1. Nella mia « Spiegazione Storica delle Monete di Agrigento» (1) ho interpretato, fra gli altri, i simboli di due monete, che hanno relazione con la topografia dell’antica città; e propriamente nel capitolo I ho dimostrato che l’emblema granchio è il simbolo rappresentativo del dio-fiume Akragas, e nel Cap.VIII poi, illustrando la bellissima moneta, che porta in una faccia l’immagine di un granchio e di una sirena, ho giudicato che questa seconda figura mitologica, messa accanto al dio – fiume, agrigentino per eccellenza, rappresentato dal granchio, non possa alludere ad altro che al secondo fiume esistente nella nostra costa, a quello che da Polibio venne indicato col nome di Ipsas. Confortavo questa spiegazione con osservazioni e rilievi fatti sopra il dipinto di un vaso esistente nel Museo Archeologico di Agrigento, e dal confronto della moneta e del vaso scaturiva chiaramente che l’ Akragas è il fiume di Agrigento o di S. Leone e l’ Ipsas il Fiume di Naro.
Alcuni danno una spiegazione diversa ai due simboli mentovati, spiegazione, che io ritengo assolutamente erronea.
Egli è perciò che mi preme di ripetere le cose dette su tale riguardo per far conoscere meglio il vero significato delle figure simboliche create dagli Akragantini.
L’Holm, nella «Storia di Sicilia nell’antichità» traduz. dal Lago e Graziadei — pag. 291, 352 e altrove, e Schubring nella «Topografia storica di Agrigento», traduz. Toniazzo—pag.114,186 etc. vedono di accordo nella figura di quel crostaceo marino il simbolo della religione di Nettuno e della navigazione. Per conto mio, ritengo che il granchio, con le sue gambe storte e brevi e col suo incedere lento, non è stato mai giudicato simbolo della navigazione, ed al contrario, in una comunicazione fatta al « Congresso Internazionale di Scienze Storiche », tenutosi in Roma nell’Aprile del 1903 (ved. gli atti del Congresso) ho dimostrato che i Greci, nella plastica in genere, e nelle monete in ispecie , rappresentarono la navigazione ed il commercio marittimo mediante due figure simboliche adattatissime: il cavallo marino e la pistrice.
Il cavallo marino è rappresentato da testa, collo e groppa del cavallo comune, cioè di quell’animale che in origine fu il mezzo efficace di trasporto delle mercanzie da un luogo all’ altro, e si taceva finire in pesce per dinotare che esso solcava le onde. La pistrice è rappresentata da un cavallo marino, a cui sono state aggiunte le ali — le vele delle navi — per dimostrare che essa vola sulle acque e trascorre rapidamente il mare — nel trasportar le mercanzie.
Mi sembra chiaro che questi due animali simbolici si prestino bene a rappresentare la navigazione, il trasporto delle merci attraverso i mari; mentre il granchio, dall’andatura lenta, ed annidato sempre sotto le pietre in vicinanza della riva del mare, non si presti affatto. Nessuna città diede quel significato al granchio, e mi pare molto difficile che solo Agrigento, la città commerciale per eccellenza, sia potuta andare contro il sentimento comune..
In quanto alla religione del dio dei mari notavo nel Cap. VIII che i Greci rappresentarono sempre le dodici divinità maggiori sotto forme umane, attribuendo loro fisonomie cosi proprie e marcate che Ovidio diceva : sua quemque Deorum inscribit facies…
Per contro rappresentarono le divinità minori in una triplice maniera: ora con forme umane, ora sotto l’aspetto di quell’animale che ad esse era maggiormente caro, talvolta sotto le forme miste di uomo e dell’animale preferito. I Greci appresero tal costume forse dagli Egiziani, con la differenza che costoro simboleggiarono con forme miste anche i loro Dei maggiori, mentre i Greci limitarono quel modo di rappresentazione alle sole divinità minori.
Per tal motivo Neapoli, Gela, Catana, Alunzio ed altre città effigiarono i loro sacri corsi d’acqua sotto gli aspetti di uomo, di bue, e di bue col volto umano; e precisamente in questa triplice maniera troviamo effigiato il dio-fiume agrigentino. Generalmente esso appare sotto le forme di un granchio: però in un bronzo bellissimo ha le sembianze di un giovanetto col distintivo speciale della personificazione dei corsi d’acqua, le piccole corna in fronte, come nelle monete di Catana, Camarina, Megara, ecc.; ed in una rarissima moneta di argento è rappresentato di prospetto con faccia umana, giovanile, imberbe, ai lati della quale si innestano le gambe e le chele o tenaglie del granchio, formando cosi nell’insieme la figura di un granchio col volto umano.
Ebbene, basterà osservare questa triplice rappresentazione per dovere rigettare in modo assoluto la versione dell’Holm e dello Schubring, e chiarirci come non sia ammissibile che gli Agrigentini abbiano potuto rappresentare così un nume potente ed iroso, il fratello maggiore di Giove.
2. La mia spiegazione a primo aspetto sembra piana e chiara, eppure abbisogna di un’ulteriore giustificazione, perchè sin dai tempi del Fazello (2) (quattrocento anni fa) si è discusso circa l’identificazione dei fiumi agrigentini cui accenna Polibio, e gli eruditi hanno fatto a gara per dire ciascheduno la sua, venendo a conclusioni diverse e discordanti. Diviene davvero un problema arduo il solo volerne tentare la soluzione. E di fronte ad un dibattito parecchie volte secolare, di fronte a un copioso numero di versioni diverse, sostenute da veri e sommi archeologi, ho dubitato io stesso se la mia spiegazione del vaso e della moneta non sarà convenientemente apprezzata. Da questa convinzione è nato in me il desiderio di volerlo meglio giustificare.
3. Un esempio flagrante lo abbiamo nella «Topografia Storica di Agrigento» dello Schubring: l’Illustre professore di Lubecca dichiara di essersi trattenuto in Agrigento due mesi soli (3), pur ammettendo che Agrigento dopo Roma ed Atene, conserva gli avanzi più numerosi e più importanti di tutta la classica antichità (4).
Ebbene, io osservo; i turisti sanno veder tutto in una sola giornata; ma quando si tratta di un archeologo, il quale debba osservare ed esaminare con attenzione ogni monumento; prenderne le misure fino al millimetro; quando si voglia percorrere 1’area occupata d’all’antica città, ed il giro delle sue mura; attribuire i nomi a tutti i tempii e monumenti, che si vedono, ed indovinare il sito di quegli altri, che non sono stati ancora esplorati; quando si vuol penetrare nei centro di acquedotti, come lo Schubring dice d’aver fatto; e si assume di avere esplorato tutto il territorio circostante all’antica città per giudicare sull’ esistenza o meno di grossi sobborghi, e per ismentire Plutarco, relativamente alla Neapoli agrigentina, ecc. ecc.; in tale ipotesi no, sessanta giorni son troppo pochi, e non possono bastare.
Noi Agrigentini siamo gratissimi all’Illustre Professore per il suo interessamento alle cose nostre; giudichiamo il volume di lui un lavoro insuperabile di erudizione; ma la topografia non si fa sui libri e a tavolino, bensì sui luoghi, e non possiamo fare a meno di rilevare gli errori in cui è incorso e concludere perciò che quel libro, come lavoro di topografia, è riuscito necessariamente quello che doveva, un lavoro affrettato.
4. Ed oltre alla mancanza di un’esatta conoscenza dei luoghi io noto, un altro difetto presso gli scienziati, e più specialmente poi presso quella pleiade di dilettanti, che ne hanno seguito le orme. In genere essi credono di risolvere le questioni di topografia mediante l’audizione, sicché i loro lavori si presentano sovraccarichi di citazioni, ma senza confronti o controlli sui luoghi. Tale sistema si dimostra da sé stesso erroneo solo a pensare che nessuno degli scrittori antichi fece mai un lavoro di topografia, e — mi si lasci passare la frase — nessuno mise mai in carta o in marmo una forma urbis….. Agrigenti, ma, accennando a monti, fiumi e città, ciascuno mirava sempre ai fini del proprio argomento.
Certamente non dobbiamo trascurare lo studio dei classici, e sarebbe un paradosso il solo annunziarlo; ma quando si viene all’attuazione pratica, adatteremo i testi alla natura e condizione dei luoghi, senza pretendere — come purtroppo è stato fatto — che monti e colline si pieghino o scompariscano, che i fiumi si inerpichino in salita per potersi meglio adattare ai testi, o più propriamente a quella interpretazione, che essi ne danno.
I luoghi sono oggi quelli che furono due e tre mila anni fa; la spiaggia del mare avrà potuto internarsi o allontanarsi di pochi metri; in qualche tratto il fiume cambiare il suo letto, e qualche grosso blocco delle rupi avrà potuto distaccarsi e ruzzolare in fondo alla valle; ma non ostante simili piccole varianti, l’aspetto generale della contrada è rimasto pur sempre quello stesso che era nei tempi antichi.
Ed al contrario, non vi ha nulla di più semplice che una falsa interpretazione dei testi, specie da parte di chi, vivendo lontano dai luoghi, nello studiare le opere degli antichi deve fabbricarsi con la propria fantasia quei monti, valli, pianure e fiumi a cui i testi accennano. E non .è solo giuoco di fantasia; ma vi concorre anche il fatto non infrequente di quelle alterazioni commesse dai copisti e dai copisti dei copisti, dalle quali nessuno scrittore antico è andato esente. Pertanto, nel caso di alcuna contraddizione fra quello che si riscontra nei luoghi e ciò che ne dicono i testi, daremo la preferenza ai luoghi e non ai testi : questo mi pare di un’evidenza inconfutabile.
5. Per dare un’idea delle aberrazioni seguite in fatto di topografia agrigentina citerò qualche esempio: il Prof. Sebastiano Crinò era insegnante nel ginnasio di Agrigento, allorquando la « Rivista Italiana di Numismatica» pubblicava il mio lavoro sulle monete di Agrigento: volle leggere quei fascicoli, volle da me spiegazioni a voce, e si convinse che il fiume di Agrigento, formato dal Drago e dal suo influente S. Biagio, corrisponde ad un solo dei due fiumi mentovati da Polibio; ed altresì che i due fiumi mentovati da Polibio non possono essere altri che il fiume di Agrigento e il fiume di Naro, i soli che esistono nella nostra costa.
Però, ignaro dei luoghi, e non sapendosi allontanare di una virgola dal testo relativo, in una comunicazione fatta al Congresso Geografico di Napoli nel 1904, sostenne, che il fiume di Agrigento perché scorre a ponente dalle antiche mura deve essere l’lpsas, ed Akragas il fiume di Naro.
Quella versione lo conduce alla seguente enormità: secondo Polibio Agrigento sorgeva a 18 stadi dal mare; secondo il Crinò, in conseguenza, la città sorgeva nelle vicinanze della foce del fiume di Naro.
Però la teoria dei nostri tempii e tutti gli altri monumenti e ruderi si trovano qui nell’altipiano situato alle falde della Rupe Atenea. Non importa — dice il Crinò — vuol dire che la città sorta sulle rive del Fiume di Naro spostò il suo centro nella parte occidentale, e prese sviluppo nel pianoro della civita.
Ebbene, il sito dell’antica città dista dalla foce di Fiume di Naro 6 chilometri circa nei punti più vicini e 12 nei punti più lontani, ed in tutto il piano intermedio non esistono avanzi di antica città.
Pertanto domanderei al Sig. Crinò: E come ha fatto la città a percorrere tutta quella distanza senza lasciare traccia del suo passaggio? — Nei pressi di Fiume di Naro non si trovano ruderi né avanzi di antiche fabbriche; le case e i tempii fabbricati in principio furono forse estirpati dalle fondamenta e trasportate altrove?
6. Fa il paio con questa la versione data da un giovanotto per la sua tesi di laurea. Anche lui comprese che i due fiumi nominati da Polibio non possono essere rappresentati dall’unico torrente col suo influente, che scorre sotto le antiche mura: quello dev’essere un fiume solo, il fiume caro ai cittadini, quello che avrebbe dato il nome alla città, l’Akragas; e dice bene.
Poi pone il secondo fiume ad occidente; ed egli senza sospettare la possibilità di una alterazione nel testo, va a cercarlo in quella direzione, e si ferma al primo vallone, che gli capita, a quello delle Canne: esso è distante non meno di 8 – 10 chilometri; nel terreno intermedio non si riscontrano avanzi di antica città; è un vallone senz’acqua e non può meritare il titolo di fiume, eppure tutto questo non può preoccupare la mente di quel giovanotto, perché Ipse dixit che l’ Ipsas deve trovarsi a ponente, e allora le acque che mancano le supplisce lui, supponendo che nei tempi antichi il Drago si dovesse scaricare nel vallone delle Canne, e non riflette che il nostro fiume per fare ciò avrebbe dovuto superare salite fortissime e di parecchi e parecchi chilometri per raggiungere il versante opposto.
7. Altri pretendono che il fiume di Favara o di S. Biagio non sia esistito nei tempi antichi, e si sia formato nelle occasioni dei vari assedii, ad opera dei Cartaginesi e dei Romani, allorquando venivano praticati i soliti fossati per ricingere gli accampamenti, e noi abbiamo assistito, durante l’immane guerra, alla escavazione di trincee ben più importanti dei valli antichi; pure non abbiam visto formare alcun fiume nuovo. A parte che costoro non ci spiegano poi che cosa se ne sarebbe fatto dell’ acqua piovana, che colava giù dall’altipiano di Grotte e S. Benedetto, e dai colli di Caltafaraci. S. Biagio, ecc.
8. Alcuni, non sapendo trovare sui luoghi i fiumi cosi. come sono descritti nel testo di Polibio, ricorrono al Deus ex machina, supponendo una rivoluzione tellurica, la quale ha rispettato e lasciato in piedi le sottili colonne dei nostri
Tempi ma poi ingoiando colline esistenti e sollevandone delle nuove, ha potuto far deviare il corso dei fiumi. Una rivoluzione tellurica in epoca posteriore alla venuta di Polibio in Agrigento, e della quale non si dovette conservar memoria.
E si ricorre a tutto questo giuoco di fantasia, e persino ad un cataclisma, per non far succedere un cataclisma di minor importanza, quale sarebbe quello di supporre un alterazione nel testo di Polibio da aggiustar in modo più rispondente ai luoghi. Via, si tratta di alterazioni che non vale la pena di confutare, ma che giova rammentar per richiamare l’attenzione altrui alla realtà delle cose ed evitarne così la reiterazione.
9. La verità è questa : che fino a tanto non saranno stati fatti scavi e ricerche con ordine e sistema scientifico, la topografia dell’ antica Agrigento deve limitare le sue indagini alle sole linee generali; a ciò che si deve e si può controllare senza sforzi di fantasia nè sforzi di erudizione.
Volentieri lascio libero il campo ai dilettanti per litigare intorno al nome da attribuirsi ai nostri tempii ed agli altri monumenti; per indovinare il sito in cui dovessero giacere il ginnasio, lo stoa, l’ippodromo, la piscina e simili; per saperci indicare — come è stato fatto il sarcofago in cui venne seppellito Annibale, la tomba del medico Acrone e quella di un cavallo di Terone e per dirci dove si trova nascosto il toro di Falaride et similia.
Nel trattare la materia, tanto per avere una norma, seguirò la ripartizione fatta da Polibio nel descrivere l’antica città: il sito della stessa, ed il giro delle sue mura, l’acropoli, i fiumi, coordinando a tali argomenti principali ben trenta capitoli.
Spesso mi occorrerà di ripetere osservazioni fatte nel trattare delle monete di Agrigento; e la cosa mi sembra naturale in quanto che l’uno e l’altro lavoro si riferiscono entrambi alla storia dello stesso paese.
Farò tesoro di molte osservazioni e rilievi fatti da me personalmente ed indicherò luoghi e ruderi che nessuno ha mai rilevato.
Credo doveroso altresì di riportare alla fine della monografia le parti principali del Cap. VIII della «Spiegazione Storica di Agrigento» perché è giusto in un lavoro di topografia far notare ed insistere sempre più sopra ciò che risulta in proposito dai due documenti storici menzionati, il vaso e la moneta agrigentina.
In fine non credo di seguire la moda, venuta dalla Germania, di chiamare i luoghi e le divinità antiche coi corrispondenti nomi greci: noi siamo latini, e dai tempi di Dante in qua li abbiamo sempre chiamati Giove, Nettuno, Marte e non già Zeus, Poseidòn, Ares.
Con tali intendimenti entro in argomento.
(1) «Rivista Italiana di Numismatica e Scienze affini», Milano, A. 1902 e A. 1904.
(2) Nato a Sciacca nel 1498 e morto a Palermo nel 1570.
(3) Op. cit. pag, 20
(4) Op. cit. pag. 50
Michele Caruso Lanza, Osservazioni e note sulla topografia agrigentina, Agrigento, 1931, pp.9-18