Da Fontanafredda andai ad Aragona, e credeva trovarvi buon letto, e buona cena; ma essendo gravemente infermo chi doveva accogliermi, mi furono dal Governatore offerte le chiavi del palagio del Principe d’Aragona che fa credere all’esteriore d’essere magnifica residenza d’un magnate, e non ha che le nude pareti. Nè porte, nè finestre nè sedie, nè letti, nè mobili di sorte alcuna vi rinvenni; ed era similissimo a que’ palazzi, che dai soli spiriti si credono abitati dal volgo imbecille, ond’io che di conversare co’ Lemuri e colle Fate per nulla son avido, ed amo alquanto curare la cuticola su buone materasse, ed irmene a far capolino chiotto chiotto sotto belle coltri e lenzuola, me n’andai sdegnato dal palagio aragonese, e feci continuare il viaggio a’ letticarj fino a Girgenti, che non è lungi che otto miglia, e queste mai sempre di buona strada. La luna officiosa spargevami il suo placidissimo lume sulle silenziose ed ineguali campagne, e giunsialle ore 2 della notte all’alpestre Girgenti.
Fui accolto da D. Paolo Abela Console di Malta, e di varie nazioni.
Il giorno 11 al dopo pranzo andai coll’antiquario D. Michele Vella per la città fino alla Cattedrale, e vennero meco D. Paolo Abela e D. Vincenzo Trapanesi. Osservammo primieramente nell’archivio della Cattedrale un bel vaso greco-siculo che fu donato al capitolo da D. Gregorio Gamez con obbligo di farlo vedere a’ forastieri. Egli è certo un bel vaso per la grandezza; io però son uso a vederne a Napoli dei maggiori eziandio; e per la forma, e per le pitture non è paragonabile a quelli diCapo di Monte. La spiegazione che in iscritto me ne diede l’antiquario, dicendomi essere fatica del suo maestro il Barone Ettore, mi fece accorto immediatamente dell’ignoranza d’amendue. Imporocchè dicea lo scritto; esservi figurato l’invitto Ulisse che nell’inferno consulta Tiresia pe’ suoi dubbj; e nel lato opposto i compagni suoi che al Circeo furono in porci trasformati. L’antiquario di suo marte aggiungeva, che Tiresia era la madre d’Ulisse. Io subito ravvisai nell’uomo barbato, e seduto a scranna collo scettro, e con una corona d’alloro il biondo Menelao, e dietro di lui Elena in piedi col vaso della famigerata Nepente(34 ) in mano.
Stassi innanzi al trono di Menelao il giovanetto Telemaco armato di rotondo scudo argolico, di setoso elmetto e di lunga lancia, dietro cui si vede Mentore che rivolgendosi parla con Pisistrato figlio di Nestore e compagno de’ viaggi di Telemaco. Pisistrato dietro le spalle tiene sospeso il pileo odeporico assai malamente figurato nel vaso, ed impossibile a distinguersi nell’infedelissima traduzione fattane in rame col disegno di Salvatore Ettore, e col bulino di Nicolò degli Orazj. Questo rame fu dal P. D. Giuseppe Maria Pancrazj inviato all’eruditissimo D. Paolo Maria Paciaudi, e la spiegazione ch’egli ne fece con molta dottrina, si è l’originale, da cui trassero il Barone Ettore, e il Vella infedelmente quelle poche e mal disposte parole. Se Paciaudi errò, merita scusa essendone fallacissima la copia, nella quale invece d’una raddoppiata tenia, indizio d’un tempio, o d’una casa reale si figurò un piccolo palladio sospeso alla parete, e lo scettro col fior di loto sulla punta divenne una fiaccola che vibra due lingue di fuoco, onde ingannato il dottissimo uomo da sì menzognere apparenze non potè riconoscere la vera storia, ch’io subito raffigurai, per essere similissima ad altra pittura d’un vaso Italiota posseduto dal cavaliere Hamilton, e da me a Napoli studiato ed inteso.
Passammo quindi a vedere il celebre sarcofago, il quale ora serve di recipiente all’acque battesimali, e da dorate tavole è ricoperto. Le dispute de’ letterati, e de’ dotti viaggiatori, e le ambagi, e le dubbietà senza fine eccitate dall’intemperante critica mi tennero lungamente sospeso fralla caccia di Meleagro, Fedra ed Ippolito, e la storia di Fintia tiranno d’Agrigento, che con infelice applicazione, e piena d’insormontabili difficoltà fu tratta in campo da ultimo per accordare tutte quattro le facce del sepolcro. Fa d’uopo osservare che la prima fronte, e il lato destro sono d’alto rilievo, il lato sinistro e la parte opposta alla fronte sono di basso rilievo, cosicchè micadde in mente, che fossero due sarcofagi insieme riuniti, o due storie insieme confuse dallo scultore. Più mature considerazioni m’indussero da sezzo a credere una la storia, ed uno il sepolcro situato in qualche angolo, dovedel parallelogrammo i due soli lati apparissero, e gli altridue nell’angolo del muro restassero occulti.
Ma come accordare l’apparecchio e la caccia del cinghiale, il dolore della donna, e il giovane dagli atterriti destrieri gittato dal carro, e fralle ruote colle gambe infelicemente ritenuto e trascinato a morte? Chi non vede Meleagro nell’apparecchio e nella caccia? Chi non ravvisa Fedra ed Ippolito nell’altre due facce? Io questa sola storia finalmente vi rinvenni, e così la discorro. Nella fronte figurasi Ippolito che stassi in atto d’irne alla caccia, e seco ha molti compagni di Teseo armati di noderose clave, e molti cani e cavalli. Una femminuccia, ch’io credo la nodrice di Fedra col fuso in mano vorrebbe pur ritenerlo, ed ha consegnata ad Ippolito una quadrangolare tavoletta di cera, ossia lettera di Fedra. La scultura si è malamente ritocca in quel luogo, e nulla offre di ben distinto. L’Eroe casto e pudico rivolge il capo e mostra compassione più che sdegno dell’incestuosa fiamma della matrigna, e sembra in atto di consegnare ad un vicino amico, senza leggere, la tavoletta. Nella faccia destra è figurata la miserabile Fedra in mezzo a nove compagne, che diresti quasi le nove Muse agli stromenti che tengono due di loro fralle mani; e ben si vede che colla voce e col suono tentano alleviare il dolore della profonda piaga, che per ordine della vindice Ciprigna stampò nel petto della figlia del Sole lo scaltrito Cupidine qui rappiattato sotto la sedia, e pronto a mettere la freccia sulla cocca traendola della faretra, che sugli omeri gli pende. L’atto di Fedra è di molta espressione, e pieno di abbandono tenero e di malinconia amorosa, rivolgendo ad Oenone languidamente il bel collo e gli occhi moribondi, e puntando la destra sulla sedia; mentre una damigella le ritiene il braccio sinistro sotto il gomito epresso all’ulna con leggiadrissima attitudine.
La parte opposta alla fronte del sarcofago si è la caccia d’un ispido ed arruffato cinghiale contro cui l’animoso Ippolito vibra dal cavallo una lancia, e l’azzannano molti cani, ed altri quattro cacciatori lo combattono con pietre molari, coll’asta e colla spada. Questo è basso rilievo e non bene finito; così pure si è la faccia opposta a Fedra, dove scorgesi l’infelice Ippolito trascinato da’ suoi medesimi corsieri, e fralle ruote, e fralle redini miseramente ravvolto. Un mostro marino, di cui non troppo bene si discerne la forma, e fa d’uopo ammiccar molto gli occhi per distinguerne alcune squame intorno al collo tumido d’ira, alzasi al paro de’ cavalli, e gli costringe ad arretrarsi e confondersi e cadere l’un sovra l’altro. Un compagno d’Ippolito a cavallo, e sarebbe, giusta Racine, il buon Theramene, in vano s’affatica di ritenere con molta forza la briglia d’uno de’ quattro cavalli d’Ippolito, mentre il suo stesso impennasi per lo spavento. La confusione è tale, che tutto pare in un gruppo stranamente avviluppato e rivolto sossopra, nè si sa dove sia il carro fracassato, di cui solo le ruote ed il timone appajono. Io sono persuasissimo che questo sarcofago non merita le sperticate lodi che pur gli diedero Riedesel, e Brydone, e convengo con Hovel, e De Non della sua mediocrità in generale, ed inclino a crederlo apografo d’eccellente originale. Swinburne non si decide fra’ dubbj degli antiquarj, che non è molto arduo distenebrare con accurata disamina, e ciecamente accorda quelle lodi al sarcofago, che non merita per la sua mediocrità nell’esecuzione.
Inoltre è palese, che fu ritocco, e questo in più luoghi da imperita mano, cosicchè il suo pregio d’assai viene a scemarsi per tutte queste considerazioni, e non può entrare in contesa colle opere de’ Greci ne’ migliori tempi della scultura, che che ne abbiano predicato gli enfatici suoi encomiatori. Nulla dirò d’altri minori sarcofagi che appena meritano un’occhiata, e furono ciò nonostante disegnati dal diligente Houel.
Si fece l’esperimento dell’eco, per cui s’intesero già le confessioni dall’apparatore, che sul cornicione della Chiesa stavasi dietro la gloria nell’ultima tribuna girata a mezzo tondo. Qualunque sommessa parola si pronunzj presso la porta principale, o poco lungi di là presso le colonne, si riflette all’orecchio di chi stassi sul cornicione nel luogo additato, e alcune io ne sommormorai, che mi furono ripetute in chiaro suono, e di molte cose addimandai il mastro, e ne ottenni prontissima ed acconcia risposta. L’artificio del semielittico tetto che lungo sarebbe descrivere produce quelle varie riflessioni, e que’ centri fonecamptici sì moltiplicati, per cui giunge la parola all’ultima ritonda tribuna, e vi è intesa. Più dell’eco artificiosa ammirai una Madonna col Bambino di Guido, se pure non è della Sirani sua discepola valentissima, di cui ritoccava Guido le pitture con molto amore. Il bambino sembrami senza fallo del maestro, la Madonna tiene più del fare della Sirani. Andammo poscia alla Biblioteca, che Monsignor Luchesi fece ornare di bei operati plutei, e d’elegante architettura, ed arricchì di buoni libri, e d’un medagliere, dove rinvenni un Pescennio latino, e molte bellissime medaglie greche, sicule, puniche, imperatorie ec. da me per lungo uso assai conosciute. Il Pescennio è falso, come tant’altri da me veduti, e bene avvisò Vaillant, che dove leggesi ΥΟΥΣΤΟΣ, in vece di ΔΙΚΑΙΟΣ, appare ad ognuno la falsità nella greca parola malamente latinizzata. In occidente non fu riconosciuto Pescennio, che fermatosi ad Antiochia, perdè poscia nell’Asia la vita e l’impero.
Il giorno 12 assai per tempo m’incamminai a cavallo coll’antiquario verso la parte orientale dell’antica Agrigento, e per disastrosi sentieri salii sulla rupe Atenea, che termina in angolo verso la Neapoli, e qui trovasi il tempio di Cerere, e di Proserpina, che fu convertito in una Chiesa dedicata a S. Biagio.
Questo tempio fabbricato da Terone fu meno ampio e superbo, non però men bello degli altri, che poscia procacciarono il nome di magnifica alla popolosa Agrigento. La sua semplicità rendevalo maestoso, e il suo peristilio offriva un bell’ingresso alla cella di riquadrate pietre, di cui sussiste buona parte; non v’appajono però vestigj di colonne su’ fianchi e il luogo per se stesso discosceso ed asprissimo non le ammise. Una strada vi avevano gli Agrigentini tagliata nel vivo sasso, e ancora vi si possono osservare i solchi de’ carri, che vi passavano, come vidi a’ Pompei. Le mura in questo luogo furono espugnate dal cartaginese Imilcone, avendo eretto un terrapieno, che pareggiava la loro elevatezza per batterle colle macchine di guerra; ed io non cesso di maravigliare, come una città si forte per natura e per arte potesse sì di leggeri cadere, come cadde più volte nelle mani de’ suoi nemici. Imperocchè facilissimo egli era d’una in altra parte di sì munite roccie salire a nuova difesa fin sulla vetta ultima dell’arduo Camico (35), e per sotterranee vie, e per aditidifficilissimi e tortuosi andirivieni ritirandosi le milizie, salvarsi da sezzo nell’inespugnabile fortezza di Cocalo, ed erompere a talento dall’insidie, che tutta sospendano sulle incavate rupi la città, e vi formano inestricabile laberinto, che qual opera di Dedalo viene da Diodoro predicato.
Ma l’istesso Diodoro mi fece avvertire, che dall’eccessiva effemminatezza affranti gli Agrigentini non seppero con valore difendersi; imperocchè vi fu d’uopo d’un pubblico decreto per impedire, che alle guardie, che di notte vegliavano alla difesa dell’assediata città, non si permettessero più di due guanciali, una coltre, ed un velario, e tal modo di sprimacciarsi il letto parve a loro durissimo, ed io non ne vidi un migliore nell’alcovo di Federigo a Berlino, ed a Potzdamo, come notai. Torri e tergemine cortine di bronzo non basterebbero a rendere sicure sì molli ed effemminate milizie. Scendendo dalla rupe Atenea posi mente ad una parte delle antiche muraglie, e a due porte che mettevano verso la Napoli da un vallone divisa, e dopo, girando a mezzo giorno, men venni al Tempio di Giunone Lucina.
Alzasi questo sopra un immane stilobato, che gli antichi Greci solevano mai sempre sottoporre a’ sacri edifizj per accrescerne la dignità, la quale si è dai moderni dimenticata. Imperocchè le nostre scale, ed anche le piazze pensili non giungono a dare un’aria sì maestosa e solenne quanto gli stilobati intorno intorno continuati con quelle pietre sì ben connesse, e tanto largamente tagliate. Posano su questo basamento le colonne doriche e striate e prive di base, che ben si vede esser inutile, e qui scemerebbe il grandioso, che abborre le picciole parti, e le frequenti incisioni ne’ membri, ed ammonisce i moderni di sfuggire il tritume, e il vano tormento delle linee per asseguire la severità imperiosa di loro veneranda architettura. Di tredici colonne che ornavano il fianco a settentrione fino in questo secolo, sei ne sono cadute, e per impedire, che tutte non rovinassero, certi rozzissimi pilastri vi si sono oggidì frapposti, che deturpano l’ordine, e dimostrano troppa meschinità ne’ ristauri, e nessuna intelligenza. La spesa non dovrebbe atterrire un sì magnanimo Monarca; e reco fermissima opinione, che veggendo egli co’ proprj occhi un sì cattivo ristauro, se ne sdegnerebbe altamente. La giuggiolena qui si cava in mille luoghi, e tutto il suolo n’è composto ed aspreggiato, e rimettendo le assise corrose dal tempo, si sosterrebbe nelle dovute forme l’architrave cadente. Nello stilobato da me descritto, verso l’angolo a ponente della faccia settentrionale, apresi una picciola porta, per la quale entrai.
Le rovine m’impedirono di fare il giro del Tempio sotterra, come facevano i sacerdoti; v’aррajono le porte mezzo sepolte, che guidavano ne’ corridoi nell’istessa guisa, che vidi al misterioso Canopo della Villa Adriana. In questo Tempio si vaghegghiava la celebratissima tavola di Zeusi, il quale aspirando a pingere Giunone di sovrana bellezza, volle veder nude le più famose vergini agrigentine, e cinque ne scelse di lodatissime forme, e ne compose la sua incolpabile Lucina, di cui Plinio favella. Il Tempio fu abbruciato, e in mille luoghi si scorgono le rossicce macchie del fuoco divoratore. Gellia vi si ritirò, e vi perì nelle fiamme, che per disperazione egli stesso accese, e vi si gittò colla tavola di Zeusi, per non cadere in mano de’ barbari Cartaginesi(36); così narra Fazello.
Nell’andare lungo le mura, che a venti cubiti di altezza salivano, pel testimonio di Diodoro, vidi frequentissime tombe tal ora a mezzo cerchio, e tal ora in lunghi parallelogrammi scavate, e fui certissimo, che non erano lavoro nè de’ Greci, nè de’ Peni, come sospicò Denon; ma bensì de’ Cristiani, che nei bassi tempi usarono d’aprire in ogni luogo questi alberghi di morte. Non fu costume degli antichi Agrigentini di greca origine seppellire in città, e molto meno avrebbero osato affievolire cotanto il piede di loro mura con sì perniciosi cunicoli.
Quindi si vede una parte di questi sepolcri caduta verso mezzo giorno offrire una strana apparenza di rovesciato colombario, e provare ad evidenza il pericolo dell’intera rovina delle fortificazioni. Di più le vere tombe agrigentine, a mio credere, sono quelle, che fuori appunto delle mura s’incontrano ad ogni passo, e furono in più luoghi violate per aprirvi od allargarvi le strade, ch’ora mettono nella moderna città con molti avvolgimenti da ogni banda su per l’erta delle rupi rappianate e divise. Volli discendere in queste camere sepolcrali, e nulla vidi che fosse degno di nota, e solo mi piacquero le rustiche volte, e gli spiragli, e le flessuose strade, o corridoi, che giravano dentro le viscere di que’ macigni, e gli rendono sempre orribili e spaventosi per l’immane iato, e per la tenebria ad ora ad ora interrotta da debolissima luce.
Seguendo sempre la linea delle mura verso mezzodì, e il mar di Libia, incontrasi il Tempio detto della Concordia. La lapida latina che si conserva in Girgenti non può convenire a questo Tempio tutto grecanico, ed olezzante di maggiore antichità, che non dimostrano i caratteri romani. Questi sembrano del secolo degli Antonini, a mio giudizio, e così stanno:
CONCORDIAE AGRIGENTI
NORVM SACRVM
RESPVBLICA LILYBITANORVM
DEDICANTIBVS
HATERIO CANDIDO PROCOS.
ET L. CORNELIO MARCELLO Q PR.
D’Orville con molte ragioni si affatica di dimostrare, che questa lapida è una solenne impostura, e certamente i caratteri di falsità v’appajono alla fiaccola di una critica giudiziosa. Perchè l’iscrizione è latina, e non greca?
Qual fu questa guerra fra gli Agrigentini, e i Lilibitani ignota a tutti gli storici? Chi furono questi M. Haterio Candido, e L. Cornelio Marcello? E come fu M. Haterio Proconsole in Sicilia, dove non si mandavano che Pretori? Perchè non bastava alla dedica, supposta del Tempio, il Proconsole, ed a lui si dà per collega il Questore pel Pretore? E chi mai vide in una Provincia Romana il Proconsole, ed il Questore far le funzioni di Propretore (37)? Il Tempio adunque detto della Concordia si è conservato quasi intero, e tutte le pareti della cella si veggono in piedi, e le colonne che il rendono doppio periptero.
Mancavi solo il tetto, e le pietre del fregio su’ fianchi, e della cornice. Il sig. Houel, e il sig. Denon, e Swinburne, per non so quale fatalità, non si avvidero, che gli archi aperti nella cella a guisa di porte su’ fianchi sono manifestissima opera de’ bassi secoli, allorchè fu volto il tempio al culto di S. Gregorio delle Rape Vescovo di Girgenti. Non dovevano que’ valenti uomini ignorare, che la cella piena di religioso orrore altro lume non riceveva, che dalla principal porta, e le sue pareti nè da finestre, nè da porte laterali, e molto meno da molti archi perforate si vedevano presso gli antichi, e troppo chiari sono i dettati di Vitruvio, e gli esempj di tal ragione di edificare, per muovere su tal articolo alcun dubbio.
Quindi è facile la risposta alle interrogazioni del sig. Houel; come potevano all’ingiurie de’ venti e delle tempeste perpetuamente esposti, orare e sagrificare i Gentili? Queste acute domande si debbono rivolgere a’ Cristiani che giudicarono miglior consiglio l’aprire quegli archi ignoti a’ Gentili. La pompa sagrificale disegnata da Houel, e le statue farebbero ridere i sacerdoti, e gli architetti greci, se potessero ritornare in vita. Questo tempio è senza fallo il più bel monumento, che vantar possa la Sicilia per la sua integrità, e per le maestose apparenze sotto qualunque aspetto. Benchè paja privo distilobato, egli assorge sovra una naturale eminenza con somma nobiltà, e il doppio giro delle sue doriche colonne lo spargono in un’ombra severa, che induce venerazione, e la solidità della sua mole senza inutili ornamenti impone assai più, che non fanno tutte le Michelangiolesche frascherie, e tutti i suoi capricci invano dal Vasari difesi. I triglifi non corrispondono sempre al mezzo delle colonne, e sugli angoli si sono dimezzati con ottimo consiglio, affinchè munito si vegga, e quasi consolidato da loro ogni angolo, e segnato il bel mezzo dell’architrave su’ frontoni, al che tender deve precipuamente l’architettore nella difficile distribuzione delle metope, e de’ triglifi, e da questi monumenti l’apprenda. Di là n’andammo alle rovine del Tempio d’Ercole.
Qui è fama che stesse altra insigne tavola di Zeusi, in cui figuravasi Ercole bambino in atto di strozzare i due orribili serpenti dall’invida Giunone mandati ad insidiar nella culla il nato semideo. Zeusi non credendo che vi fosse al mondo somma di denaro, colla quale si potessero pagare i suoi divini lavori, donò questa tavola agli Agrigentini. Io credo a ragione che tutti quegli Ercoletti in bronzo, e in marmo, che ne’ Musei di Roma, e di Portici s’incontrano sì di sovente, siano tolti dal celebratissimo originale di Zeusi, perchè tutti s’assomigliano, e la pittura eziandio Ercolanese corrisponde a’ bronzi, ed a’ marmi nell’atto principale e nella mossa. Le rovine del Tempio d’Ercole a buon titolo si lodano dal sig. De Non per l’effetto pittorico, un tronco di colonna, un pezzo di cella, una striscia di fondamenta, e i capitelli rovesciati fra gli alberi e fra’ greppi variando in mille guise le linee, danno loro uno movimento aggradevole all’occhio, e prezioso per l’imitatore pennello. Il suo piano dimostra che in questo Tempio il greco genio aveva dispiegata tutta la sua vigoria, e distribuita l’eleganza, e la nobiltà sulle varie parti, che lo componevano. Vos exemplaria Greca.
Escimmo dalle rotte mura, ed osservammo il luogo che Annibale con sei mila uomini guardava contro i Romani, di cui si vede il campo, che ancora conserva tal nome. Entrai nel sepolcro di Terone, che i suoi mani sdegnosi difesero contro il furore dei Cartaginesi, avventando fulmini, e vidi uno scavo, che vi si è fatto dagli indagatori delle nascoste ricchezze, quasichè fosse possibile dopo due mila anni rinvenirle qui seppellite, e quasichè fosse costume dei Greci imitare la stolidità degli Asiatici che sotterrano tesori. Nell’India, nella Persia e nella Cina si perdono tutte le ricche vene d’oro e d’argento, che l’europea industria ed avidità con tanti sudori cava dalle sassose viscere delle andes nel Perù, e nel Potosì, e per tal guisa le ricchezze ricadono in una voragine che mai non si chiude. Io non so perchè poco pura chiamisi dal sig. De Non la ragione d’ornare in questo tempietto, e molto meno intendo, come non tema chiamar corintio un decisissimo jonico. Circa il sopraornato dorico io sono d’avviso, che al jonico eziandio da’ Grecifu accomodato, e qui non è tempo di recare le molte autorità, e gli esempj che fanno gran piede al parere mio abbracciato da altri insigni uomini di lettere, ed architettori. Le volute poi del jonico sono visibili a chicchessia.
Proseguendo il cammino visitai quanto rimane del Tempio di Esculapio, dove Mirone aveva un Apolline maraviglioso, cui sulla coscia in minutissime letteruzze appose il suo nome, e questa particolarità distrugge quanto Brydone osa sospicare intorno all’Apollo di Belvedere da lui creduto opera di Mirone, e da Verre a Roma trasportate. Sappiamo troppo bene la provenienza di quel marmo, e l’Apollo di Mirone era in bronzo. Oh quanto è facile invadere la fama, ed usurpar nome di cultissimo viaggiatore presso il volgo dei letterati! Brydon ha tessuto un bel romanzo in Lettere, e so di certo, che in molti luoghi apertamente dicostasi dalla religiosa fedeltà di storico per osservare quella d’elegante o di faceto novelliere, come fa nel pranzo d’Agrigento, ed altrove. Ma della sua erudizione non diede grand’arra in nessun luogo, e poco si curò di consultare Strabone, Diodoro, Polibio e Tullio, che a me servono di scorta infallibile nel viaggio della Trinacria, oltre la minor turba dei Fazelli, e’ Mongitori, Amici, Carrera ed altri, che fa d’uopo aver sempre alle mani.
La vista delle rovine delle mura e de’ Tempj fuori della città riesce oltre ogni credere variata e dignitosa, e tale non fu certamente, allorchè l’ardue pareti di venti cubiti nascondevano i Tempj, ed ogn’altro edifizio. I molti angoli delle fortificazioni, e le porte merlate, e le torri avranno offerto uno spettacolo guerriero e minaccioso, invece delle pittoresche rovine, e degli alberi della fronzuta siliqua, e della pallida oliva, e delle late opunzie, e degli arieggianti aloè, che fanno or verdi tutte queste colline. Ritornando in città, mi fu mostro uno sfasciume di fabbrica, quasi porta coperta, e di grandissima solidità ne’ fondamenti, e mi si disse, che là stava la dogana, ossia l’emporio presso la porta di mare; nè seppi rinvenire difficoltà alcuna per non creder veri tai detti. Passando la strada, mi vidi a fronte una montagna d’immani pietre, che mi parvero i pezzi del Pelio, e dell’Ossa lanciati da’ terrigeni giganti contro Giove; e di Giove Olimpico di fatto si è questo il Tempio, ed Aulade’ Giganti fu detto nello stemma della Città. E vaglia il vero, non sembran opere di uomini comunali quelle colonne e que’ capitelli, entro le cui scanalature potevasi un uomo nascondere, ed io me ne resi certo prendendone la misura sotto il collarino, dove sono più strette per lo rastremamento, laonde giudicai, che all’imo scapo senza difficoltà vi si sarebbe annicchiato un uomo, come avvertì Diodoro lib. 3 cap. 24 tanta striarum amplitudine, ut corpus humanum inserere se apte queat. Fu giudicato questo Tempio il maggiore, che nell’Isola vi fosse, e per la grandezza delle sustruzioni degnissimo d’entrare in paraggio con qualunque altro del mondo. Egli era pseudoperittero, e quantunque per tal ragione i capitelli, e le colonne incastrate nel muro apparissero dimezzate, ebbero da 20 piedi di circuito nell’esteriore, e più di 12 piedi nell’interiore. I triglifi spaventano, ed hanno l’aria di fosse, e quasi potrebbero favorire la falsa sentenza di chi, male interpretando certi versi di Euripide nella sua Ifigenia in Tauride, credè, che meditassero i due inseparabili amici Pilade ed Oreste introdursi furtivamente nel gran delubro di Diana per l’apertura de’ triglifi. Dimostrai in altro luogo, che per quella delle metope non chiuse da pietra alcuna, intendevano di penetrare quegli Eroi.
Imperocchè per quanto giganteschi fossero i canali de’ triglifi, la lor forma triangulare rendevane le fenditure nel fondo troppo ristrette, e non permeabili ad uomo in modo alcuno. Questo vastissimo edifizio non fu coperto, avendo ciò impedito la guerra, dopo cui, distrutta la città, non poterono indurvi gli Agrigentini il tetto. Ebbe 340 piedi di lunghezza, e 60 di larghezza, e surse 120 senza il basamento. Nella parte all’Oriente eravi scolpita la Gigantomachia, nell’occidentale l’eccidio di Troja. V’ha chi pensa che i Giganti in figura di colossali Telamoni (38) sostenessero i capitelli, e lo stemma dellacittà, e la tradizione orale avvigoriscono in qualche modo sì fatto divisamento. Imperocchè si aggiunge che in barbariche età furono sculti que’ giganti nello stemma con una rocca sul capo di tre torrioni, invece dei capitelli che mal seppero disegnare, e l’epigrafe: Signat Agrigentum mirabilis aula gigantum viene in soccorso, e fa quasi dimostrazione. Il sig. Denon non rigetta tal congettura, e la mancanza d’ogni fusto intero o spezzato delle colonne è favorevole indizio per credere, che di fatto le regessero sugli omeri loro le statue de’ giganti. Io poi sono indotto da più profonde ricerche ad ammettere questi Telamoni, che così si debbono appellare, e non Cariatidi, rivolgendo nella memoria il Tempio Egizio di Osimandes, che in tal guisa venne sospeso, e lasua fama indusse naturalmente gli Agrigentini ad imitarne il pensiero audacissimo e solenne.
Chi poi non teme asserire, che questo Tempio agguagliava S. Pietro, dimostrasi un vero ignorante, e delle antiche misure da Diodoro indicate, e di quelle a tutti note dell’impareggiabile Basilica di Roma. Tutti gli edifizj di Agrigento, e quelle di Segesta sono d’una pietra chiamata in Sicilia giuggiolena. L’etimo di tal voce si trae dalla giuggiolena, ossia sesamo genere di frumento Indiano, che in piccole capsule racchiude il suo seme a guisa del papavero, e la pietra arenaria così detta imita ne’ suoi granellini la picciolezza del seme di questa pianta. La giuggiolena sicula è concrezione marina, ed io più volte vi osservai bellissime patelle, ostriche, pettini, e chiocciolette d’ogni ragione in que’ massi che si sono tagliati per allargare le strade, segnatamente verso il convento de’ Cappuccini. L’aria salina del mare distrugge a poco a poco la giuggiolena e la corrode in guisa che sembra divorata dalle folladi, onde conviene che cadano alfine le colonne, e gli architravi spogliati ora da quello stucco che anticamente li ricopriva, e di cui non sono dubbie le vestigia in più luoghi. Nel Tempio di Giove Olimpico vidi fiorire un bel pistacchio, e vi conobbi vicino l’amoroso scornabecco senza cui non produce alcun frutto, cosicchè non mi stancava di ponderare in picciolo spazio raccolte le stupende opere dell’arte, e le meraviglie, e i segreti della natura esclamando con Claudiano:
Vivunt in Venerem frondes (39)
Le reliquie del Tempio di Giove Olimpico conseguono quelle miserabilissime di un altro dedicato a Tindaridi, e appena meritano un’occhiata. Di là giunsi alla margine d’ un profondissimo vallone, che fu vasta Piscina. Pindaro parlò dell’antica magnificenza del Tempio di Castore e Polluce, e Diodoro della Piscina, che egli chiamò Porto per l’ambito di sette stadj, e la profondità di venti cubiti. Ateneo rammemora l’amenità giocondissima di questa Piscina e le delizie, onde era coronata per varj generi di pesci, che vi guizzavano, e pe’ veleggianti cigni che ne solcavano le acque. Gli Agrigentini col braccio degli schiavi Cartaginesi alzarono sì vaste moli di Tempj, scavarono sì largo alveo alle congreate acque dell’Agraga, e de’ vicini fonti, e resero oltre ogni credere magnifica la loro città, come tuttavia attestano sì venerande reliquie. Oggidì quella capacissima vallea puòdirsi un perpetuo giardino, che ombreggiano bei pergolati, e bagnano ancora quelle acque oleose, di cui parlano Solino e Plinio; ma il petrolio vi è molto diminuito.
La contemplazione d’alto in basso di sì fresco verziere, degli agitabili canneti, de’ serpeggianti ruscelli, e delle sfessate rupi all’intorno, e delle bocche de’ vetusti canali forma un gradito spettacolo, che incanta il passeggiere, e lo sforza a trattenersi lungamente sulla margine, ed anco a discendere per tortuosi sentieri in quel fondo, com’io pur feci, per ispiare ogni segreto della natura e dell’arte. Alfine mi tolsi da sì deliziosa opacità, ritornando alla cocente sferza del sole, e di buon trotto m’incamminai verso Girgenti, molto affaticato, non però sazio di vedere, di leggere, di confrontar testi e viaggiatori, e di arricchire la mia mente di pellegrine erudizioni.
Ritornai il giorno 14 per compiere il giro di tutta la città, e primieramente andai a S. Nicolò, dove dicesi che siavi un Tempietto di Falaride. Egli è stato barbaramente guasto da imperiti uomini, che al nostro culto adattandolo, chiusero con una rozzissima, e mal dipinta tribuna la bella porta al settentrione, e ne aprirono una cattiva e meschina verso mezzodì, apponendovi una infame scalinata a più angoli, e dentro archeggiandovi una volta senza grazia alcuna. Non ha colonne, ma soli pilastri, e le pietre vi sono al solito riunite con somma precisione, cosicchè non vi passerebbe la punta d’un coltello. Denon lo crede opera Romana, e sagra agli Dei Penati di qualche Pretore per le basi attiche supposte a’ dorici pilastri. A me il taglio delle pietre lo fa credere greco lavoro, ma non de’ tempi di Filaride.
Un piccolo orto botanico lo circonda, e poco lungi vi sono acquedotti e cisterne, di cui narrano gran fanfalucche gl’imbecilli, e i visionarj che vi sognano tesori, e draghi, e giganti armati di poderose clave di ferro, che nei soli Romanzi vivono pel valore dell’Ariosto e del Bojardo. Non ho mai veduto un luogo alquanto selvatico, o rovina antica, o grotta, dove la credulità del volgo non predichi nascosto gran peso d’oro e d’argento, e dove, al suo riferire, non alberghino larve, e gnomi, e spettri terribili in guardia dell’arche gravide di preziosi metalli; il che prova all’evidenza e la cupidigia degli uomini, e il loro amore pel maraviglioso e lo strano. Nelle vicinanze del Tempietto Falaride stavasi il foro, e le sue colonne e le basi e i capitelli vi s’incontrano ammonticchiati fra’ sassi, ch’ora fanno alta siepe alla strada, ed io feci discoprire una parte d’un pavimento tessellato a’ colpi di zappa, e ne trassi parecchi dadi di marmo che il componevano. Era però lavoro de’ più rozzi e semplici, nè in modo alcuno da paragonarsi a’ superbi musaici di Portici, onde a buon titolo non si curò di farlo diseppellire il Principe di Torremuzza, che presiedeva alle sicule antichità per la valle di Mazzara. Di là n’andammo spronando i nostri lentissimi ronzini al Tempio di Vulcano.
Era questo fuori dell’antiche mura, e qui l’Etnica superstizione ingannava i creduli devoti dell’ognipotente, affastellando sull’ara le viti senza fuoco. Se il sagrifizio era grato all’ambizoppo, i sarmenti, benchè verdi, da se stessi concepivano la fiamma, il che nella moderna lucesarebbe troppo ridicolo ritrovato per la facilità di spiegarlo. Che se alcuno dei sarmenti poi nel suo tortuoso giro accadeva, che non ardesse, auguravano, che perfettamente disciolto fosse il voto. Il Fazello aggiunge queste parole: Quæ omnia frivola, ethnica, ac dæmonum fuisse ludibria nos quidem persuasum habemus. Avrebbe dimostrata maggior critica, e più sano giudizio ponendo sacerdotum invece di dæmonum ludibria. Del Tempio di Vulcano non rimangono in piedi che due colonne senza capitello, e parte delle sustruzioni, che furono rovinate da sacrilega mano, togliendone le belle pietre, che le componevano, onde sembra oggidì lo stilobato una scala. Scendendo più al basso giunsi alle vestigia del Tempio della Pudicizia, che poco corrisponde alla descrizione del Fazello, e forse non è quello che m’indicò l’Antiquario(40). Ma pittoresche e grandiose sono le rovine del ponte, che passava sulla valle ora detta di S. Leonardo, e se ne potrebbe formare un bel quadro, disegnandone la vista dal fondo del fiume, e mettendovi sulla piattaforma due pastori ch’io vidi accorrere per curiosità, mentr’io guardava il piede dell’immane sostruzione. Alcuni alberi ombreggiavano la vasta mole delle pietre, ed arricchivano la composizione naturale, di cui non ho veduto in tal genere la più bella sovra un clementissimo pendio di collinette, che quasi anfiteatro le sorgevano a tergo, e contrastavano col divallato terreno verso il fiume Agraga, che vi serpeggia per entro, quando le pioggie lo accrescono, ed ora è secco.
Risalendo questi monticelli osservai la meta, che dicesi fosse posta sovra una rotonda eminenza altissima, od un Ippodromo dalla natura, più che dall’arte disegnato, così dicasi del Teatro sulla china del colle. Egli è certo che nessun luogo più di questo può rinvenirsi acconcio a simili spettacoli. Imperocchè le valli e l’eminenze ajutate dall’arte si potevano ridurre a cerchi, a gradinate, a cavea; e non isfuggirono a’ sagaci Agrigentini queste opportunità ne’ bei giorni di loro fiorente repubblica, i quali furono segnatamente dopo l’insigne vittoria riportata col soccorso di Gelone su’ Cartaginesi alla battaglia d’Imera.
Trenta mila schiavi Affricani vennero in potere degli Agrigentini, e furono impiegati a portentosi edifizj, di cui lagrimando contemplo gli avanzi meno dall’incuria, che dal furore qui sicuri; come attestano gli storici della Nazione. Ritornai molto stanco ad Agrigenti, riserbandomi ad un altro giorno il piacere di soccorrere la superior parte della città detta il Camico. Il giorno 15 escii dalla porta di Mazzara, e con grande diligenza mi posi ad osservare le naturali fortificazioni, di cui Dedalo si prevalse per rendere inespugnabile la rocca di quel vetustissimo Cocalo Re de’ Sicani. Le parole di Diodoro adattate a questo luogo, per ritrovarvi il Camico Dedaleo, sono piene di verità. La porta ora detta del Cannone era l’adito angustissimo, che pochi soldati potevano difendere contro un intero esercito, benchè siasi quest’adito allargato, tagliando la rupe, per farvi una strada rotabile, nulladimeno conserva la sua naturale difesa. Imperocchè a destra inalzasi una rupe d’oltre 80 piedi tagliata a perpendicolo ed insormontabile; ed alla sinistra una rupe minore le corrisponde tutta punte e bitorzoli e sfessature, che nessuno può tentar di salire, ed il varco eziandio oggidì non capirebbe più di sei uomini di fronte. Gli anfratti poi e gli andirivieni della via sono infiniti, e veracemente flessuosi ad ogni passo, come gli descrive Diodoro, avvegnachè siano rappianati in più luoghi. Verso settentrione e levante la natura munì l’erta di asprissimi scogli, e ben poteva starsene l’avaro Cocalo tranquillo e scevro d’ogni timore covando le sue ricchezze, che, mi cred’io, furono sepolte in quel labirinto di cui visitai le tenebre e la profondità nella casa de’ signori Sanzo. Apresi un pozzo, che dal suo epistomio alquanto elevato lascia vedere il fondo di due camere; la prima mette nella seconda per un’apertura quadrata perpendicolare all’epistomio, cosicchè il fondo della prima stanza è aperto nel bel mezzo per discendere nella seconda. L’altezza sarà in tutto di circa 32 palmi del paese, come ne fummo certi per la misura fattane con una corda da cui pendeva una lanterna. Le camere sono di 12 piedi incirca quadrate, ed hanno quattro porte ne’ quattro lati, e mettono ciascuna in altre simili camerette disposte a scacchiere, come le romane milizie, cosicchè l’uniformità inganna chicchessia, e forma inestricabile errore nell’entrare, e nell’escire da quattro porte perpetuamente ne’ quattro lati aperte senza alcuna diversità; laonde fa d’uopo aver seco il gomitolo d’Arianna per non perdersi, e riandare la corsa via.
Se dai signori Sanzo sarà fatta una scala per discendere, senza il soccorso di una pericolosa puleggia, nel sotterraneo, e se qualche intrepido viaggiatore, o curioso cittadino non temerà di scorrere tutte le camere, fin dove si stendono, si potrebbe avere un piano del labirinto di Dedalo, ch’io inclino a credere da lui qui scavato per Cocalo sullo schema appunto del Cretense già fatto pel Minotauro. La semplicità di questo labirinto è somma; eppure non si può meglio ideare per deludere qualunque sagace uomo, che pur ne tentasse i fallevoli recessi. Quindi è chiaro, che nel fondo di una di quelle infinite camerette, od anco sotterra furono dall’ingegnoso Dedalo celate le arche e i forzieri di Cocalo in tal guisa, ch’egli solo potesse rinvenirle a qualche indizio segretissimo, e far cadere a vuoto la rapacità di qualunque nemico. Le camere debbono correre sotterra per lungo tratto, poichè in altri luoghi sonovi de’ pozzi simili a questo da me visitato, ed odesi nell’aggirarsi per quelle tacite cripte il mormorio d’alcuni mulini, che si fanno muovere a grandi distanze, e ti sembrano volteggiar sul capo. Questi mulini detti da’ naturali Centimoli meritano eziandio d’essere osservati, e se non sono invenzione di Dedalo, certo antichissimi vengono riputati e costrutti con grande semplicità, come si può raccogliere da’ disegni fattine dal valent Giuseppe Lo Presti pel pittore Houel.
D. Giuseppe m’accompagnò in queste mie ricerche, e da lui ebbi granlumi in ogni genere di mia curiosità. Volli quindi irmene a Macaluba, che a’ tempi di Fazello Mayharuca con saracinesco vocabolo si addomandava. Egli è questo un luogo distante sei miglia di Girgenti, e due d’Aragona, ed offre uno spettacolo per mia fè singolarissimo d’ alcuni Vulcanetti d’acqua, e di fango; che queste sono le materie vomitate, invece delle ceneri e del fuoco. Vi giunsi dopo alcune ore di lentissimo cammino per valli e monti, e torrentelli, ch’io doveva a tardo passo varcare sul mio cavallo per non istancar di troppo gli uomini, che a piedi mi seguivano, oltre il mio domestico, e l’Antiquario montati ognuno sovra i loro ronzini. Escii alquanto di strada, e girato il fondo d’un palustre valloncello salii placidamente in vetta ad un’eminenza, dove ritrovai distesa una pianura di circa un quarto di miglio d’ambito tutta squallida e nuda, e composta di limo indurato, che per la sferza del sole era corsa da screpoli frequentissimi, come il fondo d’uno stagno, che diseccasi. Di tratto in tratto vedevansi bullicare le acque, e prorompere da piccioli crateri, e diffondersi in lunghe strisce di fango liquido, in quella guisa appunto, che suole spander sue lave il Vesuvio, di cui questi Vulcanetti sono un’immagine in miniatura, e vomitan acqua invece di fuoco. Udivasi nel gorgogliare dell’acque un leggerissimo strepito, e si formavano bollicelle d’aria, come se di sotto vi fosse una fiamma, che le fesse bollire. E di fatto avendo posta la mano sovra un estinto cratere, che pareva un picciolo ritondo pozzo, sentii pervenirmi all’epiderme la senzazione, avvegnachè debole, d’un calore, che di sotterra si sprigionava.
Immersi più volte il mio bastone in quelle boccucce, e vi si affondava, ma non veniva in su respinto, come forse accadeva altre volte, allorchè maggior era la forza del latente fuoco. Oggidì sembra quasi estinto, pure di tanto in tanto infuria di sotto l’occulto fervore, e lancia da più crateri una piramide di fangosa pioggia, che a guisa di pino diramasi e s’allarga, ricadendo con molto strepito sul suolo, e smaltandolo tutto di tenace loto. Nè per questo vomito decresce il terreno, anzi sollevasi a più cubiti, ed appajono negli induriti greppi le vestigia delle eruzioni succedute nel 1776, 1782 e 1786, per quanto a me fu detto dall’Antiquario. Solino avvertì questo fenomeno.
Il sig. Denon cerca di spiegarlo, ed è plausibile la sua filosofica congettura. Dolomieu ne ragiona da esperto fisico e naturalista, ond’io aggiungerò solamente, che lo zolfo di cui cotanto abbonda questa parte di Sicilia da Sciacca sino a Palma è in colpa di tale esplosione, ogni qualvolta le piriti si accendono con maggior violenza, e sprigionano il fuoco e dilatano l’aria con quella mirabile forza, che da me si notò, parlando del Vesuvio (41). Un solo cucuzzolo alquanto elevato sembra essere oggidì il centro dell’effervescenza; gli altri bullicami sono quasi tutti a fior di terra, e dilavano a poca distanza l’area cretosa e bibula, che lor soggiace. L’argilla vomitata è un tenuissimo polline e quasi impalpabile.
Ritornai molto soddisfatto dal mio viaggio a Girgenti, e il dopo pranzo discesi al Caricatore in un agevole biroccio con D. Paolo Abela. Egli ha la sua casa alla marina. Io montai con esso sulla nave Veneta detta la Fraterna Unione, comandata dal Capitan Rosa, che come ha creduto patrizio mi fe’ gli onori, mentre si beveva un ottimo caffè, e rosolio maraschino, e nello discendere nella sua lancia spararono i cannoni, e sventolò la bandiera di S. Marco. Egli è uomo piacevole, gentile e modesto, e se avesse a Malta diretto il suo viaggio, sarei ito assai volentieri sul suo ben corredato vascello. Un’altra volta ritornai al Caricatore per ben osservarvi i magazzini del grano, e le cisterne che lo conservano. Acci su questo littorale una pietra, che da’ Siciliani chiamasi Truba, ed è senza fallo una Marga, giacchè fa effervescenza cogli acidi, ed è argillacea e nitrosa in modo, che si reputa opportunissima per mantenere il grano, ed ucciderne il così detto pidocchio divoratore. Questa morte però attribuirei più volentieri alla privazione d’aria, anzichè al nitro del macigno. Imperocchè vi si chiude ermeticamente il grano, e di terra si ricopre a certe altezze sull’orlo della cisterna; laonde nè pioggia, nè aria può penetrarvi per corrompere l’affidato grano.
Di fatto a Terranuova, ed altrove vi sono cisterne simili in dissimili pietre, e spugnosi tufi incavate, e non vi ponno gl’insetti, nè l’umidità. Questo modo di conservare il grano fu noto agli antichi, e non devesi attribuire ai Saraceni.
Il giorno 16 volli vedere ciò che rimanevami ad osservare d’antichità in Girgenti, ed ascesi coll’Abate Vella sul vertice da Polibio nel lib. IX rammemorato, dove emersero i Tempj di Minerva, e di Giove Atabirio. Essendo Agrigento colonia de’ Rodj, a buon titolo fu dato a Giove quell’istesso aggiunto, che in Rodi lo distingueva. Era il monte Atabirio il luogo, sul quale, giusta i versi di Pindaro nella Ode VII Olimpica, dominava il gran
Padre degli uomini, e degl’Iddii, e Ttzetze nel Chil. IV
così lo descrive:
. . . . . . . . . . . Rhodhius est mons
Nomen Atabyrius, aereos vero habens boves,
Qui mugitum emittere solebant, incumbente
Rhodo calamitate.
Pindarus, atque Callimachus scribit historiam.
La vetta del colle in Girgenti fu detta rupe Atenea da Minerva. Non si rinvengono de’ due Tempj, che poche vestigia; ma l’area se ne può distinguere. Forse dal verso di Ttzetze, che parla del muggito dei buoi di bronzo sul monte Atabirio nell’Isola di Rodi, quando soprastavano infortunj, si è tratta la comunale sentenza de’ Siciliani, che attribuisce agli Arieti, volgarmente detti d’Archimede, il belato, allorchè soffiava alcuno de’ quattro venti, cui corrispondevano nella giacitura sul castello di Maniace; ed ora due soli se ne veggono nel palazzo del Vicerè a Palermo: gli altri due furono trasportati a Torino.
Partii da Girgenti il giorno 18 in lettica coll’inutile campiere, che a sola pompa si fa venire da’ ricchi, ed è puerile ostentazione, anzichè provvido consiglio contro i sognati pericoli di ladri e d’assassini, che, se vi fossero, non temerebbero certamente il campiere, nè con lui possono essere convenuti di lasciare che passino inviolati i viandanti sotto la sua scorta; come pure si vorrebbe far credere per certi segni misteriosi di mano o di capo, che si fanno a vicenda. La felicità de’ nostri tempi ha fatto svanire la maggior parte de’ pericoli, che si correvano pe’ ladri da’ viaggiatori. Giunsi alle ore 18 d’Italia a Palma, e nella Cattedrale vidi alcune mediocri pitture.
Nella sagrestia con piacere contemplai l’effigie del rinomato Hodierna, astronomo insigne, che meritò le lodi testè del P. Piazzi, ed assai prima quelle dell’Auria, e del Mongitore. Vidi pure il ritratto di Caccianiga inventor primo, al riferir dei Siciliani, del parto Cesareo con aperta ingiuria della verità, che il solo nome appalesa, avendolo questa conosciuta operazione dato al primo della famiglia dei Cesari, ex cæso matris utero.
Fui alloggiato ad Alicata (42) dal Barone D. Angelo Frangipane. Il suo figlio primogenito D. Girolamo mi fece un regalo splendidissimo di più medaglie in bronzo, in argento, e due aragonesi in oro, e di più vi aggiunse alcuni vassellini di creta, che furono crepundj de’ fanciulli, come ben dimostrò il Principe di Biscari nella sua dissertazione su tale argomento. Inoltre l’Arciprete D. Filippo Re volle a forza, che io scegliessi altre medaglie fralle sue quisquiglie d’antichità, ed io cinque ne presi, ch’erano le sole che meritassero d’arricchire il mio paterno Museo. Una d’Atene assai antica, e di rozzissimo conio colla civetta e colla testa di Minerva, e l’epigrafe ΑΘ può adornare qualunque medagliere; l’altre sono di Gela, che qui si vuole dagli Alicatesi ad ogni modo porre sul vertice del monte, dove si dissepelliscono avanzi d’antichità d’ogni genere (43), e dove fu trovata una colonnetta a foggia di candelabro scanalata, e larga nel piede, come un calice di giglio roversciato. Sul labbro, che posa in terra, corrono in giro queste parole da me con fedelissima penna trascritte:
Ο ΔΑΜΟCοΤΟΝ ΤΕΛΟΙοΝ. ΕΠΙ ΤΙΜο. Α Γ Ω.
Questa colonnetta trovasi in casa del secretario D. Vincenzo Trigone. Osservai pure il celebre decreto illustrato dal Principe di Torremuzza, e fatto da’ Geloi pel Gimnasiarca, e pe’ suoi fanciulli, di cui contiene il catalogo.
Partii per tempo da Alicata, e varcai il fiume Salso auticamente detto Hymera, dove furono disfatti da’ Siculi gl’invasori Cartaginesi, e per equabili sentieri, e poco aspreggiati da erte, e da declivi men venni lunghesso la marina a Falconara, pittoresco castello sovra uno scoglio, e quindi a Terranova.
Note
34 Da Omero nel 4 lib. dell’Odissea fu detta Nepente quella bevanda, ch’Elena porgeva allo sposo per isgombrare dal di lui animo la tristezza; e Plinio nel lib. 21 afferma che : Hoc nomine vocatur herba, quae vino injecta hilaritatem inducit. Linneo poi parlando di
questa pianta, come di un essere maraviglioso fra i vegetabili, così s’esprime, Si elle n’est pas la Népente d’Helene, elle le sera certainement de tous les botanistes, car quel est celui d’entr’eux qui, venant à le rencontrer dans une de ses herborisations, ne seroit pas ravi d’admiration, et n’oublieroit pas les fatigues qu’il a essuyées?
L’Editore
35 L’Autore seguendo la sentenza del P. Pancrazi pone il Camico e la fortezza di Cocalo in Agrigento. Ma il dottissimo P. Pizolanti nelle
sue memorie corredate d’un’esattissima carta topografica per conciliare le distanze, di cui fanno menzione gli antichi storici nella battaglia di Amilcare e di Agatocle, pretende che il luogo detto Polihia, e Torre di S. Niccolò fosse l’Ecnomo, ossia il Falaride dei Cartaginesi, Rakalmellima l’altro Falaride di Agatocle, e Monte Castelluccio il Camico di Cocalo. Indi senza esitazione collocò Gela sul monte, che tuttavia la Gran Gela si nomina, alle cui falde giace la moderna Alicata; mentre il pedestre Cluverio per vendicarsi della poca ospitalità a lui usata dagli Alicatesi trasferì Gela
a Terra nuova, addensando in tal guisa le tenebre su questa marittima spiaggia da Camerina fino a Girgenti. Sia però lode al Batavo Geografo pel modo col quale difende dai cavilli di Servio i versi
di Virgilio, che nel lib. 3 fanno così parlare l’Eroe Trojano:
Hinc altas cautes, projectaque saxa Pachini
Radimus; et fatis nunquam concessa moveri
Apparet Camarina procul, campique Geloi,
Immanisque Gela, fluvii cognomine dicta.
Arduus inde Agragas, ostentat maxima longe
Mænia, magnanimûm quondam generator equorum.
Or quì Servio leva la verga censoria, avvertendoci, che al tempo di Enea non eravi Girgenti, nè Camerina, nè Gela; ma Cluverio con isquisite ragioni dimostra, che sul vertice dell’Agragante fabbricò Dedalo la vetustissima rocca di Cocalo, venticinque anni prima dell’assedio di Troja. l’Editore. –
36 La narrazione di Fazello interno alla tavola di Zeusi, che in questo Tempio si crede locata, viene dall’erudito D’Orville distrutta, dimostrando quanto fallaci sieno e mal applicate le citazioni di Plinio e di Diodoro. Plinio lasciò scritto, Alioquin tantus diligentia, ut Agrigentinis facturus tabulam, quam in Templo Junonis Laciniæ, publice dicarent, inspexerit Virgines eorum nudas, et quinque ele –
gerit ecc. Da queste parole si raccoglie che la tavola di Zeusi era un donario, che gli Agrigentini destinavano al Tempio di Giunone Lacinia, e non Lucina a Crotone, dove era celebre il culto ed il Tempio di quella Dea. Dionigi d’Alicarnasso, e Tullio attribuiscono a’ Crotoniati, e non agli Agrigentini la gloria d’avere al pennello di Zeusi offerti cinque egregj esemplari di beltà femminile per formarne un’Elena, e non una Giunone; ed essendo Dionigi e Tullio più antichi di Plinio, la loro congiunta autorità mi decide in
loro favore, e mi fa credere che lo Storico naturale abbia facilmente confusa la tavola di Zeusi rappresentante Alcmena ed Ercole bambino, donata alla città d’Agrigento, coll’Elena da lui dipinta pe’ Crotoniati. Inoltre io son d’avviso, ripensando alla sublimità dello stile de’ greci dipintori in quel secolo fortunato, che Zeusi dovea trarre da cinque bellissime vergini le più leggiadre forme per comporre un’Elena, non mai una Giunone. Questa Regina degli Iddii, suora e consorte di Giove avrebbe Zeusi dovuto immaginare, ed il fece, giusta il sistema del bello ideale già nato in Grecia e diffuso. Quindi non ebbe Zeusi ricorso alle mortali bellezze, allorchè volle effigiare una Dea, e si servì dell’ideale sublimissimo, che nelle fervide menti degli artefici avevano di già fatto germogliare i versi d’Omero, i consigli dei Filosofi, la libertà della Nazione, gli usi e la dilicatezza dello spirito, e la profondità dell’ingegno. L’Editore
37 Ai tempi della Romana Repubblica la Sicilia fu sempre governata
da’ Pretori, giusta il testimonio irrefragabile di M. Tullio. Nel tempo però dell’Imperio, invece di Pretori ebbe l’Isola Proconsoli, Correttori, ed altri Magistrati, finchè da Belisario fu ricuperata, e tolta a’ Goti. Allora riebbe la pristina dignità di Pretore quel magistrato, che la governò. Dunque la lapida di Girgenti sulla concordia de’ Lilibitani, e degli Agrigentini, quand’anco fosse genuina, non può convenire al tempio così detto, il quale ben dimostra nella sua costruzione un’antichità che risale oltre l’epoca d’Augusto.
38 Il Fazello lasciò scritto: Id templum licet processu ævi olim corruerit, pars tamen ejus tribus gigantibus, columnisque suffulta diu post superstitit; quam Agrigentina urbs insignibus suis additam adhuc pro monumento habet. Inde Agrigentinis vulgatum carmen:
Signat Agrigentum mirabilis aula gigantum. At tandem Agrigentinorum incuria anno sal. 1401 5 Id. Decemb. in extremas ruinas abiit, quaæ ruinæ palatium Gigantum vulgo adhuc appellantur, ut hoc epigrammate imperitiam barbariemq. puram sonante, a poeta
quodam ejus sæculi excusum, et tempus memoriæ: (dum prosternebatur) proditum in Archivo Agrigentino inveni:
Ardua bellorum fuit gens Agrigentinorum
Pro cujus factis magna virtute peractis
Tu sola digna Siculorum tollere signa
Gigantum trina cunctorum forma sublima;
Paries alta ruit, civibus incognita fuit
Magna Gigantea cunctis videbatur, ut Dea.
Quadricenteno primo sub anno milleno
Nona Decembris deficit undique membris,
Talis ruina fuit indizione bisquina.
Il sig. D’Orville non intende nè questi versi, nè le parole di Fazello. Eppure è chiaro che ogni capitello di colonna doveva essere suffolto da un gruppo di tre giganti; ed io possiedo un raro disegno d’Annibale Caracci, che mirabilmente esprime questo architettonico pensiero; accoppiando tre muscolosi uomini sotto un abaco solo per sostenerlo colle mani, e col capo.
39 Aristotile, Teofrasto e Plinio osservarono nelle piante un atto reciproco del maschio e della femmina, e prelusero alla sentenza de’ moderni botanici, da cui sono riconosciuti i due sessi nel regno dei vegetabili. Ma queste facoltà produttrici si rinvengono per lo più accoppiate nella medesima pianta, e perciò si riproducono, si mantengono eterne da se stesse, non già per via di generazione, bensì di verace concepimento, a cui si è dato il nome di semente.
Empedocle al riferire degli eruditi, ebbe una tale sentenza, e la spinse tant’oltre che non dubitava affermare aver la natura largito alle piante la facoltà ovipara. Fu detto con ragione, che gli antichi dalla Palma traessero la teoria sul concorso dei due sessi nelle piante, e l’agrigentino Empedocle forse in questi luoghi stessi dall’Autore descritti, meditando la natura, ne indovinò i segreti . L’Editore.
40 D’Orville con buone ragioni distrugge questo Tempio d’una Dea, che da’ Greci non fu venerata, e crede che la denominazione di Torre delle Vergini, o delle Pulzelle sia invenzione di bassi secoli data a queste rovine per cagione a noi ignota. I Greci però innalzarono un’ara al Pudore. L’Edit.
41 Le descrizioni che ci hanno date Dolomieu, Pallas e Spallanzani intorno i fenomeni di Macaluba, sono perfettamente simili a quelle de’ Vulcani fangosi della Crimea, e di Modena; e sembrò loro di avere in essi riconosciute le medesime cause dei Vulcani ardenti.
Imperocchè avvi sempre in quelle eruttate materie un eccesso di sal marino, di petrolio, di gas idrogeno solforato, e d’altre sostanze eterogenee; le quali se rimasero, per dir così, indigeste e non perfezionate, deesi per avventura attribuire a difetto di fluido elettrico, l’agente il più attivo degli incendi vulcanici; per cui essendo tutta volta troppo debole in proporzione degli altri fluidi elastici,non bastò per attizzare un generale accendimento, ed imprimere a quelle enormi masse lo stato di solidità. Taluni poi confrontando i Vulcani fangosi coi fuochi di Pietra Mala su gli Appennini s’avvisarono di scorgervi gli stessi principj, colla sola diversità, che questi, poveri d’ ossigeno, e ricchi di fluido elettrico, non presentano, che fuoco senza eruzioni terrose; al contrario di Macaluba, Modena ec., che manchevoli di fluido elettrico, ma copiose d’ossigeno, abbondano in eruzioni terrose senza fuoco, per cui on pourrait dire, que Pietra Mala a l’ame d’un Volcan, et Macalouba, et les Salses de Modène n’en ont que le corps: leur réunion formeroit un Volcan ordinaire. Ved. Patrin. Histoire Naturelle des Mineraux Vol. 5.; e il celeb. Breislak. Voyag. dans la Campanie. L’Editore.
42 Ricorda il Fazello, che le Agate di cui abbonda la Sicilia, furono
da Greci dette pel color bianco, onde sono talvolta distinte, Leucachate, e molti eruditi uomini da questa greca voce traggono l’etimo d’Alicata; e quindi riconoscono nel fiume Salso l’antico Achate sì controverso. Alicata vantasi d’essere l’antica Gela da Antifemo Rodio, ed Entimo Cretese fondata, deducendovi una colonia di Rodiotti, ch’erano Lindj, e di Cretesi con leggi doriche, e vidi le due
teste d’Antifemo e di Entimo scolpite in basso rilievo nella Cattedrale, e furono tolte dalle porte della Città. Tristo quell’antiquario, che non ne conosce l’epoca, e lo stile. I Geloi 180 ami dopo fondarono Agrigento sotto gli auspicj d’Aristone.
43 Ivi pure si rinvengono tuttodì moltissime anticaglie, ed ora si trovò quel singolarissimo arlecchino in bronzo, di cui mi fe’ dono l’ottimo Arciprete D. Filippo Re. Dispongo una dissertazione sovra sì raro monumento, e mi lusingo, che molto giovar possa a comprobare l’antichità delle nostre ridevoli maschere. Eccone frattanto il piano. La città di Gela fu distrutta l’anno 291 prima dell’Era volgare, dopo quattro secoli da che Antifemo Rodiotto, ed Entimo Cretense, giusta Tucidide, vi dedussero le loro colonie. Quindi è manifestissimo che questa insigne statuetta almeno conta 2085 anni di antichità, supponendola fusa nell’ultimo periodo di Gela.
Io poi non credo conceder troppo all’ingegno affermando, che forse era il genio della città ed eccone gli argomenti. Aristeneo , de Phaselide lib. 1, lasciò scritto, che Lacio ed Antifemo fratelli essendosi recati a Delfo per consultarvi l’Oracolo, prima di guidare le loro colonie, come da’ Greci tutti si accostumava, ordinò la Pithia a Lacio di navigare verso levante; ed essendosi posto a ridere
per tali parole Antifemo, la Pithia a lui rivoltasi : E tu vanne, gli disse, a ponente, e qualunque siasi la Città che tu fonderai, sia detta Gela dal tuo ridere. Or io appigliandomi a questo etimo, e non all’altro da Tucidide, e da Virgilio rammemorato, reco opinione, che il Genio della Gela fosse un’immagine giocondissima e faceta, e di tal figura ed atteggiamento, che al riso eccitasse nel riguardarla chicchessia in memoria del riso d’Antifemo, e de’ comandi dell’Oracolo. Così è per l’appunto questa immaginetta, che ad un arlecchino perfettamente somiglia, e si distorce in quelle sue giocose attitudini per provocare il riso. Affermano alcuni, che Michelangelo desse il primo la norma della maschera dell’arlecchino, ricavandola da un antico, ed io vidi pure un cammeo, certamente d’antico lavoro, in cui la maschera d’arlecchino è vivamente espressa, e lapossiede il Principe Poniawtoschi. Quindi tutto cospira a dimostrare la vetustà delle larve, e de’ sannioni nel Museo di Portici, ed ognun vede, che da tali larve traggono origine le nostre. Quelle di pulcinella possono vedersi a Portici, non meno antiche forse del mio arlecchino. Il Dio dunque del Riso, il Γελοιος d’Antifemo si è questi il Genio della città, l’Averrunco dei mali, e d’ogni giocondo evento apportatore; e la sua festa viene descritta da L. Apulejo nell’Asino d’oro, lib. III. pag. 111 e 112; cosicchè non mancano riprove moltiplici al mio novello divisamento, checchè ne dicano gli Antiquarj, con cui mi debbo accapigliar di sovente, e dimenticarmi di sagrificare alle grazie, al riso, ed ai giuochi.
Carlo Gastone della Torre di Rezzonico
Viaggio della Sicilia
pubblicato a Palermo 1823