La luna officiosa spargevami il suo placidissimo lume sulle silenziose ed ineguali campagne, e giunsi alle ore 2 della notte all’alpestre Girgenti.
Fui accolto da D. Paolo Abela Console di Malta, e di varie nazioni.
Il giorno 11 al dopo pranzo andai coll’antiquario D. Michele Vella per la città fino alla Cattedrale, e vennero meco D. Paolo Abela e D. Vincenzo Trapanesi. Osservammo primieramente nell’archivio della Cattedrale un bel vaso greco-siculo che fu donato al capitolo da D. Gregorio Gamez con obbligo di farlo vedere a’ forastieri. Egli è certo un bel vaso per la grandezza; io però son uso a vederne a Napoli dei maggiori eziandio; e per la forma, e per le pitture non è paragonabile a quelli di Capo di Monte.
La spiegazione che in iscritto me ne diede l’antiquario, dicendomi essere fatica del suo maestro il Barone Ettore, mi fece accorto immediatamente dell’ignoranza d’amendue. Imporocchè dicea lo scritto; esservi figurato l’invitto Ulisse che nell’inferno consulta Tiresia pe’ suoi dubbj; e nel lato opposto i compagni suoi che al Circeo furono in porci trasformati. L’antiquario di suo marte aggiungeva, che Tiresia era la madre d’Ulisse. Io subito ravvisai nell’uomo barbato, e seduto a scranna collo scettro, e con una corona d’alloro il biondo Menelao, e dietro di lui Elena in piedi col vaso della famigerata Nepente (1) in mano. Stassi innanzi al trono di Menelao il giovanetto Telemaco armato di rotondo scudo argolico, di setoso elmetto e di lunga lancia, dietro cui si vede Mentore che rivolgendosi parla con Pisistrato figlio di Nestore e compagno de’ viaggi di Telemaco. Pisistrato dietro le spalle tiene sospeso il pileo odeporico assai malamente figurato nel vaso, ed impossibile a distinguersi nell’infedelissima traduzione fattane in rame col disegno di Salvatore Ettore, e col bulino di Nicolò degli Orazj.
Questo rame fu dal P. D. Giuseppe Maria Pancrazj inviato all’eruditissimo D. Paolo Maria Paciaudi, e la spiegazione ch’egli ne fece con molta dottrina, si è l’originale, da cui trassero il Barone Ettore, e il Vella infedelmente quelle poche e mal disposte parole. Se Paciaudi errò, merita scusa essendone fallacissima la copia, nella quale invece d’una raddoppiata tenia, indizio d’un tempio, o d’una casa reale si figurò un piccolo palladio sospeso alla parete, e lo scettro col fior di loto sulla punta divenne una fiaccola che vibra due lingue di fuoco, onde ingannato il dottissimo uomo da sì menzognere apparenze non potè riconoscere la vera storia, ch’io subito raffigurai, per essere similissima ad altra pittura d’un vaso Italiota posseduto dal cavaliere Hamilton, e da me a Napoli studiato ed inteso.
Passammo quindi a vedere il celebre sarcofago,
il quale ora serve di recipiente all’acque battesimali, e da dorate tavole è ricoperto. Le dispute de’ letterati, e de’ dotti viaggiatori, e le ambagi, e le dubbietà senza fine eccitate dall’intemperante critica mi tennero lungamente sospeso fra la caccia di Meleagro, Fedra ed Ippolito, e la storia di Fintia tiranno d’Agrigento, che con infelice applicazione, e piena d’insormontabili difficoltà fu tratta in campo da ultimo per accordare tutte quattro le facce del sepolcro.
sarcofago di fedra 1892Fa d’uopo osservare che la prima fronte, e il lato destro sono d’alto rilievo, il lato sinistro e la parte opposta alla fronte sono di basso rilievo, cosicchè mi cadde in mente, che fossero due sarcofagi insieme riuniti, o due storie insieme confuse dallo scultore. Più mature considerazioni m’indussero da sezzo a credere una la storia, ed uno il sepolcro situato in qualche angolo, dove del parallelogrammo i due soli lati apparissero, e gli altri due nell’angolo del muro restassero occulti.
Ma come accordare l’apparecchio e la caccia del cinghiale, il dolore della donna, e il giovane dagli atterriti destrieri gittato dal carro, e fralle ruote colle gambe infelicemente ritenuto e trascinato a morte?
Chi non vede Meleagro nell’apparecchio e nella caccia? Chi non ravvisa Fedra ed Ippolito nell’altre due facce? Io questa sola storia finalmente vi rinvenni, e così la discorro. Nella fronte figurasi Ippolito che stassi in atto d’irne alla caccia, e seco ha molti compagni di Teseo armati di noderose clave, e molti cani e cavalli. Una femminuccia, ch’io credo la nodrice di Fedra col fuso in mano vorrebbe pur ritenerlo, ed ha consegnata ad Ippolito una quadrangolare tavoletta di cera, ossia lettera di Fedra.
La scultura si è malamente ritocca in quel luogo, e nulla offre di ben distinto. L’Eroe casto e pudico rivolge il capo e mostra compassione più che sdegno dell’incestuosa fiamma della matrigna, e sembra in atto di consegnare ad un vicino amico, senza leggere, la tavoletta. Nella faccia destra è figurata la miserabile Fedra in mezzo a nove compagne, che diresti quasi le nove Muse agli stromenti che tengono due di loro fralle mani; e ben si vede che colla voce e col suono tentano alleviare il dolore della profonda piaga, che per ordine della vindice Ciprigna stampò nel petto della figlia del Sole lo scaltrito Cupidine qui rappiattato sotto la sedia, e pronto a mettere la freccia sulla cocca traendola della faretra, che sugli omeri gli pende. L’atto di Fedra è di molta espressione, e pieno di abbandono tenero e di malinconia amorosa, rivolgendo ad Oenone languidamente il bel collo e gli occhi moribondi, e puntando la destra sulla sedia; mentre una damigella le ritiene il braccio sinistro sotto il gomito e presso all’ulna con leggiadrissima attitudine.
sarcofago di fedra 1892
La parte opposta alla fronte del sarcofago si è la caccia d’un ispido ed arruffato cinghiale contro cui l’animoso Ippolito vibra dal cavallo una lancia, e l’azzannano molti cani, ed altri quattro cacciatori lo combattono con pietre molari, coll’asta e colla spada. Questo è basso rilievo e non bene finito; così pure si è la faccia opposta a Fedra, dove scorgesi l’infelice Ippolito trascinato da’ suoi medesimi corsieri, e fra le ruote, e fra le redini miseramente ravvolto. Un mostro marino, di cui non troppo bene si discerne la forma, e fa d’uopo ammiccar molto gli occhi per distinguerne alcune squame intorno al collo tumido d’ira, alzasi al paro de’ cavalli, e gli costringe ad arretrarsi e confondersi e cadere l’un sovra l’altro.
Un compagno d’Ippolito a cavallo, e sarebbe, giusta Racine, il buon Theramene, in vano s’affatica di ritenere con molta forza la briglia d’uno de’ quattro cavalli d’Ippolito,
mentre il suo stesso impennasi per lo spavento. La confusione è tale, che tutto pare in un gruppo stranamente avviluppato e rivolto sossopra, nè si sa dove sia il carro fracassato, di cui solo le ruote ed il timone appajono. Io sono persuasissimo che questo sarcofago non merita le sperticate lodi che pur gli diedero Riedesel, e Brydone, e convengo con Houel, e De Non della sua mediocrità in generale, ed inclino a crederlo apografo d’eccellente originale.
Swinburne non si decide fra’ dubbj degli antiquarj, che non è molto arduo distenebrare con accurata disamina, e ciecamente accorda quelle lodi al sarcofago, che non merita per la sua mediocrità nell’esecuzione. Inoltre è palese, che fu ritocco, e questo in più luoghi da imperita mano, cosicchè il suo pregio d’assai viene a scemarsi per tutte queste considerazioni, e non può entrare in contesa colle opere de’ Greci ne’ migliori tempi della scultura, che che ne abbiano predicato gli enfatici suoi encomiatori. Nulla dirò d’altri minori sarcofagi che appena meritano un’occhiata, e furono ciò nonostante disegnati dal diligente Houel.
Si fece l’esperimento dell’eco,
per cui s’intesero già le confessioni dall’apparatore, che sul cornicione della Chiesa stavasi dietro la gloria nell’ultima tribuna girata a mezzo tondo. Qualunque sommessa parola si pronunzj presso la porta principale, o poco lungi di là presso le colonne, si riflette all’orecchio di chi stassi sul cornicione nel luogo additato, e alcune io ne sommormorai, che mi furono ripetute in chiaro suono, e di molte cose addimandai il mastro, e ne ottenni prontissima ed acconcia risposta.
L’artificio del semielittico tetto che lungo sarebbe descrivere produce quelle varie riflessioni, e que’ centri fonecamptici sì moltiplicati, per cui giunge la parola all’ultima ritonda tribuna, e vi è intesa. Più dell’eco artificiosa ammirai una Madonna col Bambino di Guido, se pure non è della Sirani sua discepola valentissima, di cui ritoccava Guido le pitture con molto amore. Il bambino sembrami senza fallo del maestro, la Madonna tiene più del fare della Sirani.
Andammo poscia alla Biblioteca, che Monsignor Luchesi fece ornare di bei operati plutei, e d’elegante architettura, ed arricchì di buoni libri, e d’un medagliere, dove rinvenni un Pescennio latino, e molte bellissime medaglie greche, sicule, puniche, imperatorie ec. da me per lungo uso assai conosciute. Il Pescennio è falso, come tant’altri da me veduti, e bene avvisò Vaillant, che dove leggesi ΥΟΥΣΤΟΣ, in vece di ΔΙΚΑΙΟΣ, appare ad ognuno la falsità nella greca parola malamente latinizzata. In occidente non fu riconosciuto Pescennio, che fermatosi ad Antiochia, perdè poscia nell’Asia la vita e l’impero.
Carlo Castone Della Torre di Rezzonico, Viaggio della Sicilia, Como 1815