Per stabilire l’entità e l’ubicazione del così detto Tempio di Ercole, dimenticando per poco Concordia, e poggiandoci sull’autorità di Cicerone, così bisognerebbe ragionare : Nelle città marittime il mercato, la piazza, il foro, per quanto è possibile, suole collocarsi vicino al mare per l’agevole svolgimento dei traffici e del commercio ; e il foro di Agrigento, seguendo la consuetudine delle più opulenti città, doveva esser posto non assai lungi di Porta Aurea, ch’era uno dei più comodi sbocchi che facilmente portavano alla vasta pianura di mezzogiorno (Campo romano) poi al, mare. E poichè Cicerone assicura nelle Verrine, Lib. V, N. che non lontano dal Foro vi ha in Agrigento il tempio di Ercole : Hercùles templum èst ap Agrigentinos non longe a Foroi sane sanctus apud illos et religiosum., è da còncludere che il tempio a lui dedicato fosse appunto, quello che si trova prima di Porta Aurea, vicinò al quale doveva esserci il Foro, che per quella porta facilmente comunicava col mare.
Di questo parere, fra i tanti, è l’illustre Houel, membro dell’Accademia reale di Parigi nel suo Voyage pittoresquè de la Sicile (Debris du temple d’Hercule): La situation de ces debris nous fait voir que ce tempie etoit site dans un endroit où on avoit taillé dans la route che un large chemin qui conduisoit de la ville au port. Ce chemin ce fermoit par une porte don il ne subsiste plus rien. Elle s’appello Orea.
Parlando noi del tempio della Concordia abbiamo sostenuto con l’autorità della cronaca di Leonzio, che quel tempio non alla Concordia, ma piuttosto ad Ercole si appartenesse, tanto più che nello sgombero del 1832-33 presso il tempio detto di Ercole fu rinvenuta una statua marmorea di Esculapio, che potrebbe indurci a credere che a lui fosse consacrato il maestoso edificio anziché ad Ercole.
Checché ne sia di questa divergenza di opinioni, e lasciando la questione agli eruditi e agli archeologi, diciamo che, partendo da oriente verso occidente, dopo di avere incontrato i tempii di Giunone e della Concordia, passando dinanzi a parecchie tombe incavate entro al mura della città, una catombe dell’epoca cristiana, e rasentando l’orlo della rocca, c’imbattiamo in un immenso ammasso di rovine eh ci stringe il cuore : è il così detto Tempio di Ercole.
Il deplorevole abbandono in cui, per molti secoli, furono tenute le nostre Antichità fece che i delubri delle già rovinate s’interrassero ed erbe e cespugli ed alberi financo vi si abbarbiccassero in mezzo e all’intorno e in tal guisa da tenerle come sepolte. In questo stato ce le presentano le antiche incisioni, così ne trovò il regio pittore I. Houel, e l’archeologo Politi, che pubblicò la sua Guida agli avanzi d’Agrigento nel 1826, non potè darci le dimensioni dell’Ercolte.Fu nel 1832 che se ne ordinò lo sgombero, allora la pianta del tempio si presentò in tutto la sua grandezza. Sorgeva sopra un piano a cui si accedeva per quattro gradini di ferro, perittera ed esastile, con pronao ed esistodomo in antis, aveva quindici colonne ai due fianchi e ne contava in tutto trentotto, alte quattro metri e mezzo, composte di quattro pezzi o tamburri, oltre al capitello; e il diametro di ogni colonna era di metri due e centimetri ventuno all’imoscapo, di metri uno e centimetri cinquanta al sommoscapo.
Tutta la lunghezza del tempio con i gradini del lato orientale conta metri 73,992; la sua larghezza metri 27,788: troppo lungo, invero, in proporzione della larghezza, per cui si aveva un carattere speciale, che spiegherebbe la ragione, onde la parte posteriore della cella sembra divisa in tre spazii successivi. Era assai più grande dei due precedenti, di Giunone e della Concordia, e minore solo al tempio di Giove Olimpico, di cui parleremo, e gareggiava col Partenone di Atene. Gli avanzi della trabeazione conservano ancora qualche traccia di pittura, e noi già acennammo a quei suoi frammenti dai vivissimi colori, che, insieme ad altri dei templi di Castore e Polluce, possono visitarsi nel Museo di Palermo e ammirarsi designati a colore nel volume 3°, tavola XVII della grande opera del Duca di Serradifalco e in quell’altra (L’Architettura nella Storia) del Prof. Melani. In fondo alla cella si vede tuttavia il piedistallo, dov’era collocata la sopracennata statua di Esculapio di grandezza minore del vero, che al presente adorna il museo di Palermo.
Fra l’immenso cumulo di quei massi, solitario, a guisa di vigile sentinella dei ruderi, si alza maestoso un incompleto fusto di colonna, che par ci dica nel suo eloquente silenzio e col divin poeta :
Vedi oggi mai quant’esser dee quel tutto
Ch’a così fatta parte si confaccia.
E veramente dalle proporzioni di essa ci è facile argomentare la meraviglia del tempio. Selon les proportions de la seule colonne, dice Hauel nel suo « Voyage pittoresque de la Sicile > gui soit ancore sur pied, il est avere que ce tempie etoit beaucoup plus grand que ceux, dont j’ai donné les dessins. E fatta eccezione di quella solitaria colonna, tutto intorno è maceria che riempie di stupore e di mestizia: stupore e mestizia che, certo, non prova quel frettoloso viaggiatore che con occhio fugace guarda dalla parte di tramontana quella mutilata colonna. Bisogna entrarci in mezzo a quelle rovine, esaminarle attentamente per restarne sorpresi. Che immensità di massi, di capitelli, di burri di colonne negligentemente ammonticchiati gli uni su gl’ altri, nel vasto campo, e dove pare che dormano il sonno dei molti secoli su di loro trascorsi !
Quale potenza potè vantarsi di abbattere questo gigantesco edificio ? Fu la edacità del tempo, l’abbandono degli uomini, un colossale incendio, o piuttosto il terribile terremoto che nel 1401 stramazzò al suolo i tre giganti del Giove Olimpico ? Certo a compiere l’opera nefasta ci dovettero concorrere e l’uomo e la natura, e nell’immane distruzione le colonne del lato orientale caddero nella direzione di sud-est, quelle del lato meridionale nella direzione di sud, quelle del lato occidentale nella direzione di nord, e quelle finalmente del lato settentrionale caddero alcune all’infuori, altre in seno dello stesso tempio; e solo nel lato nord la quattordicesima colonia rimase in piedi nell’altezza di tre tamburri s’innalza come torre in quel mucchio di rovine, fra cui si vedono gli avanzi della cella e delle due scale nel grosso del muro, come quelle della Concordia.
Probabilmente è questo il tempio, in cui fu trovato il rinomato quadro di Zeusi rappresentante Ercole bambino in atto di strangolare due serpenti, mentre il tonante Giove se ne sta seduto in trono circondato d’altri dii, e mentre la madre Alcmena ed il padre Anfitrione lo guardano sorpresi e trepidanti. Magnificus racconta Plinio Lib. 35, cap. 9 § 619, est luppiter eius in trono, astantibus diis, et Ercules infans dragones strangulans, Alcmena matre coram pavente et Anphitryone; pittura stupenda che l’autore aveva donato agli Agrigentini, convinto, com’era, che qualsiasi prezzo non ne avrebbe mai compensato il valore: Donare opera sua instituit, ci assicura Plinio, quod ea nullo satis digno predo permutari posse diceret.
Qui era la famosa statua di bronzo, la più bella che Cicerone abbia mai visto, logora nella bocca e nel mento per i tanti baci ricevuti : Ibi est, dice nel sopra citato libro, ex aere simulacrum ipsius Herculis, quo non facile quid- quam dixerim me ridisse pulcrius usque eo, ut rictum eius ac mentum paullo sit attritius, quod in precibus et gratulationibus non solutn id venerari, rerum etiam osculari solent.
Tante ricchezze non potevano sfuggire alla ingorda rapacità del pretore Caio Verre. Ed ei tentò rubarle per mezzo di Timarchide, caporione di molti servi armati, che di nottetempo irruppero nel tempio ed assaltarono la preziosa statua. La lotta fu terribile fra i guardiani del tempio e gli scherani di Verre. Alle grida e al chiasso si destarono i vicini, i quali diedero l’allarme, ed allora…. allora, narra Cicerone, non vi ebbe persona in Agrigento nè di sì cagionevole età, nè di forze sì deboli che in quella notte, alla notizia che si volevano rubare i patrii dii, riscossa non si levasse di letto e non desse di piglio a quelle armi che il caso a ciascheduno presentava. Si accorre al tempio e si trova che la statua era stata già divelta dal suo piedistallo. Si viene alle mani, e con armi, bastoni e sassi i ladri furono messi in precipitosa fuga. Onde argutamente fu detto dai nostri padri che tra le fatiche di Ercole quella contro Verre fu la più atroce e da paragonarsi solo con l’altra che l’eroe sostenne contro il cignale Erimanto.
Il tempio di Ercole di Agrigento, per le sue colossali dimensioni, per la purezza del suo stile e la diligenza della esecuzione va, senza dubbio, annoverato tra i migliori eretti nei prosperi tempi.
Girgenti 1913
Canonico Giuseppe Russo, La Siciliana, n.3-4,marzo-aprile 1913, Avola