Incendio! Incendio! L’ultima notte di Agrigento è fatta splendente dagli incendii : è un’altra città greca che illumina le acque del Mediterraneo perchè Cartagine l’ha data alle fiamme: anche questi templi bruciano dallo stilobate alla trabeazione come altrettante torce: le volute delle fiamme seguono le curve delle colonne in spirali sempre più strette: scrosci e zampilli di faville salgono dove si inabissano le celle, dove crollano gli altari, dove precipitano le statue delle divinità : gli uomini sono appena visibili sull’orlo di questi crateri improvvisati, simili a pigmei, e non ci sono che i loro gesti di terribile ira e di sanguinosa vendetta mentre risuonano le voci di tutto il Mediterraneo barbarico e la gloria e il destino di Cartagine sono un’altra volta salvati. La sconfitta cartaginese di Imera nella guerra contro Akragas e Siracusa è lavata, gli adoratori dei Cabiri trionfano sui fedeli di Giove Polieo, le accette dei mercenari si abbattono sulle mura della città che il volante Pindaro aveva salutato « la più bella città dei mortali ».
In meno di ottant’anni essa è salita all’estrema gloria con la più favorevole fortuna per ricadere nella schiavitù. Considerato come numero d’anni è un pulviscolo di vita nella storia del mondo, un palpito di arterie nella vita delle civiltà di occidente; essa non seppe creare che la bellezza delle sue monete e de’ suoi templi : il tetradramma con l’aquila su un verso e il granchio dall’altro, e il tetradramma con l’aquila che rapisce la lepre e la quadriga sorvolata dalla vittoria: i sette templi che incoronano ancora le colline tra Girgenti e il mare con una selva di colonne doriche. L’incendio e l’ira punica scrosciarono contro le gradinate dei templi senza raderli tutti al suolo; il sangue delle carneficine, la schiuma degli stupri, la frenesia delle enormi mani dei mercenari impugnatrici di lame e trascinatrici di fanciulle, non lasciarono segno sulle monete.
Templi contro il cielo primaverile, contro le colline velate dalle nuvole dei mandorli e dei peschi fioriti : monete che stanno nel cavo della mia piccola mano tremante e brillano di una luce astrale. Templi e monete: bellezza. La più dolce serenità li avvolge con una venerazione stupita di nipoti che si inginocchiano; ma queste colonne furono scalpellate, queste monete fuse mentre tutta l’isola strepitava d’ire fratricide. Questi marmi, questi metalli ricevettero un’impronta più che umana uscendo da un mare immenso di barbarie.
Le battaglie, le atrocità, le schiavitù, gli urti tra popolo e popolo attraverso il mare, attraverso le colline, fondevano a temperature ideali il genio nuovo e intatto dell’uomo, gli permettevano di creare per l’eternità.
I secoli che risparmiarono fino ai nostri giorni le colonne del tempio detto della Concordia e le monete famose, sembrano confermare nella tradizione le caratteristiche degli uomini che erano accusati di «mangiare come se avessero dovuto morire il giorno dopo e di fabbricare come se avessero dovuto vivere in eterno».
Io mi figuro benissimo l’agrigentino Gellia e, stamane, mi parve di riconoscerlo in un barbuto uomo che, all’ombra di un uliveto, scherzava con tre ragazze magre e scontrose e calde come cavalle di puro sangue. Fingeva d’essere il medico, appoggiava l’orecchio satiresco a punta sul petto di una di esse distesa sul letto, dalle coltri argentee creato dai rami degli alberi potati; aveva mani, risate, occhiate ingorde per tutte. Egli quarantenne, brizzolato; le ragazze diciottenni nerissime : richiamate intorno alla sua bruttezza e alla sua chiassosa volgarità dal fascino che chiama le allodole canore nel volo del falco.
E questo Gellia ricchissimo, per le strade lastricate della sua città ricca di cavalli e di donne stupende, ornata di tempii splendidamente colorati e di monumenti — mirabili, affollata dagli stranieri e dalle merci di tutto il Mediterraneo non credeva negli Dei, nella patria, nelle libertà. Credeva soltanto nella vita come in una sorgente di bellezze e di sensazioni rinnovate ad ogni istante.
Nessuno aveva ben capito fin dove potesse arrivare il suo cinismo distruttore : non credeva nell’ostilità dei cartaginesi, nelle minacce che incombevano sulla patria, non temeva. le forze che il suo amico e concittadino Empedocle fissava ai cardini della scienza.
Portava intorno la sua sorridente e illusa filosofia: gli schiavi guadagnati alla battaglia di Imera gli avevano adornato la città con la timida premura gelosa delle ancelle
che preparano la fanciulla per lo sposalizio,— i mercenari Spartani e Campani sull’Acropoli facevano buona guardia meglio dell’Olimpio Giove invocato da Pindaro a tutela d’Agrigento.
Gellia si accontentava di accumulare le belle monete, e i vini generosi, e i cavalli frementi e il pingue olio dei suoi uliveti sterminati nella fastosa casa che cittadini e stranieri soprannominavano officina di munificenza.
La sua bruttezza era difesa da uno spirito alacre e da una pungente ironia, la sua prodigiosa ricchezza da una generosità senza pari che aveva ospitato una volta cinquecento cavalieri di Gela donandoli di clamide e di tunica.
Se la felicità può esser segnata e visibile essa era segnata e visibile in quel claudicante Gellia negatore di Dei, quando teneva tra le mani un vaso decorato a satiri danzanti visibilmente e generosamente virili e appoggiava il capo precocemente calvo nel grembo di una fanciulla profumata di cinnamomo.
L’aria tersa come stamani, la primavera alle porte, sui cornicioni dei templi e delle case le colombe che confondono le bianchezze delle ali con quelle lontane dei frangenti attorno alle triremi che salpano.
Poi la guerra dei cartaginesi imbaldanziti dalla vittoria che tre anni innanzi ha raso al suolo Selinunte e ha riempito Agrigento dei primi spaventi e dei primi profughi.
L’assedio dura otto mesi, troppo per un popolo senza soldati che doveva proibire alle scolte designate per la difesa notturna delle mura di aver seco più d’una coperta, di un materasso e di due guanciali. I grandi condottieri cartaginesi che preparano nei secoli le fortune e le armi di Annibale combattono con migliaia e migliaia di mercenarii armati a prezzo di moneta e di bottino sul barbaro Mediterraneo dell’Iberia, della Libia, della Fenicia, della Numidia, della Mauritania, stormi senza disciplina e senza bellezza, arieti che cozzano contro drappeggi di seta.
Incendio! Incendio! L’ultima notte di Agrigento è fatta splendente dagli incendii. I riflessi illuminano con un’ironia tragica ;che ha la voce profetica di Cassandra, le statue sul frontone occidentale del tempio di Giove dove c raffigurata la presa di Troia.
I mercenarii dell’Acropoli hanno tradito : l’esercito dei cartaginesi può riserbare la sua violenza e la sua forza intatta per la grande notte, per la illuminata notte, per la sonora ; notte del bottino.
I gesti andarono in frantumi; i gesti delicati e raffinati di una società che elevava monumenti ai cavalli vittoriosi, agli uccelli allevati dalle fanciulle nelle gabbie, le lussuose abitudini di un popolo che accolse i cittadini vincitori nei giuochi olimpici come generali trionfanti. Vi sono in queste improvvise crisi della storia molli fiori che in un momento sono stroncati.
Delicate cose, fragili creature, infinite bellezze si consumavano sui roghi accesi e divampanti di collina in collina. Bisogna vedere al Museo quella Venere che esce dal bagno, piccola e stupenda statuetta di una trasparenza carnea, quella fanciulla vestita d’un abito tutto a pieghe che regge una colomba sulla mano, le decorazioni dei vasi dove i giovani giuocano al cottabo, le fanciulle alla palla, leggere e se-allevati dalle fanciulle nelle gabbie, le lussuose abitudini di un popolo che accolse i cittadini vincitori nei giuochi olimpici come generali trionfanti.
Vi sono in queste improvvise crisi della storia molli fiori che in un momento sono stroncati. Delicate cose, fragili creature, infinite bellezze si consumavano sui roghi accesi e divampanti di collina in collina. Bisogna vedere al Museo quella Venere che esce dal bagno, piccola e stupenda statuetta di una trasparenza carnea, quella fanciulla vestita d’un abito tutto a pieghe che regge una colomba sulla mano, le decorazioni dei vasi dove i giovani giuocano al cottabo, le fanciulle alla palla, leggere e seminude come Nausica; le donne stanno al telaio, gli uomini guidano le quadrighe.
Bisogna vedere i frantumi di una civiltà ridotta in ceneri che possono stare in un pugno come le ceneri di Cesare per capire quale dovesse essere la violenza delle ondate cartaginesi quando superano la cinta delle diroccate mura e invasero la città.
Gellia, che assomiglia alla sua città, che è l’espressione più schietta del suo popolo, l’uomo che ama la dolcezza del tempo antico e ne parla come Talleyrand dopo la Rivoluzione, il grande epicureo barbuto e claudicante assume, nella fuliggine degli incendii crepitanti, l’aspetto di Vulcano fucinatore di armi.
Conosce a mente come Empedocle i versi del divino Omero e le misure metriche delle Pizie di Pindaro Tebano: sa come si cucinino le triglie e i dentici, distingue al tatto le porpore di Tiro da quelle di Sidone : potrebbe raccontare storie piccanti e insegnare agli stessi punici taciturni e impenetrabili, segreti di voluttà raffinatissime; Amilcare, Giscone, lo risparmierebbero per ereditare da lui l’arte della vita. C’è ricchezza per tutti nelle case, vini da inebriare tutti i mercenarii nelle sue cantine, olii da detergere ferite di frombolieri Balaari e di arcieri Numidi.
Ogni mestiere sa fare, tranne combattere, tutto possiede tranne un’arma. Egli ha veramente nascosto dentro di se il pugnaletto del suo coraggioso e squisito spirito greco-siculo temperato d’ironia e il veleno dell’aristocratico disprezzo che il filosofo può puntare contro il cuore dei giganti.
Egli ha un gesto per tutti : mentre la città si va sommergendo sotto la scalata cartaginese e al gran tumulto della prima onda succede una pausa anche più terribile di spaventoso silenzio, Gellia si richiude nel tempio di Minerva, carico di tesori, circondato da tutta la famiglia dei suoi servi; imitato dai cittadini più cospicui; egli stesso dà fuoco al tempio prima che le orde di Amilcare abbiano potuto sfondare la porta e invaderlo.
Un’altra sentinella del mondo Europeo crolla con Girgenti di fronte all’ostinazione di Cartagine che ha già portato la guerra dall’Africa sul suolo della Sicilia, che la porterà fra poco su quello dello stesso Lazio. Si direbbe che il mondo sta per diventare africano; ma gli adoratori dei Cabiri hanno tutte le forze e le fortune della dominazione.
Non hanno il cervello che ha saputo creare la colonna dorica. Questi templi agrigentini concedono a Roma il tempo di maturare in silenzio alla sua immensa rapina e la sua formidabile vendetta : la formula della loro bellezza è eterna, gli incendii non la intaccano, le armi si spuntano contro la sua durezza diamantina.
Girgenti, febbraio.
RAFFAELE CALZINI
In Il Secolo 24 marzo 1925