Le prime avvisaglie di un moto rivoluzionario contro i Borboni si ebbero a Girgenti (oggi Agrigento) con la diffusione in città di alcuni opuscoli “patriottici” che indicavano nel 12 gennaio, genetliaco del Re Ferdinando II, il giorno dell’insurrezione.
Due proclami in particolare ebbero ampia diffusione in città, “I Siciliani ai fratelli del Nord” ed “Invito alle armi”. Palermo insorse proprio nel giorno preannunciato e Girgenti la seguì due giorni dopo, non appena le notizie dalla capitale si fecero più precise e giunsero i primi proclami rivoluzionari.
Arrivò presto anche un proclama che era stato diffuso a Palermo. Un manifesto dei fratelli Rosano e Francesco Bagnasco:
“Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando II tutto ha disprezzato e noi, popolo libero, ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i nostri legittimi diritti? All’armi, figli di Sicilia, allarmi ! La forza di tutti è onnipossente: l’unione dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio, all’alba, comincerà l’epoca gloriosa dell’universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni analoghe al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia e da Pio IX. Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le proprietà, il furto sia dichiarato tradimento della Patria e, come tale, punito. Chi mancherà di mezzi ne sarà provveduto. Con questi principi il Cielo asseconderà la giustissima impresa. Siciliani, allarmi!”.
All’alba del 12, com’era in uso, il cannone del forte di Castellammare sparò dei colpi in segno di festa per il compleanno del Re. Ma accadde anche un giovane non sparò in aria un colpo: era il segnale che dava inizio alla rivolta in Sicilia. Le vie di Palermo furono invase da cospiratori armati, persino preti. Tutti indossavano nastri e coccarde bianchi rossi e verdi.
Il 14 gennaio due studenti universitari agrigentini, appena arrivati da Palermo, fecero visita all’ex colonnello borbonico Gerlando Bianchini portandogli notizie più precise sui moti palermitani. Il colonnello era stato estromesso dall’esercito borbonico diversi anni prima ed a Girgenti si sussurrava che fosse diventato ostile al governo del Re.
Bianchini accolse i giovani arrivati da Palermo, ma per il vecchio militare e per gli altri liberali della città era difficile in quelle ore assumere immediate decisioni anche a Girgenti.
Un vero comitato insurrezionale non era ancora pronto in nessuna città della provincia. Mancavano inoltre le armi e le munizioni. Come avviare in queste condizioni un sollevamento popolare? Qualunque azione sarebbe andata incontro a sicuro fallimento.
Occorreva prendere tempo, riflettere, organizzarsi, elaborare un piano, raccogliere volontari, far giungere le notizie nelle campagne e negli altri Comuni, stabilire contatti con Palermo.
Bianchini decise allora di temporeggiare e cercò di placare gli animi dei più accesi che avrebbero voluto attaccare le truppe. Nonostante gli sforzi il 16 gennaio una ventina di giovani armati era già in grado di attaccare il Corpo di Guardia di Gendarmeria che stazionava nella strada maestra.
Così almeno aveva appreso l’Intendente borbonico Silvio Speciale che si recò in quel giorno stesso dal Bianchini per indurlo ad intervenire prima che la situazione precipitasse. I borbonici chiedevano insomma di attendere l’evolversi della situazione e di evitare inutili scontri a Girgenti, convinti che la vera battaglia si giocava a Palermo. Bianchini riuscì a fermare quei giovani. Ma sapeva che di più non avrebbe potuto fare.
Il 16 gennaio cadeva anche il giorno genetliaco del principe ereditario Francesco ed era da tempo prevista una serata di gala: “il popolo che vi era presente, silenzioso e attento, presentava una quiete, simile a quella che precede la tempesta! I magistrati regi, accortisi di ciò, moltiplicavano le loro riunioni, in forma di visite ed affettavano grande popolarità ed amore della giustizia e del pubblico bene, ma aumentavano le guardie, e per seminare la diffidenza e la divisione fra le varie classi sociali, facevano spargere la voce che al minimo cenno di una rivoluzione politica, era pronta una congiura di pessimi uomini, per irrompere in ogni delitto, col pretesto della libertà. Insultavano poi il popolo siciliano, chiamandolo feroce e selvaggio, non ancora educato nei veri sentimenti di libertà e capace di ogni eccesso, di ogni delitto”, scrive lo storico agrigentino Giuseppe Picone. Nei giorni seguenti giunsero altre confortanti notizie da Palermo per i liberali di tutta la Sicilia. Molti sinceri liberali temevano a Girgenti che se non fossero stati i liberali a prendere l’iniziativa, sarebbe stata certamente la plebe a “prendere il sopravvento” , come scrive lo stesso Giuseppe Picone.
Finalmente il 22 gennaio oltre trecento Agrigentini si ritrovarono nella piazza della Riconoscenza (dove sorgeva la Casina Empedoclea) e si misero in marcia lungo la via maestra (l’attuale via Atenea). Così Bianchini descrive la manifestazione in una corrispondenza al console inglese Giovanni Oates: “Concordemente unanimi, il giorno 22, gli Agrigentini balenanti verace gioia comparvero insigniti di coccarda costituzionale, ingombrando le strade tutte, rimbombanti delle grida: Viva Palermo, Pio IX, La Lega Italiana, non esclusi i fanciulli, le donne, i frati, i preti, i ricchi, i poveri, e mendicanti: restando immediatamente paralizzato lo scellerato catasto fondiario, la gravissima tassa sul macinato, l’infame radiale”.
Cos’ Girgenti fu la prima città siciliana a seguire Palermo nella rivolta contro i borboni.
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