si scateni dal sarcofago dell’incestuosa Fedra, che questa rabbiosa folata carica di baleni e di fecondi profumi primaverili non giunga ardente dal mare africano o dalla campagna siciliana; ma divampi dal lussurioso uragano che travolge il destino di Ippolito e di Fedra dal momento in cui la disperata regina si sente presa dalla torbida passione al momento in cui Ippolito stramazza”‘fra gli zoccoli degli impennati cavalli.

La passione incestuosa è rappresentata sulle quattro facciate del sarcofago greco conservato nell’Aula capitolare di San Gerlando: l’austerità della chiesa dove sfilano preti e s’attardano contadini e pastori a contrattare un battesimo, un’assoluzione o un’estrema unzione, il profumo dell’incenso, il canto degli organi e della chiericìa battono vanamente contro la scultura pagana che modella forme di gesti fatali secondo i versi di Euripide.

“Mentre la chiesa di San Gerlando si alza sulle fondamenta di un tempio dedicato a Giove, questo sarcofago spalancato e vuoto suscita nella penombra cristiana un fascio di imprecazioni, di gemiti, di contrasti tragici e di lussuriosi pensieri nati dall’amore più impuro e dal mito più pagano.

Le quattro facce del sarcofago illustrano e sintetizzano veramente quattro episodi del dramma. Fedra è colpita dalla freccia d’amore, s’abbandona trasognata e torbida sul piccolo scanno, le gambe accostate e frementi, un braccio, concesso alle carezze delle ancelle, l’altro puntato per sostegno della povera carne ferita, il dolce viso si reclina e si abbandona su una spalla : le ancelle sostano sgomente e mormoranti attorno al tragico abbandono della loro regina : invano una citareda trae timidi suoni dalle corde, – invano la nutrice mormora parole di povera consolazione all’orecchio della svenuta e le allenta le bende cerchiate sulla fronte : la ferita è mortale.

Il giuoco dei panneggi si disegna armonicamente sulle belle forme giovanili del coro, sulla disperazione che corrode tra le vene e i nervi l’assetata carne e lo spirito di Fedra. C’è una modernità graziosa e delicata, una valutazione di psicologia tutta intima in questa rappresentazione classica. Fedra non si agita e non si rotola demente, non si aggrappa alla sua sorte di dannazione, abbassa le palpebre sovra gli occhi che covano il desiderio, non osa interrogarsi, non osa specchiarsi; il suo tremendo segreto d’amore è come questa folata che si allarga in misura d’uragano e che crepita contro i vetri delle finestre.

Parlerà fra poco per liberarsene, per alleggerire il peso del cuore confesserà alla nutrice la sua passione per Ippolito, le darà da portargli il messaggio dello spaventoso e snaturato amore. Ippolito sta per avviarsi alla caccia, in mezzo a’ suoi giovani compagni tra gli accucciati veltri, splendido in tutta la forza della sua giovinezza libera e conquistatrice; armato di giavellotto scosta duramente la nutrice che gli ha sussurrato l’infame rivelazione.

Fedra non appare più: è nell’ombra di queste scene di caccia che sembrano risuonare di ringhi, di latrati, di impetuose rapine. Nella faccia del sarcofago opposta a quella in cui è rappresentato lo svenimento di Fedra è abbozzata la morte di Ippolito.

Vento, ancora vento: sono solo nella grande sacrestia, gli armadi che racchiudono gli oggetti del “culto cristiano creano una atmosfera borghese e cattolica che si riempie di drappeggi violacei: i preti hanno cessato i loro canti, il sarcofago come un formidabile libro spalanca le sue quattro pagine, le quattro pagine supreme della tragedia di Euripide.

Mancano i terribili episodi che precedono la fine: Fedra saputo che il marito Teseo, è alle porte di Trezene, e sta per ritornare, temendo che egli venga a conoscere l’infamia che ha macchiato il suo talamo, crea l’irreparabile, si uccide appiccandosi nella camera da letto, e prima di morire, lancia contro Ippolito l’accusa ignominiosa. Teseo invoca sul figlio la vendetta di Nettuno: il carro d’Ippolito ribalta trascinato in fuga dai cavalli; l’eroe muore.

Così è raffigurato dallo scultore : le zampe dei quattro cavalli impennati si agitano sul suo capo come se trebbiassero il grano, un auriga si sforza di trattenere i cavalli adombrati per il morso, le fregi spumeggiano, le criniere s’impigliano nelle briglie, gli zoccoli scalpitano.

La bufera scatenata dal vendicativo Nettuno si fonde nella mia mente con quella che il marzo suscita sulle colline agrigentine. Chi ebbe sepoltura e riposo in questo sarcofago tremendo?

Forse un poeta o un impresario di spettacoli teatrali, forse una cortigiana, un’attrice che interpretava la tragedia di Euripide in questi teatri siciliani; a Segesta contro lo sfondo di Monte Sparagio d’un colore d’argento con grandi nuvole sopra volanti, di Monte Inici bruno di arature recenti con l’ombra di una immensa ala dalle sue falde all’azzurro di Castellamare; a Siracusa nel teatro che vide Eschilo e reca scolpito il nome di Jerone e delle regine Nereide e Filistide curvo e dorato come un istrumento musicale; a Taormina mentre la luna nasce dietro la cima del nevoso Etna e un brivido di luce smalta le onde del mare, i tralci dei vigneti, la macchia lanosa di un gregge incamminato per la strada dei monti. Certo vi fu sepolta un’attrice.

Era una celebratissima attrice, un’interprete famosa, il suo nome correva sulla bocca di tutti; chi pensava a Fedra, pensava a lei; chi l’aveva udita declamare i versi dell’» Ippolito » nel silenzio attonito delle platee siciliane in quell’atmosfera carica d’ire e di profumi aveva paura di lei come dello spettro di una passione fatale.

L’ondeggiare della folla, il biancheggiare dei mandorli fioriti tra due colonne dell’atrio, lo scroscio delle acque del Ninfeo, la visione di una nave salpante dall’Ortygia non riuscivano a distrarre l’attenzione dal gesto famoso col quale ella rovesciava indietro il capo o si poneva le due mani sul cuore o sedeva incastrando la faccia ardente, la bocca urlante tra le due ginocchia: le fanciulle cercavano di imitare la leggerezza con la quale ella si piegava ad arco fino a terra per togliersi i sandali prima del suicidio, gli uomini la chiamavano Fedra negli amplessi.

Le sue altre interpretazioni impallidivano paragonata a questa: chi la vedeva appoggiata a una colonna del tempio, o in atto di comperare due colombe al mercato pensava a Fedra, pronunciava sommessamente il nome della incestuosa regina, la sognava avvinghiata come una demente alle gambe del figlio giovanetto.

Per questo immagino che, prima di morire, la superba attrice chiamasse lo scultore destinato a scolpirle il sarcofago e gli indicasse uno ad uno gli episodi che dovevano occuparne le facce, forse recitando per lui, per lui solo, le scene più drammatiche e leggendogli con la bella voce d’oro i versi del divino Euripide.

Gli attori amano sopra tutto la « parte » più dell’opera, più degli autori, più del pubblico, più di tutto, la « parte »; la loro seconda vita, la tremenda fiamma della loro passione scenica. Non hanno una vita, una personalità, una esistenza, al di fuori e al di sopra della parte : il loro cuore, la loro bocca, le loro mani si modellano sulla finzione della parte.

Questa grande attrice volle esser sepolta dentro la sua parte : nel groviglio tempestoso della passione morbosa e dell’amore disperato vide prima il dramma poi la soddisfazione del piacere sensuale: non si vergognò, non arrossì: cancellò il proprio io per lasciar quello di Fedra, nascose il proprio destino dietro quello di Fedra, la propria gloria dietro la gloria di Fedra e sulle facce del sarcofago volle scolpiti gli episodi dell’ « Ippolito », non le scene de’ suoi trionfi o le pantere e le corone di Dioniso o le maschere della tragedia e della commedia.

Nell’ombra dell’Aula Capitolare, il vuoto sarcofago ha un colore pallido e roseo di alabastro, non si sa ben discernere se la incertezza delle sculture sia dovuta al venir meno della luce o alla debolezza dello scalpello che non le ha finite; il sarcofago è scoperchiato e vuoto; le spoglie ch’esso racchiudeva furono gettate e disperse.

Preti goffi e sacrestani che si spogliano delle loro tonache e delle loro stole e le ripongono nei cassetti, contadini che trattano le spese di un battesimo o di un funerale; suoni di campane lugubri e il custode che ciondola il mazzo delle chiavi per farmi intendere che devo pur uscire.

Il vento è cessato coll’improvviso tramonto; ha lasciato dietro sè, simile a una scia, un’atmosfera lucida, palpitante e brillante in cui tutte le cose tremano e cantano con le loro luci e le loro note più vive; un corteo di vampe rossastre proiettate verso occidente fa presagire un gran vento per l’indomani : la città dedalea riappare a miei occhi splendida come ai più gloriosi secoli; l’inno di Pindaro intreccia la sua corona pitica a quella degli ulivi e dei cipressi tra cui sfilano cortei di fanciulle e di giovanetti inneggianti à Mida vincitore nella gara della tibia.

Una donna inseguita e incappucciata, nella falda d’ombra di una muraglia; una donna tra un ulivo e un cipresso, una donna con in capo un’anfora, diritta, contro il bagliore del tramonto, il mare, i sette templi. Fedra ?

Girgenti

Raffaele Calzini, in Il secolo, 17-6-1925

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, agrigento storia, akragas, ippolito e fedra, sarcofago, sarcofago di fedra, valle dei templi

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