
Roger Lambelin (Laval 13 ottobre 1857 – Parigi il 16 maggio 1929) è stato uno scrittore, giornalista ed uomo politico francese.
Lambelin visitò Agrigento probabilmente nella primavera del 1894.
Il suo viaggio era iniziato da Palermo il 12 febbraio scegliendo l’itinerario classico del Grand Tour (da Napoli a Palermo, via mare, poi Girgenti, Selinunte, Marsala, Trapani, Segesta, Siracusa, Catania, l’Etna, Taormina, Messina e le Isole Eolie). La sua breve cronaca ci fa conoscere Girgenti per come di presentava alla fine del secolo XIX
Testo tratto dall’opera di Roger Lambelin La Sicilia nel 1894
Occorrono da cinque a sette ore di ferrovia per attraversare la Sicilia da nord a sud e raggiungere Girgenti. Il percorso è pittoresco: si rasenta dapprima la costa cosparsa di villaggi di pescatori e, dopo aver attraversato la graziosa cittadina di Termini (Thermae Himerenses), ci inoltriamo tra le montagne.
I luoghi si fanno inospitali: le strade carrozzabili sono sparite; i carretti dei contadini, con le loro ruote gialle e rosse ed i loro cassoni con pitture che somigliano alle stampe di Epinal, non si allontanano dalla periferia delle città. Gli abitanti qui viaggiano a dorso di mulo; nei sentieri che seguono l’andamento dei valloni, li vediamo procedere in carovana. Con i loro ampi mantelli a cappuccio, rassomigliano a dei Cabili. Ogni tanto si scorge su un piccolo cavallo un proprietario rurale con un cappello di feltro in testa ed un fucile messo di traverso sull’arcione. Nell’interno, i Siciliani viaggiano sempre armati; sembrano fare poco assegnamento sui carabinieri per garantirsi la sicurezza delle strade, e d’altra parte gli Arabi, che furono anticamente i loro padroni, hanno trasmesso loro la tradizione secondo la quale il possesso di un’arma da guerra è la prerogativa dell’uomo libero.
Il treno ha preso l’andatura di una diligenza, e la locomotiva ansimante lo rimorchia faticosamente fino al culmine della linea spartiacque. Talora si passa tra rocce scoscese totalmente prive di vegetazione, talaltra la visuale si allarga e, nel fondovalle, si susseguono pascoli e terreni coltivati. Non si incontrano paesi e chi coltiva la terra deve fare una ventina di chilometri per raggiungere il borgo dove abita. Una delle più belle località è senza dubbio quella di Montemaggiore, non lontana da Roccapalumba che è il punto d’innesto della linea per Catania. La stazione è circondata da un boschetto di alberi del pepe e di eucalipti, e i pendìi rocciosi che scendono nel vallone dei Torto sono ricoperti di fichidindia e di arbusti fioriti.
Più avanti, la struttura geologica si trasforma; i crinali impervi lasciano il posto a dei mammelloni a forma di cupola che rassomigliano a dei terrapieni di argilla disposti senza ordine e sprofondati. È il paese dello zolfo: ed eccoci arrivati a Girgenti.
La città è costruita sulla cima di una rupe scoscesa che domina il mare,
dal quale dista tre o quattro chilometri. Vi si accede attraverso una strada a tornanti, ed i tre animali da tiro, un mulo e due cavalli, attaccati all’omnibus dell’albergo, impiegano quasi mezz’ora per raggiungere le prime case.
La città antica che, all’epoca di Diodoro Siculo, contava 220 mila abitanti, è delimitata a est e ad ovest da due piccoli corsi d’acqua, l’Hypsas e l’Akragas, che oggi vengono chiamati il San Biagio e il Drago; la città attuale, popolata da circa 21.000 abitanti, occupa soltanto il luogo dell’antica Acropoli; essa è situata su un blocco di arenaria che scende a gradoni verso il mare.
L’origine di Agrigento è piuttosto oscura, come quella della maggior parte delle colonie greche. Intorno ad una roccaforte chiamata Camico, una colonia venuta da Gela verso la cinquantesima olimpiade costruì una città che fu chiamata Akragas. I Romani la chiamarono Agrigento ed il suo nome attuale è Girgenti.
Il commercio con le coste africane arricchì assai rapidamente Agrigento, che divenne una delle più ricche città del mondo antico: “Gli Agrigentini univano all’amore per il lusso una grande passione per le arti. Ricercavano le statue ed i quadri degli artisti più famosi, i bei vasi di terracotta e in metallo prezioso. Gli abiti dei cittadini erano confezionati con i tessuti più fini e più ricchi, le loro lettighe erano d’avorio; gli utensili casalinghi, quelli per l’igiene personale ed i servizi da tavola erano in oro e in argento artisticamente lavorati. Abitavano in ampie e splendide case nelle quali le sale dei banchetti occupavano un posto importante”(Dictionnaire de l’Acadèmie des Beaux-Arts, t.I, p.539)

Si attribuivano loro dei costumi dissoluti, ed Empedocle, loro benefattore, li accusava “di costruire come se dovessero vivere in eterno e di mangiare come se dovessero morire l’indomani”.
Al crudele Falaride, che governò la città per quindici anni ed aveva l’abitudine di sacrificare delle vittime umane in grosse sfere metalliche arroventate, succedette un’oligarchia presieduta inizialmente da Telemaco; successivamente, nel 488 a.C., Terone s’impadronì del potere ed estese la sua dominazione verso nord fino al mare Tirreno. Con l’aiuto delle forze siracusane di suo genero Gelone, inflisse ai Cartaginesi la famosa disfatta di Imera (480 a.C.), in cui morì Amilcare. La quantità dei prigionieri fu così ingente che ne furono assegnati cinquecento ad un certo numero di cittadini, e proprio questi soldati ridotti in schiavitù edificarono ad Agrigento i templi ed i monumenti di cui si ammirano le grandiose rovine.
La città attuale consiste essenzialmente di una via orizzontale che descrive una curva arcuata intorno al versante meridionale della collina rocciosa, dove si trovano gli alberghi, la posta, i negozi, ecc., e di una serie di strette viuzze che da questa arteria vanno su fino alla sommità, dominata dalla cattedrale.
Questa cattedrale risale al XIV secolo e fu costruita con i materiali provenienti dal tempio di Giove Atabirio,
ma dei restauri grossolani hanno sensibilmente imbastardito il suo stile. Soltanto il campanile, che non fu mai ultimato, possiede un vero carattere artistico, e permette di godere una splendida vista sulla pianura e su porto Empedocle. Col cielo limpido si scorge molto distintamente l’isola di Pantelleria, situata a distanza intermedia dalla costa tunisina.
Il fonte battesimale collocato nella sacrestia non è altro che un antichissimo sarcofago che è stato per gli archeologi argomento di inesauribili discussioni ed i cui bassorilievi riproducono in modo molto inconsueto le tragiche avventure di Fedra e di Ippolito. Ippolito a caccia; Fedra in lacrime in mezzo alle sue compagne; la nutrice che rivela a Ippolito la fatale passione di Fedra; la morte di Ippolito. Sono queste le quattro scene rappresentate dall’ignoto scultore.
Gli archivi della chiesa conservano preziosi documenti
relativi al periodo normanno della storia siciliana. Una cappella prossima alla cattedrale, Santa Maria dei Greci, possiede alcuni frammenti del tempio di, Giove Polieno.
È al di là dei confini di Girgenti che bisogna cercare i resti dei templi e dei monumenti che coprivano il pianoro sul quale sorgeva Agrigento. I santuari di Giunone Lacinia, di Ercole, della Concordia, di Giove Olimpico, di Castore e Polluce, di Vulcano, la tomba di Terone, sorgevano ai bordi del pianoro, parallelamente al mare, dominato dalle colline scoscese dell’Acropoli di Minerva e della Rupe Atenea.
Una leggenda lega il ricordo di Empedocle a questa Rupe Atenea. Il celebre filosofo, che aveva sostenuto l’esistenza dei quattro elementi primordiali (terra, fuoco, acqua, aria), godeva di un grande prestigio come medico e come igienista. Era riuscito a bonificare i dintorni paludosi di Selinunte, ed i suoi concittadini lo supplicarono di liberarli dalle epidemie di febbri perniciose che desolavano Agrigento. Vi riuscì facendo scavare manualmente la depressione che separa la Rupe Atenea dall’Acropoli, depressione che consenti al vento del nord, la tramontana, di spazzare la città e di scacciarne i miasmi malsani.
Le guide e i vetturini seguono un itinerario fisso per fare sfilare i visitatori davanti ai templi, ma io qui preferisco classificare gli edifici nell’ordine verosimile della loro antichità e delineare così, per quanto riesce possibile, la fisionomia dello sviluppo dell’arte ellenica sulla terra siciliana.
Il tempio di Ercole, le cui dimensioni raggiungono quasi quelle del Partenone di Atene, è ubicato all’estremità sud del pianoro, e proteggeva certamente una delle porte della città. Rimangono in piedi soltanto i tamburi di alcune colonne. Il monumento, di ordine dorico, era esastilo periptero, con sei colonne che sostenevano la facciata principale; comprendeva uno “pteron”, colonnato aperto che dava accesso nel “pronaos”.
“Il tempio si ergeva su quattro gradoni con tre scalini inseriti sulla facciata. Era costruito con pietre estratte dalle rocce circostanti; uno stucco fine e liscio sul quale sono state trovate tracce di colore giallo pallido, rosso vivo e blu splendente, ne faceva sparire l’eccessiva porosità. Ma le modanature superiori dei cornicioni erano realizzate in pietra dura di grana molto fine e decorate con fregi, alcuni dei quali scolpiti con modesto rilievo, altri soltanto incisi. I disegni erano resi evidenti come sui monumenti marmorei di Atene, per mezzo di colori applicati direttamente sulla pietra”
È in questo santuario che si trovava la celebre statua bronzea di Ercole, che Verre tentò invano di trafugare.
Anche il tempio della Concordia era dorico; risale a più di duemila anni fa ed il suo stato di conservazione sarebbe prodigioso se non si fosse scoperto che nel medio evo il santuario pagano era stato trasformato in una chiesa dedicata a San Gregorio delle Rape. Questa trasformazione non sembra aver avuto altro effetto che di consolidare le colonne del monumento primitivo senza alterarne alcun frammento essenziale.
Il tempio della Concordia è due volte più piccolo di quello d’Ercole, e se la sua “cella” non fosse coperta, ne riprodurrebbe esattamente tutta la struttura. La fondazione è installata senza alcun cemento, e le giunzioni sono accostate con tanta precisione che sono appena percettibili.
È sotto un aspetto del tutto diverso che si presenta il tempio di Giunone Lacinia. Una ventina di colonne sono ancora in piedi; le altre sono spezzate o disperse. Secondo Plinio, la cella era ornata con l’immagine di Giunone, opera di Zeuxis. La sola particolarità che doveva contraddistinguere quest’edificio dai precedenti è un terrapieno spianato esistente davanti alla sua facciata. Le colonne sono del più puro stile dorico, e la loro altezza corrisponde a cinque volte il loro diametro. I resti di un’antica cisterna sono visibili sulla facciata occidentale.
Le rovine dei templi di Castore e Polluce e di Vulcano, entrambi esastili ipetri, non presentano grande interesse, ma le loro prospettive erano mirabilmente disposte.
Il più colossale fra tutti, il tempio di Giove Olimpico, sovrastava con la sua massa imponente una collina non lontana dalla Porta Aurea. Non fu mai completamente ultimato e Diodoro, che lo contemplò quattro secoli dopo il suo abbandono, ne ha lasciato la seguente descrizione: “Altrove i templi erano generalmente rinchiusi da muri, oppure erano circondati da colonne; questo presenta le due disposizioni riunite: all’esterno, vi erano delle colonne addossate; all’interno, dei pilastri quadrati. Un uomo può essere contenuto in una scanalatura delle colonne. Sul lato est, si notavano delle sculture di grande dimensione e di mirabile bellezza, raffiguranti il combattimento dei Giganti; sul lato ovest era raffigurata la presa di Troia: ogni eroe presentava degli attributi conformi al suo carattere personale”’.
Purtroppo, di questo grandioso edificio soltanto i muri del basamento si trovano al loro posto; tra le rovine sparse sono stati ritrovati dei capitelli e dei frammenti della trabeazione, delle modanature ornate di perle, una figura di Telamone alta otto metri e dei pezzi di statue femminili di analoghe dimensioni, dei leoni forse appartenenti alle sculture dei frontoni.
Con un paziente lavoro, è stato possibile ricostituire la pianta del tempio. Sei colonne erano addossate alla facciata principale, sulla facciata posteriore e quattro su ognuna delle sette facciate laterali. Tre navate costituivano l’interno, quella centrale aveva un pronao ed un postico.
Erano necessari quindici o venti gradini per giungere alla soglia, e il diametro delle colonne era di m. 4,16; la trabeazione si trovava all’altezza di quasi dieci metri.
Studiando i requisiti costruttivi dell’edificio, ci si rende conto delle ragioni che hanno indotto gli artisti agrigentini a farlo pseudoperipterico, cioè provvisto di colonnati simulati i cui fusti sono incastrati nei muri. I blocchi più voluminosi reperiti nella regione non raggiungevano il diametro delle colonne, che perciò si dovettero addossare ai muri. Le architravi, sempre monolitiche nell’architettura greca, presentavano la stessa difficoltà e bisognò incastrare anche le trabeazioni.
Contrariamente al principio che destinava alle sculture superiori molto rilievo e grande risalto, le figure non sono più sporgenti10 delle colonne, e i telamoni della cella aderivano al muro allo stesso modo dei pilastri che servivano loro da piedestallo.
Il tempio di Esculapio conteneva la statua bronzea di Apollo che portava, incisa in argento sulla coscia del dio, la firma dello scultore Mirone; esso richiama i Propilei di Atene, di cui riproduceva le colonne slanciate, le solide basi e i delicati ornamenti.
È opportuno, per concludere la serie degli edifici sacri, segnalare anche il piccolo oratorio di Falaride, molto armoniosamente concepito. Si componeva essenzialmente di una facciata a quattro colonne che davano accesso alla cella; vi è manifesta la fusione degli stili greci: le colonne, le cui basi sono attiche, hanno una trabeazione dorica e dei capitelli ionici.
Gli Agrigentini, che coltivavano tutti i lussi, avevano un culto speciale per quello delle tombe. Talvolta scavavano nella roccia ampi vani sepolcrali dove sistemavano i sarcofagi di marmo o di porfido; talaltra, edificavano dei monumenti, sia nell’Acropoli, sia all’esterno della cinta della città. Chi non aveva parenti o amici da seppellire, costruiva delle tombe per i propri animali domestici, e Diodoro riferisce che dei ricchi cittadini “avevano fatto costruire dei sontuosi monumenti dedicati alla memoria di cavalli da corsa celebri, o di uccelli, amici abituali dei bambini”.
La tomba di Terone aveva delle proporzioni gigantesche; fu colpita da un fulmine proprio quando Annibale ne ordinava la demolizione, e non ne è rimasta alcuna traccia. Il piccolo monumento vicino al tempio di Ercole, dove le guide non mancano di condurvi per parlarvi di Terone, non contiene certamente le ceneri del vincitore di Imera ma, se esso fu costruito in onore di un Agrigentino meno illustre, non è meno interessante da esaminare, tanto più che è conservato abbastanza bene.
È una costruzione a base quadrata, che comprende uno zoccolo, un supporto con base e cornice, ed un ripiano. “Agli angoli di questo ripiano quattro colonne ioniche incastrate sostengono un’architrave ed un fregio di stile dorico. Su ogni lato delle pareti erette tra le colonne si vede una porta col suo stipite; le quattro porte contengono altrettanti pannelli scavati nella pietra. Lo zoccolo è costruito a piombo, le facce del piedestallo sono un po’ inclinate, e le colonne lo sono in modo molto accentuato””. I particolari di questa costruzione sono stati molto curati; essa ha qualche analogia con la tomba di Mausolo. Le modanature del piedestallo presentano un gradevole disegno, “ma le basi delle colonne ed i capitelli ornati di ovoli, di volute, di foglie e di palmette, sembrano appena abbozzati. Quest’apparenza grossolana doveva sparire sotto lo stucco che copriva tutto l’edificio e che probabilmente conferiva alle informi modanature sgrossate nella pietra dei contorni gradevoli e molto precisi”. Ciò che caratterizza più particolarmente il monumento sono le colonne ioniche sormontate da una cornice a triglifi.
Il grande merito dei monumenti antichi di Agrigento consiste nel fatto che segnano l’apogeo dell’arte ellenica e corrispondono quasi tutti al periodo tanto splendido che segui alle vittorie di Salamina e di Platea.
Fu nella pianura delimitata dal mare e dal fiumicello di Girgenti che si combatté nel 262 a.C. la più importante battaglia della prima guerra punica. I Romani, padroni di Messina, avevano inizialmente lottato senza grande successo contro i Cartaginesi alleati dei Siracusani, ma dopo la vittoria riportata sulle sue truppe dal console Marco Valerio Massimo, Ierone abbandonò i suoi alleati e fece la pace con Roma. Servendosi delle città di Messina e Siracusa come basi operative, le legioni potevano impegnarsi senza timore nell’interno dell’isola; le piccole città greche, che paventavano sopra ogni cosa il giogo tirannico della metropoli africana, non opposero loro resistenza, ed alcune fornirono loro anche dei soldati.
I Cartaginesi furono successivamente ricacciati nelle piazzeforti ed il loro capo, Annibale, figlio di Giscone, si chiuse in Agrigento, deciso a difendere fino all’estremo il più florido dei possedimenti punici.
I Romani, riconoscendo l’impossibilità di conquistare d’assalto la posizione, la circondarono con una doppia linea di trincee e organizzarono un blocco rigoroso che ridusse ben presto alla fame i cinquantamila assediati. Girando intorno alla collina, si può individuare il sito delle linee di circonvallazione. L’ammiraglio Annone, sbarcando ad Eraclea, alla foce del Platani, con truppe di rinforzo cartaginesi, riuscì a sua volta a tagliare i rifornimenti agli assediami. Dopo parecchi mesi di sofferenze e di vana attesa, fu deciso di comune accordo di abbandonare le posizioni in trincea per affrontarsi in battaglia campale. La lotta fu accanita e la conclusione per parecchio tempo incerta. I cavalieri numidi tagliarono a pezzi i cavalieri romani, ma le legioni ebbero il sopravvento sulla fanteria fenicia. Agrigento cadde in potere di Roma ma i vincitori, esausti per il combattimento, non poterono impedire all’esercito assediato di lasciare la città e di rifugiarsi sulle navi della flotta.
Da allora i Romani furono padroni dell’interno della Sicilia; tuttavia Cartagine mantenne ancora per lungo tempo gli insediamenti marittimi e, grazie alla sua superiorità navale, effettuò spesso degli sbarchi lungo le coste; uno dei suoi generali, Cartaio, riuscì perfino a riconquistare Agrigento.
È singolarmente suggestivo contemplare la pianura che fu teatro dei sanguinosi combattimenti sferrati dalle due grandi nazioni che si disputavano il bacino del Mediterraneo, vale a dire il dominio del mondo antico.
Greggi di capre e di pecore brucano i magri pascoli che circondano i templi. Da lontano, i carrubi, i lauri, i mandorli in fiore sembrano inghirlandare con corone le grosse colonne grigie inclinate, sotto il soffio continuo dello scirocco. Dalla cattedrale, appollaiata nel punto più alto della città, giungono i suoni argentini dell’Angelus, e le tartane, con le vele raccolte, sembrano dormire nella piccola rada di Porto Empedocle, immersa nella bruma mattutina…
L’antico porto di Agrigento era ubicato sull’estuario dell’Acragas; Porto Empedocle, anticamente denominato Molo di Girgenti, è stato dragato un po’ più a nord ed è il principale centro di esportazione dello zolfo prodotto sulla costa meridionale della Sicilia.