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C’era una volta la Villa Garibaldi: gli agrigentini ricordano

20 Gennaio 2019 //  by Elio Di Bella

“C’era una volta la Villa Garibaldi…”, era disegnata su una montagnola a margine del lato di Piazza Vittorio Emanuele che va dall’edificio del Comando dei Carabinieri, alla palazzina dell’ex Opera Nazionale Balilla.

Al centro della lunga cancellata sulla piazza, si apriva l’ingresso con un grande  cancello in ferro;  ingresso monumentale preceduto da una breve scalinata scenografica che aveva ai lati due sculture di leoni e due sfingi in marmo poste ad ornamento.

I percorsi gibbosi conducevano ai viali, che posti su diversi livelli erano raccordati da brevi scalette; la vegetazione era ricca e varia, gli alberi erano antichi e di largo fusto; sul viale maestro erano allineati i busti marmorei di noti personaggi della storia patria, e al centro un sacello dedicato a  Giuseppe  Garibaldi. Ancora, fra gli anfratti, piccoli laghetti e un piccolo tempietto palladiano a cupola con armoniche architetture classicheggianti, un particolare architettonico in funzione decorativa. Vi erano anche gli animali: un piccolo zoo con scimmie, pavoni, pavoncelle e  qualche poiana. Vi era anche il palco per la musica, una scenografica esedra in marmo e pietra, preposto ad ospitare  il tradizionale concerto del venerdì, che è rimasto nella memoria collettiva, (prima girgintana poi agrigentina),  come  evento  esemplare: “il Venerdì alla Villa”.

Il “Parco delle Rimembranze” è stato il sito armonico della cultura romantica dell’Ottocento. Se non di grandi dimensioni, come il Valentino di Torino, Villa della Fortezza a Firenze, la Montagnola a Bologna, Villa Borghese a Roma, il Giardino Inglese a Palermo, il Parco è stato anche connotato come “Villa Comunale”, luogo, ancor oggi, in molte città di  vasta partecipazione e  fruizione sociale.

Girgenti per lunghi decenni ebbe la sua “Villa Garibaldi”, poi sepolta nell’oblio ed anche scomparsa dalla memoria. Dei luoghi agrigentini, della triplice scomparsa, (Cinema estivo, Lungomare di San Leone, Villa Garibaldi), sono rimaste poche immagini, rare e preziose.

L’intendente borbonico  Palizzolo s’adoprò perché il Comune, con il contributo dei privati cittadini, realizzasse su una collinetta situata sul lato occidentale della Rupe Atenea e prospiciente sul piano San Filippo, una villa, che venne chiamata “Maria Teresa” e che, dopo il ’60, prenderà il nome di “Villa Garibaldi”. Era una villa abbastanza grande con i viali semicircolari ai due lati della collina e con un ampio ingresso adornato da un mezzo busto di Empedocle, e da statue di marmo rappresentanti le quattro stagioni (dono del Principe di Aragona).

Nel punto più alto della collina, intorno agli anni ’30, c’era uno spiazzo con una gabbia di ferro al centro, che ospitava una scimmia; ai lati dello spiazzo trovavano posto dei sedili di dura pietra per lo più occupati da “coppiette”, che vi trovavano rifugio per evitare le vie della città; e vi si vedevano seduti anche giovani studenti, provenienti dai paesi vicini, impegnati allora a scuola anche nelle ore pomeridiane: era un luogo tranquillo per divorare un piacevole panino.

Molto alberata e ricca di verde si presentava la villa, che godeva dell’appassionata cura di un “villeri” di apprezzate capacità, a cui il Comune aveva dato a godere una piacevole casetta, posta quasi di fronte all’ingresso e separata da questa dalla via S. Vito, allora allo stato naturale, che aveva il suo inizio accanto all’attuale palazzo dell’ex Super Cinema.

La villa da più di 70 anni non esiste più, travolta dall’inopportuna costruzione di un palazzo per il personale del Genio Civile, e poi dalla prepotenza del cemento.

IL VENERDI’ DELLA VILLA.

Già subito dopo l’imbrunire le famiglie dopo un tutt’altro che frettoloso attraversamento di via Atenea si avviavano verso l’ingresso della Villa e qui, superati i pochi e comodi gradini esterni al cancello, un primo ampio ripiano consentiva di prepararsi ad affrontare l’ampia scalea di marmo le cui fiancate erano presidiate da quattro imponenti sfingi marmoree regalmente accovacciate che sembrava volessero dare il benvenuto e raccomandare ai più piccini un comportamento confacentemente rispettoso. I piccoli ne captavano il messaggio e si comportavano di conseguenza tra quei vialetti dall’andamento simmetricamente sinuoso ed avvolgente e ricchi di alberi esotici ora illuminati con sapiente discrezione da lampioncini veneziani. Don Peppino Castellana che quell’immenso salotto aveva preparato con tanto amore, si aggirava compiaciuto per quei vialetti impegnato a fare gli onori di casa.

Romeres ed Argento i prestigiosi “caffettieri” della Città avevano trasferito lì le loro impareggiabili gelaterie e le signore, elegantemente sedute ai tavoli di marmo e ferro battuto di quei gioiosi Caffè all’aperto, sotto lo sguardo severo ma compiaciuto dei quasi sempre baffuti mariti, indugiavano con malcelata indifferenza a commissionare quello che sapevano di dover commissionare già quando erano ancora a casa: un saporitissimo trancio di cassata siciliana gelato.

Non c’erano ancora i coni ed anche ai più piccoli era riservata la cassata o la granita. Nel frattempo quasi tutti i tavoli erano stati occupati ed anche l’elegante anfiteatro di marmo denominato emiciclo Garibaldi era al completo con gli elementi del corpo bandistico in attesa del maestro Virgilio Lizzi. E questi, tempestivo come si addiceva a chi della suddivisione del tempo aveva fatto professione, sarebbe comparso subito dopo l’arrivo delle autorità. Aveva allora inizio uno di quei raffinati concerti bandistici che contribuivano a soddisfare ed affinare il gusto di chi sapeva ascoltare musica mentre l’occhio veniva appagato dalla venustà delle artistiche statue rappresentanti le quattro stagioni e che arricchivano lo stesso emiciclo. Si era orgogliosi di quel signorile salotto addobbato a festa in quella serata di intenso godimento.

Alla fin fine, avrebbero detto nelle non rare dispute campanilistiche quelli che Giurgintani non erano, voi Girgentini non avete nulla all’infuori del TEATRO della VILLA e dei TEMPLI, che era come dire a Rockfeller: alla fin fine tu non hai altro che il denaro! Che se non è tutto è però indispensabile per avere quasi tutto.

Rimpianga pure quel bene perduto chi come me ebbe il piacere di fruirne, ma si adoperino i giovani che avranno la ventura di amministrare la Città per identificare l’appropriato sito per costruirne una ancora più bella di quella che è stata oggetto del nostro rimpianto perché possa esser orgoglio e godimento delle generazioni future!

Il 4 settembre del 1949 l’avvocato Francesco Macaluso scriveva sul giornale cittadino “Dovere Nuovo”, di cui era direttore e proprietario, un accorato articolo di cui pubblichiamo lo stralcio riguardante la distruzione della Villa Garibaldi.

L’assassino della Villa Garibaldi

ripetiamo che non risentimento di opposizione ci muove o lievita la nostra critica è la nostra rampogna.

Quest’ultima avrà più forte dell’adeguata sede in altro campo e dirai secoli e i posteri…

Voi avete compiuto un assassinio… Quello della Villa Garibaldi. Ve lo ha anche cantato l’altro ieri “La scopa” e voi rimanete muti perché avete la coscienza del malfatto.

Ed insistete a peggio fare perché non avete la virtù delle grandi anime che, riconoscendo un torto, cercano riso avvedersi a riparare. Parliamo con voi, signori dell’amministrazione!

Voi avete preparato da tempo il misfatto. La parola “Garibaldi” che per noi repubblicani simbolo di libertà e di giustizia, di dedizione di sacrificio di disinteresse, a voi è ostica.

Lo comprendiamo. E da tempo voi avete fatto togliere dalla villa quanto l’adornava: il mezzobusto sfoderava, quella Niccolò Gallo, la serra, gli alberi, i fiori…

Ed avete pagato a danno della gente per distruggere quella che il commendator Lauricella aveva promesso che non si sarebbe mai toccata: quella, per la quale commendator Lauricella non venne appositamente, come protesta dell’animo suo, a votarne l’assassinio, come lo votarono gli altri consiglieri, oppositori di abbattere compresi.

La Villa Garibaldi apparteneva ai cittadini che oggi assistono doloranti alla sua distruzione: la Villa Garibaldi si appartiene cittadine della provincia di quali nelle ore centrali di sosta, vi trovavano ristoro di ombre di riposo.

La Villa Garibaldi avevano entrate artistiche di una scalinata monumentale. Non si comprende come sovrintendente regionale monumenti medievali e moderni abbia potuto dare lo stabene a tanta distruzione.

La Villa Garibaldi era uno dei tanti posti che danno a questa Agrigento rappresentando il decoro di bellezza singolare. L’avete distrutto e noi preghiamo iddio che voglia non tener conto delle maledizioni degli uomini di buon senso di cultura, amanti delle tradizioni cittadine.

Lo sperpero colpevole

Voi avete speso 3 milioni per costruire un muro di cinta di sostegno e ne state spendendo 6 milioni per disfare il già fatto per distrurlo.

Onorevole De Gasperi non basta concedere sussidi di milioni che costano tanto all’Italia. E necessario sorvegliare perché, con tutto il profondo rispetto alle libertà comunali, questi milioni non vengano spesi male.

E incredibile che si sperperi non 6 milioni per distruggere ciò che appena ieri era costato 3 milioni.

E ciò mentre nessuna città al mondo civile si troverà, nella storia del passato del futuro, un’amministrazione tanto avversa alle Ville, che danno risalto la dignità cittadina; che con i vari toni di verde rappresenta una speranza al futuro: speranze che si ergono in alto verso il cielo per essere più vicini a Dio; speranze che vengono stroncate da coloro che non comprendono e che sono ciechi.

E perché poi? Per farne un edificio del genio civile, il quale alle tante altre malefatte opere, che disonorano la provincia, vuol lasciare questo altro monumento approfittando delle incapacità di incoscienza di pochi individui che detengono il potere e non rispettano l’opinione pubblica che si è dimostrata contraria a questa barbarie vandalica, come contraria si è dimostrata la stampa.

E perché poi ancora? Per far costruire un albergo destinato fatalmente al fallimento perché quello è il posto meno adatto alle industria alberghiera, trovandosi a ridosso della collina, senza la veduta del panorama agrigentino, della incantevole valle, del mare, dei templi, che sono l’attrattiva del forestiero, il quale scegliendo un albergo fuori città, preferirà quelli della parte opposta alla villa.

Destinato al fallimento, anche come diversivo di delizia perché immediato ad un luogo di pena e non vi sarà impresario, per quanto logorato di cuore, e di amore al denaro, che non abbia la delicatezza di accorgersi di ciò e la sensibile corda monetaria che lo porti a speculare i propri milioni in altre località più adatta e meno pericolosa per la concorrenza che sarà costituita delle nuove costruzioni di pensioni pensioni nette che per la nuova legge pullulare ranno nella valle. L’albergo finirà come quello che dovete far costruire a Sanleone: alla Babbaluciara.

Destinata al fallimento e maledetto anche perché se dovesse sorgere sarebbe disertato dai forestieri di ogni parte, specie quelli dell’estero, i quali vendicheremo ebbero così il nostro del loro Garibaldi e perché si posseggono tanta sensibilità per non aggravare la pena dei poveri carcerati.

Il fallimento

Che cosa avete dunque conseguito?

Non una bella piazza, non più la villa, non l’albergo. Avete rovinato una cosa bella, che poteva essere migliorata e ricomposta; avete insultato il patriottico sentimento della nostra popolazione; avete continuato l’opera vandalica che va dalla distruzione delle piante in piazza stazione, alla villa maggior otto, alla via Garibaldi, alle palme innanzi alla questura, a quelle dei quattro giardinetti di Porta di ponte, al taglio degli alberi del viale della Vittoria, alla distruzione di piante accanto al monumento ai caduti; che va dal malconcio, malmesso (poi abbattuto da un semplice urto) monumenti non Niccolò Gallo, alla vergognosa sistemazione del palazzo c’è Lauro che rimane il ricordo di una commissione edilizia della pelle ispessita e della deplorevole acquiescenza del soprintendente regionale monumenti medievali; ma vale ancora dimostrare quanto possa in un’amministrazione poco oculata il fascino di un vincitore della Sisal.

La ricchezza fa sempre buona impressione!

Ci fermiamo e Dio ci aiuti a trattenere la penna per non trarre d’estirpare dal vocabolario tutti quegli aggettivi qualificativi che sono nella bocca dei cittadini e purtroppo nel cuore.

Francesco Macaluso

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, giurgenti

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