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agrigento piazza stazione e viale della vittoria
agrigento piazza stazione e viale della vittoria

La voglia di vivere ad Agrigento negli anni Cinquanta. Il racconto di Daniel Simond

2 Aprile 2017 //  by Elio Di Bella

agrigento piazza stazione e viale della vittoria

Agrigento fu denominata Girgenti dopo la dominazione araba, ma riprese il nome romano nel 1927.

Le sue  vecchie case, si spingono di basso in alto, a ridosso del duomo, dove, per gli Agrigentini, il più importante tesoro non è il sarcofago di Fedra e Ippolito a cui si è fatto cenno, ma l’autografo del diavolo. Si tratta di una lettera che Satana in persona avrebbe indirizzato, secondo gli uni, ad un prete che voleva corrompere, e secondo altri ad una pia fanciulla che desiderava sedurre. Non ho avuto l’onore di esaminare l’originale dell’autografo, ma delle fotografie che mi sono state mostrate non ho visto che uno scarabocchio illeggibile.

 

La vita ha abbandonato il quartiere alto e si è riversata al disotto della vecchia e interessante abbazia di Santo Spirito il cui portale è di stile Chiaramonte, del XIII secolo.

Una lunga e sinuosa arteria attraversa obliquamente la città, concentrando qui il commercio e tutto il movimento, la via Atenea. Davanti ai caffè, alle botteghe di barbiere, i giovani commentano le notizie sportive, parlano dell’ultimo film di Rossellini o ammutoliscono al passaggio di una bella ragazza che, con gli occhi bassi, accompagna la madre. I notabili discutono di politica, le massaie corrono per le compere. Tutti si conoscono, si salutano festosamente, si abbordano in cerca degli ultimi pettegolezzi, si guardano, senza averne l’aria, a vicenda studiandosi. Anche lo straniero di passaggio è subito notato ed ogni richiesta di indicazione viene soddisfatta con estrema gentilezza.

Commercianti, artigiani, maggiorenti, funzionari, grossi proprietari terrieri, tutte le classi si mescolano nella via Atenea, dove passano anche gli operai che tornano dalle miniere di zolfo e i contadini che, come già si è detto, preferiscono abitare in città.

Passata la via Atenea, nel quartiere popolare, che attraversa via Garibaldi, ho potuto purtroppo constatare, il basso livello della vita di queste persone che per via appaiono noncuranti e felici. Mi è stato mostrato un mucchio di catapecchie, su una terrazza di terra battuta dove fra polli e gatti giocano una quindicina di bambini.

Vedo ancora il pianterreno di una di queste : una stanza profonda e scura, una specie di autorimessa, abitata da una famiglia di sei persone. Come palco, qualche lastra di pietra rozza. Niente acqua, niente luce, niente gas, nemmeno il camino.

catoio
catoio

La madre cucina in una specie di braciere le cui emanazioni invadono la camera prima di uscire dalla porta o dall’unica soprastante finestra. L’illuminazione è data da una lampada a petrolio. L’acqua viene attinta dalla fontana. Non si parla affatto di riscaldamento. Ogni sera si ricoverano i polli nella stanza per sottrarli ai ladri. In fondo ad essa si intravedono alcuni miseri giacigli dove bambini e genitori sono costretti a dormire in una promiscuità inimmaginabile. L’arredamento è costituito da un cassettone logoro, un tavolino, qualche seggiola e degli sgabelli. La biancheria viene riposta nelle valige, gli abiti” appesi alle corde del bucato. Mi informo sulle condizioni della famiglia: il padre, malato di cuore, non può lavorare. Ci sono tre bambini piccoli da allevare. La madre è esaurita per il lavoro domestico. Tutta la famiglia vive dunque del magro salario che il figlio maggiore guadagna alle miniere. Esistono casi simili a centinaia.

 

Tuttavia (è una combinazione?) sono stato di rado assalito, in Sicilia, dalle torme di mendicanti che sono la piaga di tante città del continente. Mi si assicura, comunque, che Agrigento non è affatto una città povera.

«Non è logico comparare — mi diceva un economista romano che stava compiendo degli studi in Sicilia — non è logico comparare la vita di qui con quella degli abitanti dell’Europa centrale. Il clima e, per conseguenza, i bisogni indispensabili di benessere e di nutrimento, sono troppo diversi. In Sicilia, durante quasi tutto l’anno la stagione è bella. La giornata viene trascorsa all’aria aperta, le persone vivono con poco: di sole, d’acqua, di pane, d’olive e di pesci. Basta andare in Africa per rendersi conto di che cosa sia la miseria.

Ad Agrigento il popolo è povero, ma in relazione la disoccupazione è minima, al contrario di altre regioni nelle quali infierisce tale piaga.

agrigento fontana di bonamorone

 

«Qui, aggiungeva, il problema più urgente è quello dell’acqua. La popolazione sta aumentando in modo impressionante, dopo la guerra, e le sorgenti vicine non bastano più al fabbisogno. Bisogna cercare di costruire nuovi acquedotti, il che richiede lavori considerevoli e una forte spesa.

Agrigento ha sofferto molto in seguito ai bombardamenti; restano, lei l’ha visto, parecchie case e caserme sventrate. Delle scuole, il liceo, per esempio, è stato completamente distrutto e gli alunni sono costretti ad usufruire, provvisoriamente, degli insufficienti locali del palazzo che ospitava la sede del partito fascista. Molto è stato fatto, per quel che riguarda la ricostruzione, dal 1945 ad oggi. Non è possibile fare tutto in una volta. L’energia non manca, ma non si costruisce una città in un giorno.»

 

Nulla da obbiettare. Molti cantieri sono attivi: facciate in riparazione, palazzi ricostruiti, convalidano le asserzioni del mio interlocutore. Senza dubbio l’immagine della miseria constatata mi perseguita ancora, ma ad essa si unisce il ricordo dell’animazione e dei ricchi negozi di via Atenea.

La città, in apparenza modesta, non si è ripiegata sul suo grande passato e non vive affatto ai margini del mondo.

Ha inoltre il vanto di essere la patria di uno dei più illustri e importanti scrittori del nostro secolo, Luigi Pirandello. Ha dunque tutto il diritto di celebrare, ogni anno in febbraio, la primavera, con canti e danze, alla festa dei mandorli fioriti, e di onorare, nel cuore dell’estate, il suo santo patrono, Calogero. Questo popolo pieno di gentilezza può ben cantare sulle rovine di ieri e di oggi, rifuggendo la disperazione, in quanto ha la forza di ricostruire, senza tregua, la sua casa, convalidando in tal modo, la sua voglia di vivere.

Daniel Simond, in Sicilia, Sciascia edizioni, Caltanissetta, 1956

 

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, valle dei templi

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