Quasi tutta la terra in Sicilia era in mano a soli 2000 proprietari nella prima metà dell’Ottocento.
Afan de Rivera in “Pensieri sulla Sicilia al di là del Faro” [Napoli 1820, p. 34] scriveva che i 4/5 dei terreni siciliani erano latifondi.
Le zone che contavano più feudi erano le province di Palermo, Girgenti e Caltanissetta.
Questi erano di proprietà di 142 principi, 788 marchesi e circa 1500 baroni. La chiesa cattolica possedeva in Sicilia nel 1860 1/10 (un decimo) dell’intero territorio agricolo dell’isola, con 230.000 ettari.
Ferdinando IV decretò (su pressione dell’Inghilterra, di cui era alleato subalterno) la fine del diritto feudale, ma lasciò praticamente immutate le smisurate proprietà di origine feudale dei nobiluomini ed ecclesiastici. Anzi, la fine del feudalesimo consentì, paradossalmente, ai latifondisti di mettere mano alle vecchie “terre comuni”, ingrandendo ancora di più i propri possedimenti.
Dopo il 1812 i baroni si ritirarono nelle grandi città siciliane, lasciando i feudi in affitto tramite un contratto a gabella a guardie.
I gabellotti a loro volta lasciarono in affitto piccoli pezzi di terra a poveri contadini (chiamati coloni o borgesi). Inoltre i gabellotti assoldarono ladri e banditi senza scrupoli e li fecero entrare nelle Compagnie d’Armi per far da guardia ai terreni. Queste Compagnie erano comandate da un capitano, che si impegnava a difendere il feudo dietro grossi compensi.
I campieri invece andavano in giro a cavallo armati di fucile e compivano qualunque sopruso contro i contadini e i pastori (chiamati anche pecorai).