Nacque a Porto Empedocle il 20 aprile nel 1917.
Autore per le case discografiche Cetra, Durium, Vis, fu compositore di tantissimi motivi di successo. Interprete sensibile e delicato della musica popolare siciliana, in lui confluirono i ritmi sentimentali ed affettivi delle antiche tradizioni musicali della terra siciliana. La sua musica, limpida e vibrante, era il risultato di quell’anima isolana impregnata di languore, speranza, dolore, gioia, fremiti di vita.
Diplomatosi in flauto traverso al Conservatorio di Palermo, diventò un virtuoso degli strumenti a plettro come la chitarra, il banjo ed il mandolino.
Insieme al fratello Salvatore, in arte Tony Lusi, crea un’orchestra che per più di trent’anni ha operato con successo in tutti gli ambití musicali, dalle navi da crociera ai locali da ballo, (uno per tutti “La Focetta”, locale agrigentino degli anni ’60), alle feste di piazza, eseguendo i brani musicali più in voga o di propria composizione e accompagnando i cantanti del periodo più noti, come Iva Zanicchi, Jimmy Fontana, Robertino, ecc. o più vicini ai giorni nostri Giusi Romeo, meglio conosciuta come Giuni Russo.
Ha inciso più di 2.000 brani per la casa discografica Cetra (in seguito Fonit-Cetra), tra brani ballabili come il fox o il tango, e brani d’ispirazione popolare più vicini al contesto folklorico, ancora oggi il brano “La voce del pastore”, meglio conosciuto come “Tarantella Vecchia” è nel repertorio di molti gruppi folkloristici di Agrigento.
Parallelamente alla musica eseguita in pubblico, si dedicò all’insegnamento privato creando una vera e propria scuola d’arte varia, scoprendo talenti che devono al Maestro Li Causi una sorta di “Marchio di fabbrica”: hanno fatto parte dell'”Orchestra Franco Li Causi” tantissimi musicisti agrigentini come il Cav.Calogero Cummo, Vincenzo Morreale, Gigi Finestrella, Pasquale Marchetta, Donì Cinque, Mariella Arena, Giovanni Moscato, Gian Campione, Federico Orefice, Francesca Cosentino e studenti d’eccezione come Emanuele Lo Vullo e Tom Sinatra.
Franco Li Causi ha combattuto molto per ottenere la sua canzone Vitti ‘na crozza perché cantanti famosi hanno cercato di rubargli i diritti d’autore, ed ha ottenuto i diritti di Vitti ‘na crozza poco prima di morire.
Ha collaborato con “I Dioscuri”, con Pippo Flora e con Tony Cucchiara nell’allestimento di diverse opere teatrali, curandone la parte musicale.
Morì il 4 giugno 1980 ad Agrigento.
VITTI ‘NA CROZZA (i versi originali)
I Vitti ‘na crozza supra nu cannumi fui curiusu e ci vosi spiari idda m’arrispunniu cu gran duluri muriri senza toccu di campani II Sinni eru sinni eru li me anni sinni eru sinni eru li me anni ora ca su arrivati a ottant’anni u vivu chiama e u mortu m’arrispunni III Cunzatimi cunzatimi stu lettu ca di li vermi su manciatu tuttu si ‘nun lu scuttu cca lu me piccatu lu scuttu a chidda vita a sangu ruttu..
La canzone narra la storia di un teschio drammaticamente impegnato a raccontare le vicende della sua vita e la fine cruenta. Oggi Vitti ‘na crozza è certamente il più famoso motivo musicale della Sicilia. Il brano fu interpretato da grandi cantanti tra cui l’indimenticabile Domenico Modugno, Carlo Muratori, Rosa Balistreri, Vasco Rossi, Laura Pausini, Carmen Consoli, Franco Battiato, e la cantante pop-rockGianna Nannini.
“Vitti ‘na crozza” (Vidi un teschio) fu registrata per la prima volta su dischi Cetra a 78 giri nel 1951 dal tenore Michelangelo Verso, con notevole successo. L’autore del canto è Franco Li Causi di Porto Empedocle, che l’aveva composto per il film di Pietro Germi, “Il cammino della speranza”, nel 1950. In questa pagina vengono proposte due versioni: la prima è quella cantata da Otello Profazio, il principe dei cantastorie siciliani; la seconda – posta più in basso – è la versione originale cantata da Michelangelo Verso. Come si noterà, quest’ultima versione non include il refrain “lalalalero lalero lallalà”.
Negli anni 1970 si adattò il canto a toni più spensierati, nel solco del clima dei gruppi folkloristici, e adattato a ballata popolare.
Nel 1979 la SIAE ha attribuito a Franco Li Causi i diritti di paternità del brano.
Nel dettaglio la storia della canzone è legata al film di Germi “Il cammino della speranza”
Nel 1950 Pietro Germi si reca in Sicilia per iniziare le riprese del film “Il cammino della speranza” (Terroni, nell’ipotesi iniziale). Ad Agrigento incontra il Maestro Franco Li Causi al quale chiede di comporre “ un motivo allegro-tragico-sentimentale “ da inserire nel film. Nessuna delle proposte del Maestro soddisfa il regista, sin quando a Favara (mentre si svolgevano le riprese) un minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia, recita a Germi una poesia popolare, che comincia così: “Vitti ‘na crozza supra nu cannoni / fui curiusu e ci vosi spiari / idda m’arrispunniu cu gran duluri / muriri senza toccu di campani.”
Germi, affascinato dai versi, chiede a Li Causi di musicarli. “La canzone entra di diritto nella colonna sonora del film così da essere conosciuta in breve tempo in tutta Italia. Verrà conosciuta la canzone, non l’autore della musica, non citato né sulla locandina del film, né nei titoli di testa o di coda: autore delle musiche, di tutte le musiche, risulta Carlo Rustichelli, famoso autore di colonne sonore”. Grazie al film e a un disco fatto incidere da Li Causi al tenore Michelangelo Verso questo “pezzetto sonoro” di Sicilia otterrà una diffusione internazionale.
Paradossalmente, il successo crescente del brano (molti altri incideranno la canzone, che sarà cantata anche da Domenico Modugno) non si accompagna al riconoscimento per l’autore della musica. Al contrario, la canzone, anche in pubblicazioni importanti, passa, erroneamente, per tradizionale, viene, addirittura, segnalata come “ un vecchio canto di guerra siciliano: lo cantarono gli insorti di Garibaldi nella spedizione dei Mille, lo cantarono i fanti siciliani, sul Carso, sul Pasubio, sul Piave”.
Più recentemente di “Vitti ‘na crozza” sono state data altre interpretazioni
In Sicilia, sia le torri dei castelli che quelle di guardia si chiamavano quasi dovunque il cannone, la grande canna, solo che, distrutti castelli a torri, in certi paesi, la parola è rimasta ad evocare una mitica arma da fuoco puntata a minaccia, sull’altura dove invece era il castello.
Al cannone-torre si riferisce il verso “vitti ‘na crozza supra lu cannuni”, che, a chi non sa, fa piuttosto pensare ad un cannone (arma da fuoco) decorato del piratesco emblema di un teschio.
E invece si tratta del teschio di un giustiziato.
Nelle giustizie feudali – anche in Sicilia – si usava attaccare la testa dell’uomo, su cui era stata eseguita sentenza di morte, alla torre del castello; e, se si trattava di un qualche brigante che aveva terrorizzato anche le terre vicine, i “quarti” (di uomo, non di bue) alle porte del paese.
Vitti na crozza supra lu cannuni
fui curiuso e ci vosi spiare
idda m’arrispunniu cu gran duluri
muriri senza toccu di campani
Si nni eru si nni eru li me anni
si nni eru si nni eru ‘un sacciu unni
ora ca su ‘arrivatu a uttant’anni
lu vivu chiama e la morti arrispunni
Cunzatimi cunzatimi stu letto
ca di li vermi fu manciatu tuttu
si nun lu scuntu cca lu me piccatu
lu scuntu a chidda vita a sangu ruttu
Ho visto un teschio sopra la torre
fui curioso e ci volli chiedere
lui mi rispose con gran dolore
sono morto senza rintocchi di campane
Sono andati ,sono andati i miei anni
sono andati , sono andati non sò dove
ora che sono arrivato a ottant’anni
il vivo chiama e la morte gli risponde
Preparatemi, preparatemi questo letto
perchè dai vermi fui mangiato tutto
se non lo sconto quì il mio peccato
lo sconto in quella vita a sangue rotto
Francesco Giuffrida ci fornisce queste informazioni nell’articolo pubblicato sulla Rivista del Galilei del maggio 2009 (n.15). “Ma, scrive ancora Giuffrida, altre questioni ha fatto sorgere la nostra canzone: cosa vuol dire esattamente? Di cosa parla”?
“Vitti ‘na crozza potrebbe essere una ballata formata da tre o più canzoni di cui si sono perse varie componenti. Ma forse si deve proprio a questa possibilità di interpretazioni varie, a questo mistero, a questa serie di allusioni proprie di ‘Vitti ‘na crozza’ se il canto ha subito affascinato. Riporto qui qualche possibilità di interpretazione, che chi naviga in internet già conosce: il cannuni non è un cannone, ma una torre a cui venivano appese le gabbie coi condannati, fino alla loro riduzione in ossa consunte dalle intemperie e dal sole, perchè servissero da monito ed esempio. Ma in nessun dialetto della nostra Isola cannuni ha il significato di torre, torrione o simili; certo, possiamo trovare – per esempio a Mazzarino – l’uso di chiamare la torre del castello ‘u cannuni (il cannone); ma è quella torre a essere ‘u cannuni’ , non tutte le torri e, in ogni caso, la ‘crozza’ sarebbe ‘mpisa e non supra.
Il cannuni non è cannuni, bensì cantuni, che, nelle pirrere del trapanese – cioè nelle miniere, nelle cave – è un concio di tufo, di arenaria, ed anche il luogo di lavoro dei minatori; ricordiamo qui che il Cibardo Bisaccia era proprio minatore, ma dell’agrigentino. È possibile che, imparata la poesia nella provincia di Trapani o da qualcuno proveniente dal trapanese, abbia poi sostituito, in maniera del tutto automatica, il termine per lui senza significato con un termine più familiare.
Ipotesi affascinante – sposta l’attenzione dalla guerra a un disastro in miniera, frequente fino a qualche decennio fa in Sicilia – ma, proprio per l’assenza di raccolte di componimenti poetici, ormai difficilmente verificabile.
In ogni caso, sia che la poesia alluda a fatti di guerra o a disastri minerari o a condannati a morte, stona parecchio quell’assurdo ritornello, il famigerato tirollalleru che nei primi anni ’60 qualcuno infilò tra una strofa e l’altra, consegnando il canto alfilone più ‘turistico’ del folklore siciliano. Ritornello che male si accorda con l’impianto generale del canto, e che induce ad un accompagnamento che si discosta nettamente dalle prime esecuzioni, quelle per intenderci presenti nel film o registrate dal tenore Michelangelo Verso, più vicine agli intendimenti del Maestro Li Causi”.
Oggi una nuove luce viene gettata su “Vitti na crozza”, grazie a un’appassionata donna palermitana, Sara Favarò, cantante, studiosa, autrice di un libro.
Il termine più criptico della canzone è “cannuni”, che, secondo una autorevole interpretazione, sarebbe la corruzione di “cantuni”, termine che, nel dialetto siciliano del centro Sicilia, è la porta, l’ingresso della zolfara.
E proprio dal mondo delle zolfare questo testo emerge dal nulla.
La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso ‘cannuni’ dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un tragico evento di guerra. Ma così non è!
Vitti na crozza, a dispetto del ritornello, un refrain che tradisce una malinconica allegria, “non è una canzone allegra e non ha nulla a che vedere con un vecchio canto di guerra”, spiega Sara Favarò.
“Pochi sanno che sono strofe drammatiche, che riportano al mondo delle zolfatare e ai minatori che morendo dentro le viscere della terra non erano degni di ricevere l’ultima benedizione in chiesa”, spiega Sara.
Protagonista della canzone infatti è una crozza, un teschio che invoca una degna sepoltura.
Una ricerca durata dieci anni quella di Sara Favarò, che ha anche scritto un libro, “La messa negata, storia di Vitti na crozza”.
La canzone dice: “Ho visto un teschio sopra l’ingresso di una miniera, sono stato curioso, ho voluto chiedergli, e mi ha risposto: che gran dolore, morire senza neanche il rintocco di una campana!”.
I minatori, fino agli anni cinquanta del Novecento, non potevano avere, secondo un uso della Chiesa cattolica, né la messa da morto quando perdevano la vita in disgrazia dentro il ventre della terra, né tantomeno l’onore del rintocco delle campane.
Nel 1944 grazie a un sacerdote l’usanza cambiò.
A Lercara Friddi in una miniera ci fu uno scoppio in cui persero la vita undici minatori.
L’allora prete, monsignor Aglialoro, anziché obbedire al dettato della Chiesa, fece suonare le campane a morto, disse la messa, e, non contento, volle scendere giù, in miniera, per andare a celebrare un’ulteriore messa per quei poveri resti che non avrebbero potuto essere esumati.
Il teschio, attraverso il suo racconto, si fa promotore di una denuncia sociale.
Scrive il professore Francesco Meli dell’Università Iulm di Milano nella prefazione al libro: “La storia narrata ha dell’incredibile. Con intensa indignazione Sara ripercorre l’ostracismo perpetrato dalla Chiesa, incredibilmente cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste il teschio della canzone, un semplice rintocco di campana! La pietas verso i defunti non è assente nella classicità e oltre ad essere invocata è non raramente riservata perfino ai nemici: in effetti segnala un passaggio cruciale nell’affermazione di una condizione che siamo soliti definire civiltà”.
“La voce del teschio – sottolinea ancora Francesco Meli – implora che qualcuno riservi anche a lui questa pietas, affinché una degna sepoltura, accompagnata da un’onoranza funebre che lo possa degnamente accompagnare nell’aldilà sia in grado di riscattare i suoi peccati e garantirgli una pace eterna dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata da un lavoro massacrante in un’oscurità permanente…”.
Il testo poetico della canzone viene recuperato guarda caso da un minatore.
Come divenne noto?
La canzone fu composta su testo popolare da un musicista agrigentino, grazie a un’esplicita richiesta del genovese Pietro Germi.
Nel film “Il cammino della speranza” Germi utilizza “Vitti na crozza” come colonna sonora attribuendogli una generica potestà popolare.
In realtà il motivo, riprodotto in migliaia di dischi, ha un autore.
Si chiama Franco Li Causi, direttore di una piccola orchestra agrigentina e solista di chitarra. Questi racconta che nel 1950 il regista gli chiese se, nel suo repertorio di canzoni siciliane, ci fosse un motivo “allegro-tragico-sentimentale” da inserire in un film sugli emigrati siciliani. Le composizioni del musicista però non piacquero al regista che, comunque, invitò il maestro sul set a Favara.
In quell’occasione un anziano minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia, recitò al regista un brano poetico che conosceva a memoria e Germi chiese a Li Causi di musicare quei versi.
La canzone nasce così!. Sul set di un film, grazie all’incontro di una poesia recitata a memoria da un minatore e con l’orchestrazione che ne fa Li Causi.
Ma questa paternità non sarà riconosciuta a quest’ultimo, nonostante il maestro agrigentino avesse inviato subito la composizione in deposito SIAE.
intervista a
Michelangelo Verso, Jr.
figlio del primo interprete della canzone Vitti ‘na crozza Michelangelo Verso,
MV: Prima di tutto, grazie per quest’intervista e per l’onore e l’occasione che mi dà di raccontare una piccola parte della carriera di mio padre e di divulgare la verità dei fatti su “Vitti ’na crozza” che mio padre registrò per primo, nella sua versione originale, in disco CETRA nel 1951.
Qui involontariamente si è creato un po’ di confusione. Mio padre si chiamava ufficialmente Michelangelo Verso, ma quando incise quei brani nel 1951 per la CETRA di Torino, lo consigliarono di mettere un nome più breve sui suoi dischi per essere più facilmente riconosciuto e ricordato, e così mio padre accettò di usare il suo nome familiare, Michele Verso. Invece nel 1952 quando registrò i dischi per la FONIT di Milano, hanno preferito di usare il suo vero nome per esteso. Lo stesso è successo nel 1955 con tutti i suoi dischi che registrò per la COLUMBIA di Mexico e nel 1963 con la PHONOTYPE di Napoli, mentre quando era negli Stati Uniti d’America spesso nei manifesti abbreviavano il suo nome semplicemente in “Michael”, “Mike” o “Michael Angelo”. E a Napoli usarono ancora un altro variante; ho ancora un manifesto del 1952 dove mio padre appare in un concerto vocale con il nome “Angelo Verso” elencato assieme a Mario Abbate, Aurelio Fierro, Di Gilio, Nino Marletti, Franco Ricci e Ennio Romani.
LC: Com’è che fu scelto lui per interpretarla per la prima volta?
MV: Riporto qui sotto il testo che ho scritto io per il libro biografico di mio padre (che ancora devo pubblicare…) e che s’intitola: “Michelangelo Verso, un tenore, un Siciliano nel mondo, il primo interprete di ‘‘Vitti ’na crozza’’”.
Mio padre era solista del Coro Polifonico della Conca d’Oro del M° Carmelo Giacchino che in quegli anni si esibiva regolarmente al Tempio della Concordia di Agrigento e al Teatro Pirandello per la festa (sagra) del “Mandorlo in Fiore” e, in seno al gruppo, si esibiva interpretando dei brani folcloristici siciliani. In una sera di queste lo sentì il maestro Franco Li Causi che subito piacque la voce chiara, limpida, squillante e incisiva e il suo modo di interpretare. Precedentemente era anche venuto a conoscenza dei successi che mio padre aveva ottenuto fino a quel momento; le trasmissioni che aveva fatto per la radio EIAR, la partecipazione ai programmai radiofonici “Rosso e nero” e “Chicchirichì” della RAI, il concerto assieme a Beniamino Gigli al Teatro Massimo di Palermo (alla quale fu prescelto a partecipare da Gigli stesso), le varie opere liriche che aveva già cantato nei ruoli primari, la borsa di studio che aveva vinto all’accademia Chigiana di Siena per perfezionamento nel canto lirico, il grande concerto sinfonico-vocale alla quale partecipò per la commemorazione del Cinquantenario della morte di Giuseppe Verdi nella Basilica di San Francesco di Siena con coro e orchestra diretti dal M° Andrea Morosini assieme ad altri successi per la quale mio padre gli venne attribuito già una certa fama e notorietà.
Franco Li Causi e suo fratello Salvatore (Totò) avevano già realizzato diverse incisioni (tarantelle e mazurche) per la casa discografica CETRA di Torino ed erano quindi abbastanza conosciuti e apprezzati, e non solo in Sicilia. Chiesero a mio padre se volesse incidere con loro alcuni brani che avevano composto. Tra le canzoni che gli presentarono c’era anche quella di “Vitti ’na crozza” che Franco Li Causi aveva composto di recente per la colonna sonora del film di Pietro Germi “Il cammino della Speranza”, con Raf Vallone e Elena Varzi. Mio padre dopo aver ascoltato le canzoni accettò e fissarono la data con gli studi CETRA di Torino per le registrazioni. Fu così che nell’ottobre del 1951 mio padre incise, per primo nella storia discografica, “Vitti ’na Crozza” su disco. Però, prima dell’incisione, mio padre suggerì una modifica al testo della canzone cambiando alcune parole e più precisamente cambiò: “Lu vivu chiama e la morti arrispunni” in “U vivu chiama e u morto ‘unn’ arrispunni” che secondo mio padre “suonava” meglio e che Franco Li Causi accettò ben volentieri. L’accompagnamento era composto di solo tre strumenti: Franco Li Causi al mandolino, Totò Li Causi alla chitarra, e al contrabbasso era stato ingaggiato un musicista dell’Orchestra Angelini. La canzone ebbe un grande successo. Il brano resta, ancora oggi, uno dei canti più storici, simbolici e significativi della tradizione musicale siciliana. Gli altri brani composti da Li Causi, cantati da mio padre, che vennero incisi nello stesso periodo su dischi CETRA erano: “Notte sul mare,” “Dolce sabato,” “Ci rivedremo in costiera,” “Sospirato tango,” e “Ardore.”
LC: Descriva e paragoni le due incisioni di “Vitti ’na crozza” che Suo padre fece (1951 & 1963).
MV: Le due incisioni di “Vitti ’na crozza” del 1951 e 1963 cantati da mio padre sono completamente diverse e registrate anche in un epoca tecnologica molto differente. Quella del 1951 fu incisa su disco a 78 giri nei studi della CETRA a Torino mentre quella del 1963 fu incisa su disco a 45 giri nei studi della PHONOTYPE di Napoli. L’unica cosa che li accomuna è che sono state ambedue registrate in una unica volta (one single take), cioè si potrebbe dire “dal vivo”. Nella versione classica l’arrangiamento fu fatto da Franco Li Causi mentre la seconda versione, più moderna, fu arrangiato dal M° Mario Festa. Anche l’accompagnamento è totalmente diverso; nella prima versione abbiamo come strumenti musicali la chitarra acustica, il mandolino e il contrabbasso mentre nella seconda abbiamo chitarra elettrica, batteria, tamburello, sassofono e flauto. Questa seconda versione di “Vitti ’na crozza” faceva parte di una serie di sei brani che furono registrati sempre con il medesimo complesso (Femar) e arrangiatore. Gli altri brani erano: “Ciuri, ciuri”, “A lu mercatu”, “Tutte si maritaru”, “Giorno di nozze” e “Canto la mia canzone”. Questi ultimi due brani sono stati composti (parole e musica) da mio padre. “Giorno di nozze” lo ha dedicato a me, suo figlio, e “Canto la mia canzone” era in qualche modo una canzone autobiografica che racconta parte della sua vita. Queste canzoni che furono incise sui dischi single a 45 giri per la PHONOTYPE erano destinati anche per i cosiddetti “Jukebox” che in quei anni erano molto diffusi nei bar e discoteche. Sul retro di ogni copertina di questi dischi si vede chiaramente il tagliando, con stampato sopra i due titoli del disco (lato A e B) assieme al nome del cantante, che i gestori dei Jukebox potevano ritagliare per inserirlo nei Jukebox. Ovviamente anche per questo motivo gli arrangiamenti di questi brani furono fatti in una maniera più commerciale e adatto per il “pubblico dei Jukebox”, cioè per quelli che dovevano mettere dei soldi negli Jukebox per scegliere i brani dei 45 giri che volevano ascoltare.
LC: Spieghi la genesi della coda “la-la-la-LE-lu-la-LA-la-la-LE-lu-la-LA,” ecc., che hanno aggiunto alla canzone dopo, negli anni ’60.
MV: Credo che sia stata Rosanna Fratello, alla fine degl’anni ’60, ad aver registrata per primo in un disco a 45 giri la “Vitti ’na crozza modificata”; cioè con questa coda aggiunta. Secondo me lo hanno aggiunto per scopi prettamente commerciali; cioè per rendere il brano più orecchiabile, ballabile e “allegro”, sperando, da parte della casa discografica, in una maggiore vendita e successo del disco. Tutto questo in assoluta contraddizione e opposizione al significato del testo! Molti hanno considerato questo un vero sacrilegio…
LC: C’è molta confusione del vero significato della parola “cannuni.” Significa un cannone, una torre, una cava …?
MV: Devo dire che il significato della parola “cannuni” nel brano ha fatto scervellare non pochi…È stata un’amica di mio padre, la scrittrice e cantautrice Sara Favarò, che ha scritto anche vari articoli a riguardo, a voler ricercare in maniera approfondita e a voler sapere il vero significato di questa parola ambigua. Dopo vari ricerche e anche grazie ad un articolo di stampa apparso su L’ORA del 2 Febbraio 1978, scritto dal giornalista Gabriello Montemagno, che mio padre conservò riguardo la testimonianza di Franco Li Causi e di Giuseppe Cibardo Bisaccia, si è potuto ricostruire come è nato la canzone ed in seguito il vero significato della parola in questione.
Altra interpretazione
Nel 1950 ad Agrigento, il regista Pietro Germi stava girando il film “Il cammino della speranza” e chiese a Franco Li Causi se nel suo repertorio di canzoni siciliane ci fosse un motivo allegro-tragico-sentimentale da inserire nel suo film. Franco Li Causi fece sentire le sue composizioni ma nessuna piacque al regista che comunque lo invitò a presentarsi l’indomani sul set del film che si girava a Favara. Qui casualmente, un anziano minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia, recitò al regista un brano poetico che conosceva a memoria: “Vitti ’na crozza”. Pietro Germi piacque subito il significato di quella poesia e chiese a Franco Li Causi di voler musicare questi versi per il film.
A questo punto sappiamo come sono nate le parole e la musica ma ancora rimane il mistero attorno al significato della parola “cannuni”.
La nostra amica Sara Favarò, dopo vari studi e ricerche approfondite, scoprì alcune cose molto interessanti a riguardo, che riporto solo in parte qui sotto e che lei scrisse in maniera molto estesa e dettagliata nel suo libro “Il Mito” (Roma: Edizione del Giana, 2011) nel capitolo “Vitti ’na crozza” (dalla pagina 10 a 28).
Pochi sanno, che nelle miniere siciliane con il termine cannuni, nella sua accezione di “grande bocca”, si indicava il boccaporto d’ingresso delle miniere. Una grande bocca che inghiottiva gli uomini nelle sue viscere e che, talvolta, non li restituiva alla vita… non c’è dubbio che il teschio oggetto della canzone è alla disperata ricerca della pace dell’anima, irraggiungibile finché una mano pietosa non ne avrà composto i resti mortali, non avrà fatto rintoccare le campane a morte e non sarà celebrata una messa in sua prece. Fino alla metà del secolo scorso in Italia si vietava rispettosa sepoltura a determinate categorie come i suicidi, gli omicidi e, incredibile ma vero, finanche agli attori, per i quali venivano proibite le onoranze funebri in Chiesa e la sepoltura in luoghi consacrati, tant’è che tali categorie di persone venivano sepolte in terra “sconsacrata”. E, in alcune regioni d’Italia, tra le quali la Sicilia, venivano vietati i conforti della fede anche ai minatori che perivano in seguito ad una disgrazia! A questi ultimi, rispetto a tutte le altre categorie alle quali erano vietate le onoranze funebri in Chiesa andava anche peggio poiché, sovente, i loro resti non potevano essere recuperati e rimanevano seppelliti nel ventre della terra e, in caso di scoppio della miniera, anche sbrindellati.
Ci sono diversi fatti connessi agli zolfatari che ci fanno protendere per la tesi che questa canzone sia connessa alla loro triste sorte. Uomini e bambini a cui la vita aveva riservato solo le tenebre. Partivano per andare al lavoro quando il sole non era ancora spuntato e rientravano nelle loro case quando il sole è già scomparso. Una vita di buio! E non può certo parlarsi di rispetto della morte di questi “poveri cristi”, da parte dell’istituzione religiosa cattolica. Uomini che spesso rimanevano travolti e uccisi all’interno delle miniere, in quel fondo di mondo così bene illustrato nell’iconografia cristiana dove si indicava il centro della terra come luogo deputato ad accogliere l’inferno! Per i minatori che avevano la malasorte di morire, schiacciato come un topo, non venivano nemmeno suonate le campane a morto. Usanza che sarà poi modificata negli ultimi decenni di vita delle miniere. Ci sono dei fatti che portano ad escludere che la canzone si riferisce alla guerra. Anche nei casi in cui i militi siano rimasti ignoti e non seppelliti, per loro nessun prete ha mai vietato il suono delle campane o la celebrazione della messa.
vedi anche
http://pensierimeridionali.blogspot.it/2013/07/unintervista-con-michelangelo-verso-jr.html?m=1