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chiesa di santa rosalia ad agrigento
chiesa di santa rosalia ad agrigento

Origine della Chiesa di Santa Rosalia in Agrigento

19 Dicembre 2019 //  by Elio Di Bella

La costruzione della Chiesa si ricollega al culto verso la cara Santuzza palermitana, la cui devozione esplose — improvvisa e rapidissima — negli anni1624-25 nella Capitale della isola ed in breve in tutta la Sicilia, specialmente nella parte centro-meridionale ed occidentale. Il motivo, che favorì lo sviluppo ed il rassodamento della devozione alla verginella dal nome floreale così delicatamente auspicante, è lo stesso a Palermo e nelle altre città: la liberazione dal flagello della peste, troppo dolorosamente e frequentemente, in quei tempi nell’Europa ed in tutte le regioni dell’Italia.

Racconta il Picone, nelle Memorie storiche agrigentine (p. 661-665) che nel giugno 1624 approdava a Trapani un galeone, proveniente da Tunisi, il quale scaricò delle merci appestate, che servirono da veicolo alla diffusione del tremendo flagello. La peste si diffuse con la sua consueta celerità e con il suo tristissimo bagaglio di sofferenze e di morti, nei due valli di Mazara e di Demone. Tutta la diocesi agrigentina ne fu infestata e tra le prime la città episcopale; è cosa risaputo che le sventure pubbliche e private avvicinano alla religione ed infervorano il senso religioso delle masse, che assiepano chiese, organizzano solenni (ed assai inopportune) processioni credono ascoltare voci soprannaturali, che suggeriscono rimedi al male e panacee per la peste. Come a Milano si organizzò la solenne processione del Corpo di S. Carlo, così presso a poco in tutte le città contagiate della nostra isola.

A Palermo il 15 luglio 1624 in una caverna del Monte Pellegrino venne ritrovato il corpo della Vergine Rosalia, «diva cui flores tribuere nomen»; il rinvenimento delle reliquie e la loro processione per le vie di Palermo desolata coincisero con la cessazione del flagello, che fu facilmente attribuita alla protezione di S. Rosalia.

Palermo da quel tempo si strinse attorno alla sua Santuzza due volte all’anno e precisamente il 15 luglio, data dell’invenzione delle Reliquie ed il 4 settembre, data presunta della sua morte; il S. P. Urbano VIII fece inserire nel martirologio il nome della Santa alle due date segnate con la menzione che aveva liberato la città dalla peste nell’anno del Giubileo, cioè nel 1625.

Anche gli agrigentini, continua il Picone, in seguito a visioni ed a sogni ammonitori, vollero subito cercare le Reliquie del loro proto-vescovo, S. Libertino; si recarono nella piazzetta vicino la chiesa di S. Michele, dalla tradizione indicata come luogo del martirio e scavarono affannosamente nella speranza di vedere affiorare le Reliquie. Nulla invece si trovò; secondo la leggenda, non avrebbe il Santo detto tra le sofferenze del martirio: «plebs rea, plebs rea, non videbis ossa mea?».

Si costruì sul posto una chiesetta, che ricordasse il nome del Santo Vescovo e Martire; ancora oggi esiste, sia pure trasformata in cinema parrocchiale, da qualche anno anch’esso fuori attività di servizio.

Più concreto ed efficace fu invece l’intervento di S. Rosalia nella vita agrigentina del 1625; nei primi mesi dell’anno venne da Palermo frà Antonino Caruso, correttore del nostro convento dei Minimi a S. Francesco di Paola, portando l’insigne Reliquia di un osso dei piedi della Santa, la quale, sebbene palermitana di origine e di vita, trascorse tuttavia alcuni anni del suo eremitaggio nella grotta della Quisquinia, in territorio agrigentino, dove incise sulla pietra la famosa iscrizione «Ego Rosalia, Sinibaldi Rosarum et Quisquinae montium domini filia, amore Jesu Christi domini mei, in hoc antro habitare decrevi».

Com’era consuetudine in quei tempi, si organizzò una solenne processione, cui partecipò con l’immensa  moltitudine di gente, il Capitolo della Cattedrale, i chierici d’ogni ordine e grado, i frati dei numerosi conventi; la reliquia venne devotamente portata dalla Chiesa di S. Vito  sino alla Chiesa di San Francesco di Paola, in un giorno del novembre 1625. Quell’ammassamento di persone (tra cui non mancavano gli ammalati occulti, spinti dalla certezza della guarigione) produsse un più violento dilagare del male. Molte case dovettero essere barricate per evitare la diffusione del contagio: così si conserva nell’archivio di stato il «testamento solenne di Raffaele Leone girgentino, barricato in casa con sua figlia Cecilia e suo genero Giuseppe Polizzi»: rogato presso notar Cachia addì 19 novembre 1625.

Tra le vittime più illustri, anzi addirittura la più illustre, sarebbe il card. Ottavio Rodolfo fiorentino, nostro Vescovo per soli due anni dal 1624 al 1626; il Lauricella lo dice, senza incertezza, morto di peste, sebbene ne tacciano il Picone e anche l’iscrizione posta sul suo sepolcro conservato in Cattedrale nella Cappella di Gesù Appassionato; in questa testualmente si legge: «Ottavio Rodolfo fiorentino sotto il pontificato e quindi alle chiese Ariano e poi di Agrigento sotto i Re Filippo III e IV. A richiesta degli imperatori Mattia e Ferdinando II fu creato Cardinale da Gregorio XV. Mentre continuava ad aiutare la Chiesa col consiglio ed il proprio gregge con le opere e la presenza, venne a morte all’età di 42 anni, nell’anno di salute 1624. Fra Nicola, Generale dell’Ordine dei Predicatori; Ludovico, Priore della SS. Trinità di Delia posero insieme questo monumento al fratello amato e desideratissimo».

Come si vede, l’anno di morte è collocato nel 1624; mentre nella breve iscrizione posta nel ritratto, conservato in Palazzo Vescovile, si legge: «lectus A. 1625, obiit A. 1628»; il Lauricella, nell’opuscolo «i Vescovi della Chiesa agrigentina» stabilisce gli anni 1624-26; il Collura scrive con precisione «30 Marzo 1623 e 6 Luglio 1624. (Le più antiche carte etc. p. XIX n. 4)»

Come si vede, le fonti non parlano chiaramente della sua morte per peste; è sicuro che morì in Agrigento, come attesta il monumento eretto in suo onore in Cattedrale.

Ad ogni modo, a prescindere da queste discussioni, la peste alla fine del 1625 ed al principio del 1626 declinò sensibilmente ed in quei tempi di fede viva si dovette attribuire la cessazione del flagello alla protezione di S. Rosalia.

Si volle quindi manifestare la propria gratitudine alla benefattrice celeste, innalzando in città una Chiesa al suo nome ed organizzando una confraternita in suo onore e sotto la sua protezione. Al riguardo abbiamo un fondamentale documento nei Registri degli Atti dei Vescovi: in data 2 settembre 1626 il Vicario Capitolare Don Corrado Bonin-contro sottoscriveva un documento, stilato dal maestro notato Giuseppe Caruso da Buscemi, in cui si autorizzava la costruzione di S. Rosalia. Dell’importante documento diamo le parti più notevoli:     è indirizzato ai diletti figli in Cristo don Andrea De Spoto, Girolamo Del Giudice, Nicola Antonio Pancuccio ed al notaio Francesco Cachia, tutti deputati ed ai Rev. Don Lorenzo De Costanza ed agli altri canonici secolari di S. Giacomo La Mazara, presenti e futuri. La bolla è composta dal Vicario Generale Doni. Corrado, perché nel 1626 si era in sede vacante: era infatti morto il Vescovo Card. Ottavio Rodolfo fiorentino e non era ancora stato eletto il suo successore nella persona del glorioso Francesco Trajna.

Prosegue la bolla: «havendosi reconosciuto che la protezione della gloriosa Santa Rosalea nostra advocata, ha prevaluto appresso  Dio nostro Signore dal quale abbiamo ricevuto la grafia et la saluti di questa Città, volendosi dunque conservari la memoria di questa gratia ricevuta, si ha deliberato costruire ed edificare una chiesa in questa città del titolo di detta gloriosa Santa Rosalea con elemosine di alcuni devoti, con l’assistentia di Don Andrea De Spoto, Geronimo del Giudice e Colantonio Pancutio e notar Francesco Cachia, deputati di detta fabbrica e fratelli della Congregazione di detta gloriosa Santa e per mantenersi il servitio di detta chiesa da edificarsi, li detti deputati e fratelli supplicano l’ill.mo e Rev.mo Sig. Vicario G. che si degnasse concedere l’uso di detta Chiesa alli canonici reculari».

Seguono tante minute condizioni che regolano i rapporti tra i deputati e confrati de i canonici per il servizio della Chiesa e della Congregazione; si stabiliscono norme per l’uso delle eventuali offerte e per il caso in cui o i canonici o i deputati confrati lasciassero la chiesa.

Termina poi la bolla: «praedicta capitula confirmamus aprobamus de prima linea usque ad ultimam… mandantes omnibus et singulis nostris subditis quod dieta preinserta capitula ad unguem observare et uxequi debeant sub penis et censuris in sacris canonibus statutis et expressatis, reservatis tamen nobis et successoribus nostris cum jure viistandi dictam Ecclesiam Sante Rosaleae et de solvendo nobis et successoribus nostris quolibet anno in traslatione Sancti Gerlando Patroni nostri solitam ceram jure subiectionis».

Le firme e la ripetizione della data precisa chiudono lo storico documento.

Risulta quindi dimostrato che anche la Città di Agrigento si allineò subito accanto alle consorelle della Sicilia centro – occidentale nel culto e nella devozione alla Verginella della Quisquina; vedremo con altro articolo come si è sviluppato l’amore a S. Rosalia e quello che i nostri Padri hanno saputo realizzare accanto al santo nome della Figlia di Sinibaldo con un crescendo di opere e di amore

Can. Angela Noto in L’Amico del Popolo ottobre 1964

Categoria: Storia AgrigentoTag: agrigento, diocesi di agrigento, girgenti

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