Nel 1912 su invito di un suo amico, un dottore palermitano, il poeta Guido Gozzano visitò la Sicilia, dove non era mai stato.
Dopo un soggiorno a Palermo si spostò ad Agrigento, in cerca di pace. Era stato poco tempo prima in Oriente (nell’isola di Ceylon e in India soprattutto) molto provato dai disagi e dai clima. Ad Agrigento trova un po’ di pace.
«Da qualche giorno vivo nell’incanto della Magna Grecia. Tra le ruine dell’antica Acragante, la bellissima tra le città mortali: la patria di Terone e di Empedocle vergognandomi in cuor mio di essere giunto quasi a trent’anni ignorando quella gloria del nostro cielo, della Sicilia».
in un altro berillo così ancora il poeta:
«Una bellezza che nessuna forma d’arte potrebbe rifare senza farne un’oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile che muta realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo di quest’Isola si sono fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore quell’unica forma».
Fonte Vincenzo Faraci, Gozzano in Sicilia, in Giglio di Roccia, primavera 1964, n.22, pp. 21-22
Quel viaggio viene ricordato da Gozzano nel racconto “L’altare del passato”. Riportiamo alcuni brani: “Da anni Miss Eleanor svernava in Sicilia, non ritornando alla vasta contea brumosa che a primavera inoltrata. Su quel colle dominante Girgenti si era spento suo padre, vari anni prima, e la giovinetta deforme si era votata a quel cielo, a quel mare, sui quali si profilavano, come sopra due zone di cobalto diverse, i più intatti esemplari dell’arte italo-greca: i templi famosi che erano stati la passione e la gloria, forse la morte immatura, dell’archeologo illustre.
Lord Quarrell aveva appartenuto a quella schiera d’inglesi devoti e ferventi che unirono le loro fatiche e il loro nome ai più illuminati intenditori italiani; e che fecero della Magna Grecia la loro patria ideale. A Lord Quarrell dobbiamo l’esumazione di due tra le più belle metope di Selinunte: Minerva che uccide un gigante, Diana che fa lacerare Atteone; a lui dobbiamo l’assetto definitivo di tutto il tempio di Demetra, la ricomposizione di uno degli Atlanti frantumati e dispersi che reggevano l’architrave del tempio d’Ercole. Rimasta sola, la giovinetta deforme si era votata a quella terra sacra, aveva fatto costrurre a mezzo dei colli, tra gli uliveti e gli aranci, di fronte ai templi famosi, la casa della Buona Sosta: Good Rest-House, bizzarra casa e ben modesta per chi aveva un gusto d’arte perfetto e possedeva in Inghilterra un castello elisabettiano ed un’intera provincia.
Un bungalow di una semplicità elementare, ad un solo piano, tutto bianco, aperto da vetrate immense sull’intero orizzonte. Nell’interno l’assenza raffinata d’ogni stile: bianco il pavimento, il soffitto, le pareti; legni candidi e smalti candidi, pochi mobili, nessun sopramobile; una sola eleganza: fiori e piante di tutti i climi e lo scenario del cielo, del mare, dei templi, offerto dalle immense vetrate” .
E poco dopo leggiamo: “Ero a Girgenti da quasi un mese ed ogni giorno salivo alla “Buona Sosta”, per sentire la mia amica parlare di queste cose singolari. Giunto da un lungo viaggio in Oriente, disfatto dai disagi e dai climi, alterato dalla sciagurata abitudine degli ipnotici, avevo scelto quel soggiorno prima di risalire in Piemonte; anche per consiglio d’un mio caro Amico siciliano, il dottor Gaudenzi, il quale m’aveva fatto osservare che dopo aver pellegrinato il Giappone e la Papuasia un italiano può anche visitare l’Italia. E da un mese vivevo nell’incanto della Magna Grecia, a Girgenti, tra le ruine dell’antica Acragante, “la bellissima tra le città mortali”, la patria di Terone e di Empedocle, vergognandomi in cuor mio d’esser giunto quasi a trent’anni ignorando, quella gloria del nostro cielo…
Eravamo nell’atrio, tutto rivestito di capelvenere. Dinnanzi m’era lo scenario che godevo da un mese e che mi sembrava di vedere ogni giorno per la prima volta. Il declivio verde di aranci, costellato di frutti d’oro, poi l’azzurro del mare, l’azzurro del cielo; e su quell’orizzonte a tre smalti diversi, i più divini modelli che l’arte dorica abbia, col Partenone, tramandato sino a noi. Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d’Era con la sua fuga di venti colonne erette e di venti colonne abbattute, e, più oltre, il Tempio d’Ercole, ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e Polluce: tutte le sacre ruine che Agrigento spiega a sfida tra l’azzurro del cielo e del mare: ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre, di frantumi divini.
Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava “il mio tempio”, il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l’unico intatto fra dieci altri abbattuti, l’unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno.
– No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra “i monumenti infernali dell’idolatria” per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell’invasione saracena. E l’edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d’Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l’architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto Empedocle.
– Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori.
– Il gregge! Il gregge dell’Abazia! – Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, – il gregge dell’Abazia! Guardate che incanto!
Dall’interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d’improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla “fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s’affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s’attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall’uno all’altro, tra l’abbaiare dei cani.
– Non rimpiango d’essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai millenni; con i labari immensi che s’agitavano al vento e la folla che affluiva nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la bellezza che piace a me, la bellezza che strazia!
– È straziante anche il vostro albergatore, – interruppe ridendo la mia amica. – Vedo una réclame di più.
In fondo, ai piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un’erede poverella, biancheggiava l’immenso cubo dell’Hôtel d’Agrigento, e sulle pareti candide, sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi.
– E che cosa fanno all’HÔtel?
– Mi dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani.