“Col tornare del caldo e della stagione balneare, torna di attualità occuparci di San leone, la ridente spiaggia così vicina e tanto cara agli agrigentini e particolarmente al popolo lavoratore. La villeggiatura a San Leone per qualche mese o la breve quotidiana gita per il bagno costituiscono per essi la più ambita ricompensa alle fatiche di un anno, ed uno svago salubre e ristoratore.
Spinti da questo naturale, meraviglioso impulso, gli agrigentini negli ultimi decenni hanno trasformato l’antica piccola borgata in una fiorente stazione balneare; sono sorti numerosissimi villini e casette, caffè e ristoranti, capanne e locali di divertimento e non è mancato, per qualche anno prima della guerra, anche il cinematografo all’aperto ed ogni anno nella ricorrenza del Ferragosto, viene organizzata a cura di alcuni volenterosi una festa a carattere popolare che da alla spiaggia per questi giorni una particolare attrattiva, con grande afflusso di gente. E’ in via di sostituzione una grande società che costruirà lo stabilimento balneare, albergo e locali di svago”.
Così descriveva San Leone, il lido degli agrigentini, un cronista del Giornale di Sicilia ben settanta anni fa.
Era da poco finita la guerra e anche gli agrigentini riscoprivano le vacanze al mare.
“Alla fine degli anni ‘40 ma anche fino alla metà degli anni ‘50, i ragazzi si recavano a San Leone a piedi. In comitiva si programmava la giornata con panini e uova sode ( ma anche frittata di patate) e in allegra compagnia – ricorda l’artista Andrea Carisi – Le case erano soltanto quelle del lungomare e qualcuna più indietro. Strada con il manto asfaltato perché quelle interne erano tutte in terra battuta. Le onde si frangevano sugli scogli lasciando intorno l’odore della salsedine. La spiaggia più frequentata era la “babbaluciara”. L’unico stabilimento balneare era su palafitte di legno, si chiamava lo Chalet”.
Un lido che aveva in quegli anni anche figure che sono poi rimaste scolpite nella memoria degli agrigentini, come il pescatore “Giarracanà”.
“U zi Peppi Giarracanà era una figura uscita pari pari da un racconto di Hemingway ; il viso scuro scavato dalle rughe, il corpo asciutto leggermente incurvato, come fermato nel plastico gesto del lancio del rizzaglio. Vestiva sempre una canottiera e dei pantaloni sdruciti raccolti sul ginocchio. Non gli ho mai visto indossare un paio di scarpe, al loro posto gli faceva da suola, un compatto strato calloso. Lui e i suoi fratelli, erano gli ultimi rappresentanti della vecchia San Leone: un borgo di pescatori, di gente che viveva del loro pescato, nutrendosi di esso e vendendolo di porta in porta”, ricorda Franco Tedesco che lo conobbe molto bene quando era ragazzo.
Lella Maldonato tornava da Milano ogni estate a San Leone in quegli anni del dopoguerra con la famiglia. Ricorda che anche allora il ferragosto in spiaggia era un appuntamento atteso da tanti giovani: “La notte di Ferragosto si era ripeteva il rito delle “Vampe “. Si dava fuoco a covoni di paglia che, bruciando, illuminavano gruppi di ragazzi che saltavano, rincorrendosi nel buio sulla spiaggia e sul mare”. A San Leone si organizzavano le serate ferragostane con semplici ma divertenti giochi popolari come la gara delle pignatte, la corsa con i sacchi e le gimkane automobilistiche. Notevole era il coinvolgimento di partecipanti. Un richiamo di pubblico festoso e spensierato.
La guerra era alle spalle. Gli agrigentini riscoprirono a San Leone in quegli anni il piacere di essere comunità e di crescere insieme.
Elio Di Bella