Alla vigilia del dibattito di Agrigento ci fu chi, molto autorevolmente, mi chiese se come siciliano preferissi non prendere la parola in Senato. Aggiunse anzi di essere convinto che avrei preferito il silenzio. Non me ne sono stupito gran che; tanti e tali erano gli esempi che venivano, da Palermo e da Roma, di siciliani che levavano fiere rampogne contro « lo scandalismo », contro i pericoli di una crisi regionale, contro le menomazioni dell’istituto autonomistico.
Strano, ma solo in apparenza, era che tra essi non fossero solo gli uomini della DC, del partito che ad Agrigento ha sgovernato da solo il Comune, del partito di Coniglio e Carollo, ma anche politici che dovevano ritenersi lontani da ogni sospetto di collusione nei fatti di Agrigento. Ma le alleanze, si dice, devono pur contare qualche cosa, e lo si ripete con maggior forza in Sicilia, dove la minaccia della crisi regionale è venuta dalla DC e dalla stessa è venuta, spavaldamente, la crisi dell’amministrazione comunale e provinciale di Palermo. Le crisi, peraltro, a Palermo come a Roma, le può fare solo la DC; agli altri tocca scongiurarle; mordendosi talora la lingua per aver parlato troppo.
Che io preferissi non parlare era dunque tra le cose pensabili; di più: tra le cose ragionevoli. Ricordate il « don Luigino » di Cristo si è fermato ad Eboli? Era il podestà del paese, solo a lui era concesso comandare, guadagnare, pensare; gli altri, i contadini, dovevano solo avere fiducia in lui e, naturalmente, lavorare e pagare. Levi, nell’Orologio, arrivò a distinguere la società meridionale in «luigini » e « contadini ».
Scrivendo della crisi del ’45 disse che Parri si era trovato come un contadino in mezzo a tanti « luigini ». La realtà meridionale è solo in parte cambiata: è divenuta più complessa. Altri aspetti della gramsciana «disgregazione sociale» si sono prodotti, non compensati, ma forse aggravati da nuove forme di organizzazione nell’esercizio del potere e nella rappresentanza degli interessi di ceti vecchi e nuovi. Ma, oggi come ieri, la classe politica siciliana abbonda di «luigini ». Nulla di strano che preferissi sentirmi tale, anziché « contadino ». Come tale spero di aver parlato.
Il ruolo di Mancini
II ruolo di Mancini. Chiudiamo la valvola dei ricordi, inutili a sé e fastidiosi agli altri, e torniamo al dibattito dei quattro giorni di fine ottobre, quello del Senato e quello dell’assemblea regionale. Non è stato affatto inutile, come è certo che dev’essere stato, per non pochi, fastidioso: per chi subiva l’attacco ed anche per qualcuno di coloro che per onor di firma doveva muoverlo. Non certamente, diciamolo subito, per l’unico uomo della maggioranza che ne è uscito bene: il Ministro dei Lavori Pubblici, on. Mancini; riuscito a scindere le proprie responsabilità (ed anche i propri meriti) da quelle del governo e soprattutto dai demeriti che la maggioranza si è guadagnati.
Già nei mesi dell’estate più infuocata si era trovato pressoché solo a fronteggiare la frana, le sue implicazioni politiche, i suoi non facili doveri di Ministro di una coalizione, al cui partito di maggioranza facevano capo i maggiori responsabili: al Comune, nella Regione, negli stessi organi centrali di partito e ministeriali. Sostenuto, nelle forme in cui ciò è attualmente possibile, dall’opposizione e dalla gran parte dell’opinione pubblica; frenato non di rado da elementi della sua stessa parte politica, ha affrontato il suo compito, come lo affronta chi la politica la fa e non la subisce. Ha affrontato anche il rischio che gli proveniva dall’includere nella Commissione alti funzionari che dovevano sapere anche prima, ministeriali e regionali. Come è avvenuto in altre circostanze, se di uno di essi si fosse fatto il nome in veste di accusato, non sarebbe ricorso certamente al penoso espediente di promuovere una raccolta di firme, destinata a conclamarne l’innocenza e l’onorabilità. Ha presentato al Parlamento, prima che al Governo, la relazione Martuscelli, assumendone implicitamente la paternità; si è messo in condizione di poter annunziare al Senato provvedimenti in larga misura richiesti dalle mozioni dell’opposizione e non da quella della maggioranza. Ha confermato così la valutazione, molto diffusa in questi ultimi tempi, di chi gli attribuisce alte aspirazioni politiche,
più che attaccamento alla continuità di una funzione di governo.
La trincea democristiana
La trincea democristiana. E la maggioranza?
L’atteggiamento della DC in senato e all’assemblea regionale era largamente scontato in partenza. Difesa ad oltranza del partito e dei suoi uomini, anche tra i più esposti alle accuse; svalutazione e discredito dell’operato e della relazione della Commissione ministeriale; tentativo di ribaltare gli addebiti sugli stessi accusatori; ogni sforzo perchè fosse evitato il processo politico facendo sfociare tutto nella remissione degli atti alla magistratura e nell’adozione del minimo inevitabile dei provvedimenti amministrativi. Ma le affermazioni fatte negli interventi dei de hanno superato ogni aspettativa. Da quella del sen. Airoldi, che proponeva al Ministro provvedimenti disciplinari contro il dr. Martuscelli per l’intervista concessa all’Espresso, a quella del sen. Militerni: « La DC saprà rimuovere ed ordinare anche le macerie materiali e le scorie umane di un episodio che, pur nella sua negatività, è sintomo del prodigioso sviluppo urbanistico del Paese ed è testimonianza del processo di rinascita e di crescita civile ».
E a Palermo, com’era prevedibile, le affermazioni sono state ancora più spinte: da quella fatta dal Presidente on. Coniglio, secondo il quale la Regione avrebbe fatto interamente il proprio dovere, non potendo però dispiegare come avrebbe voluto il suo potere perchè gli organi dello Stato le hanno sempre contestato le attribuzioni statutarie in materia edilizia, a quella del- l’on. Trenta che definiva la relazione Martuscelli « impregnata di sadico e acre furore anti-dc », condotta con leggerezza tale e con il deliberato proposito di nascondere tutte le responsabilità che non fossero della DC, da non poterle dare alcun credito!
E i socialisti? Al Senato Banfi, dopo aver contestato al sen. Airoldi di Poter parlare a nome degli altri firmatari della mozione di maggioranza ed aver lamentato che l’Amministrazione Comunale di Agrigento fosse ancora in carica, affermava che se fosse continuato il rifiuto della DC ad accettare un discorso politico sulle responsabilità dei suoi dirigenti agrigentini «si dovrebbe constatare una responsabilità politica generale di tale partito con quei dirigenti ». Del discorso di Lentini all’Assemblea Regionale l’unico aspetto rilevante è consistito nella proposta di scioglimento del Consiglio Comunale di Agrigento, come conseguenza delle conclusioni della relazione Martuscelli, condivise totalmente. Mi permetta il lettore di considerare a parte l’intervento svolto da chi scrive, in Senato, e quello dell’on. Taormina all’assemblea regionale,
Entrambi gli interventi erano da considerare, al momento, espressione almeno protocollare dei rispettivi gruppi socialisti, ma indipendentemente dalla particolare posizione dei due Parlamentari, anche se in coerenza con m stessa, la conclusione del dibattito ha avuto a registrare due elementi del loro dissenso dalle conclusioni a cui sono arrivati i gruppi e per essi il Partito. Per l’uno fu la presentazione dell’O.d.G. per lo scioglimento del Consiglio Comunale oltreché l’astensione nel voto sulle mozioni; per l’altro fu la solidarietà con l’opposizione di sinistra nel voto di fiducia al governo regionale.
L’opposizione di sinistra
L’opposizione di sinistra, diligente dell’analisi ed efficace nella denuncia, ha calcato in misura superiore alla Uccessità sull’incidenza del fenomeno mafioso che, se appare macroscopica Per Palermo, lo è molto meno per Agrigento, nella cui vicenda l’irregolarità amministrativa e l’arbitrio elevato a legge rappresentano di per sé un fenomeno altamente esemplificativo di una situazione non limitata alla città e neanche alla regione. Riportarlo alla comune matrice della mafia può anche significare rimetterlo nel grande calderone del fenomeno ormai secolare ancor più che in quello del rapporto mafia-politica-pubblica amministrazione, con il pericolo di una sfocatura delle sue caratteristiche reali, che sono quelle inerenti al rapporto politica-favoritismo clientelare. Da tale Punto di vista si può affermare che all’assemblea regionale l’opposizione di sinistra ha centrato meglio gli obiettivi.
Il compromesso finale. Le posizioni delineatesi nel corso del dibattito, non solo quelle che ne costituirono l’aperta manifestazione ma soprattutto quelle che ne costituirono il sottofondo ben più determinante, quelle assunte dalle centrali dei partiti della maggioranza, non potevano che portare a determinate conclusioni, rappresentate dal testo delle mozioni approvate. Quella approvata dalla maggioranza al Senato, nonostante un’innocua aggiunta successiva alle dichiarazioni del Ministro, appare arretrata rispetto alla sostanza ed allo spirito che ha animato queste ultime, preoccupata com’è di non sbilanciare verso un giudizio politico, meno esplicita sul merito della relazione e molto meno esplicita nel richiedere provvedimenti, quali quelli annunziati dallo stesso on. Mancini. Quella votata dall’assemblea regionale risente in misura ancora maggiore del compromesso a cui i socialisti hanno dovuto piegarsi per non fare esplodere una crisi che, ben sapendo quali corde andare a toccare, la DC minacciava ad ogni passo. La mozione incentra tutto su quello che dovrebbe ritenersi solo un dovere elementare: la trasmissione degli atti alla magistratura. A Palermo la vicenda si è arricchita della giusta pennellata di grottesco con l’annunzio dato dal Presidente dell’Assemblea, nel momento più infuocato del dibattito, che il deputato regionale Sanfilippo, pacciardiano sino alla mattina, era passato al gruppo del PSDI, essendone stata accolta l’iscrizione al partito stesso, proprio mentre si concludeva, con i due Congressi, l’unificazione socialista.
L’una e l’altra tacciono sul problema esplicitamente sollevato sia da Banfi al Senato che da Lentini all’Assemblea regionale, dell’opportunità di promuovere lo scioglimento del Consiglio Comunale di Agrigento. Non era quindi affatto da stupirsi (come qualcuno ha fatto le viste di fare) che sia stato presentato a conclusione del dibattito un ordine del giorno che poneva in termini espliciti l’esigenza sottolineata, sia a Roma che a Palermo, da due parlamentari socialisti; nè poteva elevarsi a regola costante il dover tenere conto delle ragioni (non tali, in ogni caso, da doverle condividere) che hanno portato i gruppi parlamentare del PSI a sacrificare tale esigenza più che legittima sull’altare di una « solidarietà » di governo, cui viene a mancare da quel momento ancora un’altra ragione di essere e di giustificarsi.
L’O.d.G. Gatto, Parri, Carettoni, Levi voleva essere, nella forma altamente rispettosa in cui poneva il Senato di fronte alle prerogative della Regione, un’occasione offerta allo stesso per concludere il dibattito con una affermazione, almeno parziale, di quella volontà comune che il Presidente sentì di dover auspicare dando inizio alla discussione. Le quattro firme rispecchiavano (mi si conceda ricordarlo) una comune origine lontana, ma non certo oscura nè senza peso sulle vicende politiche del Paese. Era il modo di porre un problema di coscienza civile, prima ancora che politico in senso stretto. Ma il peso delle coscienze, come s’è visto per il caso Togni, incide sempre meno sulle determinazioni politiche. E così è accaduto anche stavolta.
SIMONE GATTO, in L’ASTROLABIO 6 novembre 1966