un’inchiesta di Paolo Monelli del 1964
Per il viaggio in Giordania mi portai meco due guide, la Storia naturale di Plinio e la Geografia di Strabone. Qui in Sicilia mi ha servito di guida il libro delle poesie di Quasimodo. Scendendo da Enna verso Piazza Armerina fra ondulazioni modeste, senz’alberi, ho traversato aride valli spruzzate qua e là delle, macchie rossogialle delle zolfare; era alto il sole nel cielo, una primavera già calda, ancora per poco verdi le colline armate da dure creste rocciose, senz’altre ombre che di cacti e di fichi d’india e di grandi nuvole trapassanti; e ne ritrovai subito la descrizione nel libro : « Pianure dove lo zolfo – era l’estate dei miti – immobile ».
Sono calato ad Agrigento, alla Valle dei Templi, vento spirava dall’Africa, rinfrescato dal viaggio marino. C’era un grande concorso di gente intorno al tempio della Concordia, perfetto esempio di architettura dorica; l’ignoto architetto del quinto secolo a. C. seppe con un sottile ritmo di curvature inclinare le colonne del peristilio verso le pareti della cella di quel minimo che bastò a dare al tempio una sovrumana armonia. Ma la folla sul prato intorno e in cima alla gradinata e fra le colonne, tutti vestiti di nero gli uomini, tutte di bianco le donne, si vedeva bene che non era accorsa per desiderio dell’antica bellezza.
E’ antico costume che vengano a questo tempio il giorno del matrimonio i nuovi sposi per auspicio di felicità e di fortuna: quattro coppie ce n’erano quella mattina, arrivate quasi contemporaneamente, ciascuna con il suo codazzo di parenti ed amici; giovanissimi coniugi, una sposa addirittura bambina, minuscola nonostante i tacchi altissimi, aggrappata al braccio dell’adolescente marito serrato in uno smochinghino lugubre.
Forse vennero qui a far l’amore di notte, da fidanzati; la notte i templi che nessuno sorveglia sono con la buona stagione un brulicare di coppie che odiano la luce, e ogni tanto spaccano a sassate un riflettore. Un capitolo importante di spesa per la Soprintendenza alle antichità è quello per ripristinare le lampade; e si è dovuto mettere una copertura ai pozzi dorici (forse come si dice del pozzo della Sibilla a Marsala, chi ne beveva l’acqua conosceva l’avvenire) dal giorno che un inglese che s’era seduto sulla sponda di uno di essi, cadde riverso all’indietro e ci morì. (« Che futuro – ci può leggere il pozzo – dorico, che memoria? Il secchio lento – risale dal fondo e porta erbe e volti – appena conosciuti »).
Adesso il sopraintendente ha in animo di recingere tutta la zona, un tre chilometri quadrati, con cancelli da chiudere la sera per escluderne innamorati e vandali. « So già che mi troverò contro tutta la cittadinanza, — dice, — ma nessuno immagina come siano fragili queste colonne fatte di una arenaria che il vento marino divora, ed è gran miracolo che siano ancora in piedi ».
Mi son lasciato adietro la gente andando al tempio di Giove Olimpico, vastissimo campo di ruderi di quello che era forse il più grande tempio dorico dell’antichità. Così colossale era, che a sostenere la gravissima trabeazione non bastò sostituire al peristilio un muro scandito da mezze colonne; sì che fra l’una e l’altra colonna l’architetto collocò per sorreggere l’architrave enormi figure di giganti, i telamoni, con le braccia inarcate all’altezza del capo e un’iperbolica gonfiezza di muscoli. (« Là dura un vento che ricordo acceso – nelle criniere dei cavalli obliqui – in corsa lungo le pianure, vento – che macchia e rode l’arenaria e il cuore – dei telamoni lugubri, riversi – sopra l’erba »).
A Selinunte
Due giorni dopo ero a Selinunte. Qui è ancora solitudine augusta e altissima quiete. Scende un fiumicello pigro al mare fra l’acropoli e la necropoli, fra alte erbe. («La terra moriva sulle acque – antiche mani nei fiumi – coglievano papiri »).
Ma dalla parte ove sorgono i templi orientali avanza anche qui una lebbra di nuove costruzioni: le più frettolose sono ormai giunte presso la casa del custode, uno sgraziato serbatoio d’acqua a fungo, un caseggiato prepotente a tre piani. Con tanta campagna vuota intorno non si capisce perché proprio addosso ai ruderi si voglia costruire, sia pure con l’intento di offrire ristoro ed alloggio ai visitatori che ci si augura aumentino ogni anno; ma vale per tutti questi luoghi l’argomento che ho già messo avanti per Pesto e per Agrigento: è possibile che gli italiani siano diventati tutti cosi stupidi in questo campo, che non ci sia un sindaco, un ente del turismo, un gruppo di cittadini intelligenti ed influenti che ammaestrino che il fascino di questi luoghi sta soprattutto nell’essere abbandonati ed ermi, che questi templi con le poche colonne rimesse in piedi e il groviglio al suolo di mura, di capitelli, di architravi, di tamburi di colonne abbattute, sarebbero poco più di una catasta di ruderi senza senso, se non li isolasse il silenzio dei secoli e la vuota campagna tornata com’era prima che vi approdassero coloni greci a costruirvi templi e abitazioni, e come tornò ad essere aspra e incolta, dopo che i cartaginesi e arabi e terremoti distrussero le altre città?
A Tindari
Anche a Tindari ritrovo il vento che dà il titolo a una delle più belle poesie di Quasimodo (« Tindari, mite ti so – tra larghi colli pensile sull’acque – dell’isole dolci del Dio »). La poesia l’hanno incisa tutta sopra una lapide murata sul fianco dell’edificio piccolo e basso della Soprintendenza alle antichità, a poca distanza dal cancello d’ingresso agli scavi. Due innamorati, come ho dedotto vedendoli procedere avvinghiati, scesi da una rossa macchina da corsa, sostano a lungo davanti alla lapide, certo per tutto il tempo necessario per leggersi tutta la poesia, e ritrovare nei versi arcani la voce di questo vento che viene dal sud, da un viluppo di vapori e di montagne nere che celano alla vista il dio del luogo, l’Etna ancora carico di neve, e aizza basse sul promontorio frettolose nuvole. Il vento agita le fronde degli ulivi dei pini e dei cipressi, ne suscita un melodioso fruscio; ma restano immobili le agavi e i fichi d’india, e si capisce, sono di un’altra parrocchia, intrusi ancora a tre secoli dal loro arrivo in questa terra mitica.
Attendo con curiosità che i due innamorati si voltino, terminata la lettura; penso che vi leggerò sul viso un rapimento che li farà più degni di varcare il cancello (accanto al quale c’è un cartello che dice: « E’ assolutamente vietato mangiare nell’area dei monumenti»), di giungere lungo il decumano fino al teatro, di esaltarsi dai gradini più alti della cavea di fronte all’immensa veduta, agli « aerei precipizi che dirupano giù giù con una rovina di rocce fino agli stagni che orlano il lido marino. Ma i due innamorati non si voltano; scendono di due o tre metri più a sinistra, sempre con il viso contro il muro tutto graffito d’innumerevoli nomi, C. Sfamemi, Enzo Mesiti, Patti Franco, Adelmo Ciminno, Turi Pastore, Alfio Esposito, e altri e altri, qualcuno deve aver portato una scala per incidere il suo nome più alto degli altri. E rigorosamente separati dai nomi maschili, come si conviene, quelli delle donne non meno numerosi, Rina, Fina, Isabella, Pina, Luigia Antinea, Ada Zani, Mina Pattani… I due innamorati hanno trovato lo spazio libero, si sono disgiunti per incidere ciascuno il suo nome.
Sul promontorio di Tindari, dove cessa la strada per le automobili, c’è un paesetto che deve essere sorto quando le ricerche degli archeologi erano ancora rare, e dove non affiorava nulla non si pensava che si potevano trovare scavando avanzi importanti; e cosi l’agorà della città greca sta appunto sotto le case più alte del villaggio e non si è potuta portare alla luce. Ma dove finiscono le case vecchie del villaggio eccone una nuovissima, che occupa un nuovo tratto di terreno prezioso. Bisogna dire che chi si è costruito questa casa è un untorello al confronto di quello che ha fatto e sta facendo più a basso non so quale ente o istituto, che ha raccolto un miliardo e mezzo di lire da « generosi benefattori », e altri oboli attende « senza grettezza »; sul margine della zona degli scavi, anzi invadendo lo spazio vitale, se posso dir così, della cinta muraria del quarto secolo a. C.
C’era a Tindari fino a ieri, sul lato sud-est del piazzale del Belvedere che confina con gli scavi, sul culmine del promontorio, probabilmente sul luogo dell’antica acropoli, un santuario del secolo XVI, che della costruzione più antica conserva tuttora il portale; nel quale si venera la statua miracolosa di una Madonna nera venuta dall’Oriente, mèta di pellegrinaggi dalla Sicilia e dalla Calabria. L’edificio modesto appena si vedeva da lontano fra le rupi del promontorio, si era adattato perfettamente ai ruderi antichi, alle colonne e alle volte della Basilica del primo secolo.
Ma ora accanto e addosso al vecchio santuario ne è sorto uno nuovo, enorme, che preclude tutta la vista del cielo e del mare; in quello stile anodino che vorrei chiamare « stile periferia »; sormontato da una immane cupola che riproduce le linee delle cupole d’angolo di certi palace-hòtels dell’inizio del secolo. E immediatamente più sotto, lungo l’ultimo tratto della strada per le automobili, hanno tirato su un ancor più badiale edificio a tre o quattro piani, con una fronte lunghissima, chiamato « il palazzo dei convegni »; che incombe sulle bellissime mura greche, proprio nel tratto ove appaiono più nobili e meglio conservate.
Non c’è speranza che il citato ente o istituto intenda arrestarsi a questo punto; si parla di un ospizio per pellegrini, di un grande albergo, di ristoranti, tutti addosso al santuario o a pochissima distanza da esso. Scomparsa è Tindari « pensile sull’acque ». Sgominato per sempre è l’incanto di questo che era deserto paradiso, ravvivato dalle nostalgie del poeta « assorto al vento dei pini ».
Paolo Monelli, Che resta di Tindari ?, La Stampa, 8 maggio 1964