Dalle reminiscenze degli studi liceali, tutti ricordiamo le famose «Verrine», le celebri arringhe di Marco Tullio Cicerone, pronunziate contro Gaio Verre e che costituiscono un vero e proprio classico della letteratura latina, ma non tutti sanno che il famoso oratore romano venne nell’allora Agrigentum per potersi documentare circa le accuse mosse al suddetto Verre.
Ma andiamo con ordine.
Nel 241 avanti Cristo la Sicilia veniva occupata dai Romani e diveniva una “provincia”, amministrata da un “Propretore”. L’isola era considerata il granaio di Roma ed aveva un’agricoltura di tutto rispetto. Negli anni dal 73 al 71 a. C. ricoprì la carica di Propretore Gaio Verre, uomo politico, che in precedenza aveva amministrato la Cilicia e aveva assunto lo stesso incarico in Sicilia.
Ma in questi due anni le ruberie, le prepotenze, le rapine esercitate dal suddetto funzionario furono tali e tante che gli abitanti di Agrigentum di Eraclea, di Gela, di Solunto e di altre città siciliane furono costretti, a ricorrere a Roma per avere giustizia.
Si assunse la loro difesa Marco Tullio Cicerone (nato ad Arpino nel 106 a. C. e morto a Formia nel 43 a. C.), scrittore, oratore ed uomo politico romano, autore di diverse opere filosofiche e giuridiche, ben note agli studiosi.
Cicerone, per potere contestare le accuse di malgoverno a Verre e per potersi documentare al riguardo, venne in Sicilia nell’anno 70 avanti Cristo e dalle sue stesse orazioni risulta che visitò diverse città dell’isola per condurre la sua inchiesta e si fermò ad Agrigentum per alcuni giorni. Le orazioni pronunziate dall’allora trentaseienne avvocato furono cinque e vennero anche pubblicate.
Il Picone, nelle sue “Memorie storiche agrigentine”, riporta alcune frasi molto significative:
“At enim frumentum Centuripinorum et Agrigentinorum et non nullorum fortasse praeterea probasti, et his populi pecuniam dissolvisti. Sint sane aliquae civitates in eo numero, q1uarum frumentum improbare nolueris; quid tandem? His civitatibus omnisque pecunia, quae pro frumento debita est dissoluta est ? Unum mihi reperi non populum, sed aratorem: vide, quaere, circumspice si quis forte est ex ea provincia, in qua tu triennium praefuisti qui te nolit prerisse: unum inquam da mihi ex illis aratoribus, qui tibi ad statuam pecuniam contulerunt, qui sibi dicat pro frumento, quod opurtuerit solutum. Confirmo, iudices, neminem esse dicturum (Cic. “Verr.” Lbro III c.77)
Tradotto: “Qui tu mi potresti rispondere che tu approvasti però il grano dei Centuripini e degli Agrigentini, e per avventura di alcuni altri, e che a questi popoli pagasti il denaro. Ammettiamo pure che ci fossero alcune città in quel numero, delle quali tu non volesti rifiutare il frumento: che è perciò? a queste città fu sborsato tutto il denaro che si doveva loro per il frumento? Trovami non un popolo, ma un solo agricoltore: vedi bene, ricerca e considera se ne puoi trovare qualcuno da quella provincia, che per tre anni hai amministrata, il quale non desideri la tua rovina: trovamene, dico, uno solo di quelli che contribuirono denari per la tua statua, il quale dica di avere ricevuto tutto il pagamento che per il grano gli era dovuto, lo affermo, giudici, che non se ne troverà uno che lo dica”.
Questo passo si riferiva alle angherie attuate dal Verre nei riguardi degli agricoltori (aratores), che venivano depredati dei loro prodotti, tanto che moltissimi abbandonarono le terre e tale “spoglio inumano” costrinse molti addirittura a vendere gli strumenti agrari.
Ma altri punti di tali orazioni sono significativi da Cicerone: (Verr II, 4, 43) sappiamo che nel tempio di Asclepio, detto anche di Agrigentum, “religiosissimum fanum Aesculapii”, si trovava una statua, opera firmata dal famoso Mirone, rapita dai Cartaginesi durante l’occupazione dell’allora Akragas, restituita da Scipione l’Africano dopo la distruzione di Cartagine e nuovamente fatta rubare da Verre. Ma il valente avvocato incalza, ricordando che il Propretore aveva violato in Agrigentum le leggi di Scipione, aveva spogliato i ricchi agrigentini, aveva estorto dagli aratores e dai negozianti somme considerevoli, perchè erigessero statue a lui ed a suo figlio nella città ed addirittura statue equestri indorate a Roma.
Verre aveva anche tentato di rubare la statua di Ercole dall’omonimo tempio, ma i suoi sgherri erano stati respinti dal popolo. Aveva anche sottratto vasi d’oro e d’argento, i candelabri e tutte le preziose suppellettili da altri templi ed aveva costretto i cittadini agrigentini a versare la “decima” con modi e tassazioni arbitrarie.
Inebriato dalle male acquistare ricchezze, e dalla irrefrenata latitudine dei suoi poteri, il propretore non esitò a usurpare eredità, ad infliggere “tormenti”, a “contaminare” talami e matrone, ma arrivò a togliere la vita ad innocenti cittadini. Infatti Cicerone, quando si recò ad Eraclea Minoa, città decumana, fu accolto da una fiaccolata di una moltitudine di donne, tra cui la madre di un certo Furio, capitano di nave e che era stato messo a morte da Verre, per chiedere giustizia. Questo Furio, persona stimata e ragguardevole “non solo nella sua città”, finché visse, aveva osato contestare all’infedele funzionario il suo operato e per questo motivo era stato incarcerato e, ad onta del pianto di una madre per la vita del figlio, era stato condannato alla pena capitale da Verre, che aveva, ancora una volta, di mostrato la sua crudeltà.
Sottolinea Cicerone: “rivolgendosi a me con l’appellativo di salvatore” la madre di Furio si prostrava ai mei piedi, “chiamando te suo carnefice ed invocando tra le lacrime il nome del figlio, quasi che io potessi risuscitare suo figlio dai morti”
Il processo si svolgeva davanti al Senato romano e Cicerone, dopo i cinquanta giorni trascorsi nelle città siciliane per raccogliere prove e testimonianze, sebbene qualcuno avesse tentato di intimidire il coraggioso oratore di Arpino, si concluse con la condanna di Verre, che fu costretto a restituire ben 750.000 sesterzi e che poi scelse la via dell’esilio.
Delle ingombranti statue che erano state erette in suo onore, non appena egli ebbe finita la pretura, non rimasero che cumuli, dato che tali monumenti furono, a furor di popolo abbattuti e Cicerone le vide, giacenti sul terreno, deformi e mutilati.
Per concludere questa breve carrellata storica, si deve peraltro ricordare che il Pretore Metello, nominato successivamente alla guida della provincia siciliana, provvide a richiamare nell’isola gli “aratores” che erano emigrati, per riprendere la coltivazione dei terreni ed a rescindere nel 70 avanti Cristo tutti gli editti illegali che erano stati emanati da Verre.
Ma è utile anche ricordare che Cicerone si dimostrò un grande estimatore dei Siciliani e nelle sue “Verrine” ne esaltò le doti spirituali, sottolineandone l’intelligenza, lo spirito umoristico, ma anche la diffidenza.
Gaetano Allotta, In Sicilia il primno processo di concussione nel 70 avanti Cristo contro Gaio Licinio Verre, in Agrigento Nuove Ipotesi, n.1, 2008, pp. 25-26