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Luigi Pirandello e la sua casa al Caos

25 Novembre 2014 //  by Elio Di Bella

Nella solitudine del suo studio romano, affacciato sulla Villa Torlonia, dove spesso accoglieva i suoi personaggi, capitò a Luigi Pirandello di tornare a vedere la madre, morta da poco.

Gli apparve “in quella casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre, la luce d’un sole caldo, luce sonora e fragrante di mare, e di qua la vetrina che luccica di ricca suppellettile da tavola, di là il balcone che dà su la via larga del grosso borgo marino, per dove passa monotona tutti i giorni, stridente di carri, la solita vita, di traffico per gli altri, di tedio per lei…”.

Fu quella la vera casa di Pirandello, quella rimastagli nel cuore, inondata dalla luce “sonora e fragrante di mare” (tutti i sensi messi al servizio della memoria), e quel grosso borgo marino fu dunque la sua patria. Il borgo era Porto Empedocle, quello stesso che attraverso una lunga storia, che era più precisamente la storia di Girgenti, s’era chiamato Caricatore di Girgenti, o Molo, o Molo di Girgenti, ma fin dall’antico era stato inteso sempre nella parlata comune, e di recente ce l’ha ricordato Andrea Camilleri in un suo intervento su questo giornale, come La Marina.

Le antologie scolastiche e le premesse alle varie edizioni dell’opera pirandelliana, riferivano però che lo scrittore era nato a Girgenti, cioè Agrigento, dove si è sempre detto che abitasse in una casa di via S.Francesco, che oggi infatti si chiama via Pirandello, e da quella casa il padre una volta, collerico e impetuoso com’era, disturbato nel sonno dopo una delle sue faticose giornate di viaggi e di traffici, si affacciò per sparare sulle campane della chiesa di S.Pietro. L’episodio ci è riferito anche da Gaspare Giudice nella sua biografia dello scrittore, dove se ne precisa il  trasferimento letterario  nella novellistica pirandelliana.

La campagna del Caos dove di fatto nacque Pirandello appartiene amministrativamente al comune di Agrigento, ma come in tutte le terre di confine qualche incertezza càpita di trovare anche in questa zona dove la città si mescola al suo borgo marino diventato frattanto, fin dalla metà dell’Ottocento, comune autonomo, tanto che, per quel che mi si diceva da persone informate, gli amministratori dei due comuni limitrofi si sono scambiati talvolta il favore di “cedersi” a vicenda, spostando temporaneamente il confine, qualche casa o gruppo di case se ciò poteva servire, con l’assegnazione dei rispettivi comuni a una classe o all’altra in base al numero degli abitanti, a strappare qualche beneficio in più all’amministrazione dello Stato.

 

L’ambiguità nell’indicazione della città natale di Pirandello nasceva però storicamente dalle vicende stesse del borgo marino, sorto come naturale estensione della città arrampicata sul colle, la quale infatti era indicata nei documenti antichi come “città demaniale delle principali del regno, di marina e con Caricatore”. Quell’ambiguità si scioglie forse nei sentimenti dello scrittore, il quale equanimemente avversò entrambi i paesi, Girgenti “ammasso di casupole e di tuguri”, come l’aveva definita un anonimo giornalista nel 1874, e l’eco ne risuonava nella descrizione della città de I vecchi e i giovani, coi suoi “angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso….” (le citazioni sono riprese dal Giudice).

             La casa di Luigi era però evidentemente alla Marina, là sopravvisse l’ombra della madre, là si condensava il suo ricordo più pungente, fatto di sensazioni rivissute acutamente, come presenti nella carne stessa. Quando Jerre Mangione lo incontrò a New York, Pirandello volle lasciargli un particolare saluto per il padre che, di famiglia originaria di Girgenti, era nato a Porto Empedocle, come lo stesso Pirandello, di cui pertanto era “paesano”.

Di fatto Luigi detestò, come Girgenti, il suo borgo marino, dove “le fogne sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l’acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Pajono tutti pazzi là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!” (la citazione da I vecchi e i giovani è in Giudice).

Al mio primo contatto con la città dei Templi, in una ricerca in verità un po’ confusa di punti di riferimento storici, antropici, filosofici e infine letterari, sulla scia ancora fresca di simboli e miti alla Quasimodo di Ed è subito sera (Ride la gazza, nera sugli aranci, o forse più da vicino, se il titolo della lirica è “Strada di Agrigentum”: “Là dura un vento che ricordo acceso / nelle criniere dei cavalli obliqui”;o alla Vittorini di Conversazione in Sicilia sigillata dalla famosa nota: “…Del resto immagino che tutti i manoscritti vengano trovati in una bottiglia”.

marta abba dinan zi al vaso che custodiva le ceneri di pirandello
marta abba dinan zi al vaso che custodiva le ceneri di pirandello

Stavo già per finire il liceo, dove lasciavo D’Annunzio e la retorica fascista, mentre fortunatamente stava per finire anche una guerra così tragica e una vicenda politica, cominciata con i manganelli e l’olio di ricino e finita nei lager nazisti, così miserabile da lasciar tutti sgomenti e senza più valori (si dice così oggi) in cui rifugiarsi,  e appena approdato all’opera di Pirandello che leggevo avidamente nei volumetti Mondadori trovati nella bibliotechina di classe, mi trovai a fare i conti con una realtà sfuggente che poteva benissimo adattarsi a qualunque doppia interpretazione, due patrie, due persone, un figlio cambiato, e l’altro figlio ignoto.

Talis pater talis filius non è proprio una massima che possa adattarsi ai Pirandello, Gaspare Giudice così ce li descrive: “Luigi è un bambino minuto, gracile, sempre in cerca di un più di affetto..”. Il padre invece è “tutto diverso, alieno dalle effusioni affettuose, rude e distratto: fisicamente enorme, pieno di violenze…”. E più esteriormente i due appaiono esile e biondo il figlio, e grande e nero il padre: due immagini inconciliabili. Del resto Pirandello, parlando “di questo mio involontario soggiorno sulla Terra”  racconta di esser caduto “come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”. La campagna è fin troppo evidentemente la campagna del Caos, qual che ne sia l’appartenenza amministrativa, ed egli in quel paesaggio immenso si vedeva come una lucciola, un piccolo punto di luce, anzi un “verde sospiro di luce in terra che pare perdutamente lontano”. Come poteva così minuscolo e diafano, fisicamente quasi inconsistente, competere con la forza e l’impulsività del padre, uomo rude aduso alla violenza, che sfidava ed era sfidato a duelli frequenti, anche fuori del tutto dalle regole della cavalleria e piuttosto nel codice malavitoso?

 

La base dell’intuizione di Andrea Camilleri, in uno dei suoi ultimi libri “Biografia del figlio cambiato”, è proprio in questa inconciliabilità e nelle altre contraddizioni che affiorano dalla vicenda umana dello scrittore “agrigentino”, a partire proprio dalla nascita avvenuta in un luogo incerto – Girgenti o Porto Empedocle? -, e in assenza di testimoni, senza nemmeno una levatrice, o meglio una mammana improvvisata, che non fu trovata in tempo in quella campagna deserta immersa nell’inchiostro della notte subafricana. Il titolo della biografia di Camilleri riecheggia quello pirandelliano de “La favola del figlio cambiato”, un’opera incompiuta, in versi, messa in musica  da Giovan Francesco Malipiero, andata in scena al Teatro dell’Opera a Roma, e qui fatta cadere dalla gazzarra di un gruppo di fascisti di parte farinacciana, “dopo che il Ministro del Culto d’Assia, per conto del governo nazista, su relazione dei critici e dei referendari del dicastero, aveva proibito la rappresentazione dell’opera perché <sovvertitrice e contraria alle direttive dello Stato popolare tedesco>“ (Giudice).

Un’intuizione poetica non si discute, ma don Stefano Pirandello non dubitava che quel bimbo minuto e biondo fosse suo figlio e comunque cercò sempre di farlo proprio negli atti, se non nelle caratteristiche fisiche, ché non poteva, indicandogli e cercando di determinare, in verità con scarsi risultati, le regole della vita, dalla professione al matrimonio. Finì poi per arrendersi all’evidente incapacità del figlio di seguire le orme paterne. Solo alla fine di questo tormentato percorso si arrese, e allora forse pensò che quel figlio non era tanto figlio suo, quanto figlio della madre, e dunque da amare in ogni caso. Quell’orco in fondo non mangiava i bambini, tanto meno quel bambino, così Luigi figlio gracile e biondo, “biondo come l’oro”, com’era il figlio cambiato della favola, l’ebbe sempre vinta sul padre nero e violento. Con la complicità della madre, alla quale veramente somigliava, rifiutò lo zolfo e gli affari, rifiutò le pandette e i codici, sia pure con fatica e con dolore fece tutto quello che il cuore gli dettava, e vinse la sua battaglia, scontandola forse con le pene della vita.

 

                                                        di  Dante Bernini

Categoria: Agrigento RaccontaTag: agrigento, comune di agrigento, luigi pirandello

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