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Jerre Mangione ad Agrigento. Un ricordo

24 Novembre 2014 //  by Elio Di Bella

Conobbi Jerre Mangione ad Agrigento quando la guerra era appena passata coi suoi disastri, col suo strascico di ricordi tragici e comici, i due aspetti della vita di sempre. Tra quei ricordi avevano il loro posto anche gli Americani delle truppe di occupazione e non mancavano tra quei soldati più o meno sgangherati, come tutti i soldati,  anche quelli che parlavano una specie di dialetto siciliano, arcaico perfino nelle cadenze, un dialetto superato dalla storia del secolo, e rimasto invece uguale, o circa, in quei figli di emigranti, al dialetto usato nelle famiglie o nelle piccole comunità di provenienza che il loro parlare quotidiano avevano portato laggiù – come si usava dire – nelle lontane Americhe, verso la fine del secolo precedente.

Per Jerre Mangione proprio quel dialetto, appreso da bambino dai genitori nel gelo, inusuale per i Siciliani, di Rochester, era la chiave, o forse meglio il grimaldello, con cui contava di penetrare quel grosso mistero che, malgrado tutto, erano rimaste per lui la Sicilia e l’anima dei Siciliani. I suoi genitori erano approdati in America, nell’angolo più a nord dello stato di New York, al confine col Canada, partendo proprio dall’estremo meridione d’Italia, dalla “parte più povera e lontana dell’agrigentino”: il padre era venuto da Porto Empedocle, la madre da Realmonte. Con altri immigrati siciliani, tutti o quasi imparentati tra loro o legati nei vincoli sacri del “comparaggio”, vivevano in un quartiere di Rochester, chiamato Mount Allegro, con un riferimento nostalgico ai luoghi d’origine fin troppo trasparente. Mount Allegro fu così il titolo del primo libro pubblicato da Jerre Mangione, il quale si rammaricava, in età matura quando si fece chiara la sua vocazione per gli studi antropologici e sociologici, di averne fatto l’opera d’esordio di un romanziere e non del sociologo che era: infatti quel libro è soprattutto l’analisi in chiave autobiografica leggera e piena di umori, se non proprio umoristica, delle difficoltà innanzi tutto lessicali in cui si trovò a vivere la famiglia dell’autore governata dai genitori, immigrati di prima generazione, col pensiero e col cuore costantemente rivolti al paese d’origine.

Una sorella dello scrittore apre il libro con un’affermazione quanto mai significativa: “Quando divento grande voglio essere americana”. Lei e i suoi fratelli nati tutti negli Stati Uniti lo erano già, ma non lo sapevano con chiarezza perché la cultura in cui vivevano era quella siciliana, e la pietra di paragone nella vita di ogni giorno era sempre, nel bene e nel male, quell’isola perduta in una lontananza che non poteva dirsi nemmeno mitica in quanto percorribile coi mezzi di cui l’uomo allora disponeva. Jerre G. (la G. sta per Gerlando che era il suo vero nome di battesimo) Mangione percorse quella distanza a ritroso la prima volta nel 1936, e la sua delusione fu enorme:

            “Ci sedemmo accanto ad una colonna del Tempio della Concordia che guardava sul mare e bevemmo un po’ di vino. Rosario parlava, ansioso come chi non abbia potuto per molto tempo esprimere il proprio pensiero e si affanni per ricuperare il tempo perduto. Parlava soprattutto dei suoi ricordi di Rochester della sua vita in Sicilia arrestandosi solo per sentire le mie risposte alle sue domande su Montallegro ed i suoi vecchi amici. Domandò se lo zio Nino diceva che sarebbe tornato a morire in Sicilia. – E’ sempre il suo sogno, – gli risposi io.

            – Digli di restare dov’è. Non sarebbe felice in Sicilia. C’è tanta bellezza qui, ma non ha più lo stesso significato. Le cose non sono come mi aspettavo di trovarle. C’è una maledizione su questa terra e la gente è ancor più infelice di quando l’ho lasciata. A volte sembra che abbian paura l’uno dell’altro. Dicono tutti che non ci sarà un’altra guerra, ma io non ci credo. La vedo venire ogni giorno ed ogni giorno maledico il momento che ho deciso di lasciare l’America”.

Malgrado quella delusione, o forse anche per spiegarsela meglio, Jerre tornò in Sicilia appena finita la guerra. Voleva notizie di prima mano sulla terra d’origine, quello che riusciva a  trovare sulla stampa era insufficiente e chiaramente tendenzioso, gli articoli gli sembravano per lo più scritti “con l’unico scopo di terrorizzare”, e

            “Quanto ai soldati, i ricordi della Sicilia erano deludenti perché approssimativi e molto simili. Parlavano del terreno accidentato e della chiassosa accoglienza che veniva fatta loro nelle città in cui entravano; soprattutto, parlavano di belle ragazze che rinunciavano alla purezza per un pezzo di sapone o un paio di sigarette. Di quei siciliani che non erano belle ragazze non ricordavano assolutamente nulla”.

Si mise a girare la Sicilia per lungo e per largo, aveva un modo accattivante di procurarsi la fiducia del suo interlocutore, che gli raccontava proprio tutto di sé, anche le cose che avrebbe desiderato tenere riservate. Jerre ne prendeva nota mentalmente e non appena poteva riversava notizie e impressioni in lunghe lettere destinate a suoi corrispondenti americani, le batteva su una minuscola portatile che aveva sempre con sé, e ne conservava gelosamente  una copia avendo probabilmente già progettato il libro pubblicato la prima volta nel 1950, e in Italia presso Sellerio nel 1992 col titolo “Riunione in Sicilia”. Il libro uscì con la dedica, del tutto inattesa almeno da parte mia, ad Andrea Camilleri e a me, che forse in quel suo viaggio in Sicilia eravamo i suoi interlocutori privilegiati.

In effetti frequentò moltissima gente, parenti e  amici di parenti, vecchi conoscenti praticati al tempo del suo primo viaggio di dieci e più anni prima, nuove persone entrate casualmente nel suo circuito di conoscenze. Era curioso di tutto, intrigato da molti misteri, dai più futili ai più indecifrabili: perché si dice vedére e invece crèdere (ed era inutile spiegargli che la nostra lingua dipende dal latino), perché mai ci fossero tanti cani randagi in giro per le strade extraurbane, perché fossero rari i boschi (“Dante, tu devi fare il partito del bosco”), perché non si metteva fuori legge il partito dell’Uomo Qualunque, si era in piena campagna elettorale per le prime elezioni regionali, e passeggiando per il corso cittadino, nel clamore degli altoparlanti,  ci incitava, quasi preso da una smania di impegnarsi in qualche modo per la patria dei suoi avi, a gridare tutt’insieme “abbasso l’Uomo Qualunque”, o abbasso non so più chi.

Era allora certamente, oltre che un antifascista, un democratico convinto, grande ammiratore di Roosevelt dal quale era stato più di una volta ricevuto; mostrando il suo pacchetto di Camel diceva con orgoglio che erano le stesse sigarette che aveva fumato Roosevelt, come se questa preferenza gli conferisse una sorta di unzione e lo ammettesse in un consorzio di uomini speciali, gli “uomini del presidente”. Quando lo rividi molti anni dopo aveva smesso di fumare, ma intanto il presidente amato aveva trovato onorevole consacrazione nel suo libro The Dream and the Deal dedicato al programma di aiuti in favore degli intellettuali attuato dall’amministrazione Roosevelt.

Ma sto correndo troppo in fretta e accavallando ricordi e notizie. Partendo dalla Sicilia per far ritorno in America sempre per mare, perché il viaggio in aereo non era diventato ancora di moda e forse egli un po’ lo temeva, ci lasciò un pizzico di malinconia, anche se personalmente ero sicuro che lo avrei rivisto, prima o poi. Trascorsero infatti alcuni anni e tornò a stare in Sicilia, trascurando però questa volta, se non per qualche visita fugace, la terra d’origine dei genitori e i molti parenti che lì ancora sopravvivevano. Si erano precisati i suoi interessi, dopo la pubblicazione di un paio di romanzi (The Sheep and the Flame, di cui aveva portato con sé il dattiloscritto nel viaggio del 1947, e se l’accarezzava come una tenera creatura; e poi  Night  Search (Ricerca nella notte), tradotto in italiano e pubblicato da Sellerio nel 1987. Quest’altra volta dunque venne per studiare, da sociologo e non da romaziere, il mondo intorno a Danilo Dolci, l’esperienza di un intellettuale progressista in una Sicilia ancora arcaica.

Così proprio “The World around Danilo Dolci” si chiamò il suo nuovo libro, col sottotitolo “A Passion for Sicilians” che era poi il titolo originario col quale il libro comparve la prima volta nel 1968. Per stare più vicino all’oggetto del suo studio dimorava allora con la moglie Patricia a Palermo dove anch’io abitavo, e così avemmo altre occasioni di vederci e frequentarci, anche se era venuta a mancare la suggestione di quel paesaggio di antica e irripetibile civiltà che aveva fatto da cornice ai nostri primi incontri. Frequentò il mondo palermitano col suo coté aristocratico che, con molto garbo, si mostrò  quasi incapace di capire. Fece invitare anche noi a un ricevimento che il console americano dette in suo onore nella propria residenza di Valdesi, e a un certo punto ci chiese imbarazzato: – Ma questo è proprio il barone Agnello? Non ci posso credere. Mia madre quando ero ragazzo e manifestavo qualche particolare esigenza mi diceva sempre “E cu ti senti ‘u baruni Agnello?”

I fantasmi di un passato di povertà vissuto dai suoi genitori lo visitavano continuamente, e così finì per appassionarsi alla storia degli immigrati siciliani, alla storia di stenti, sacrifici, umiliazioni che si vedevano in trasparenza nella composizione della società americana in cui aveva vissuto la sua stessa formazione. Era diventato professore di letteratura inglese (in senso creativo) all’Università di Pennsylvania, e in tale veste tornò qualche volta in Italia, venne a trovarci una volta a Roma dove per un’estate tenne un corso per studenti americani, mi regalò in quell’occasione un suo libretto pubblicato la prima volta in Gran Bretagna nel 1966, Life Sentences for Everybody, gustose “favole compresse in singole sentenze”, piccole satire in forma di poesie, pungenti come i suoi occhi puntuti di implacabile eppure affabile osservatore. Eccone una da me stesso modestamente tradotta: “Adelia Lucente – Troppo timida / per essere stata sedotta in gioventù / Adelia Lucente, / maturata e annoiata in castità, / spedì per posta sotto anonimato / a una lista di favoriti / un seducente suo ritratto in nudo / stampigliato “Non aprire / prima di Natale”, e in pochi giorni / fu sedotta da tre di quelli / che, come sempre, / non seppero aspettare per / aprire i loro / regali”.

Questa era la parte ludica del suo lavoro, ma la sua grande esperienza di intellettuale, figlio di immigrati, impegnato politicamente trovò la sua matura sistemazione nel volume An Ethnic at Large, edito nel 1978, un vasto ritratto della società artistica americana in epoca roosveltiana, quell’epoca che gli rimase sempre nel cuore come forse la più grande da lui stesso vissuta e forse quella in cui aveva cominciato a realizzarsi il “sogno americano” della sua gente.

            In questo spirito dette  inizio a una vasta ricerca a carattere scientifico sull’immigrazione siciliana negli Stati Uniti. Vi  lavorava ancora sul finire del 1989 quando andammo a trovarlo a Philadelphia dove aveva stabilito la sua dimora definitiva, e ci mostrò un vecchio giornale con un articolo a lui dedicato. Nel paginone spiccava la foto di una vecchia casa cadente, sembrava che si disfacesse per decrepitezza. “Questa è la nostra vecchia casa di Rochester – ci disse – da molto tempo non vi abita più nessuno”, i suoi fratelli si erano dispersi, in  gran parte ritiratisi in Florida, terra per pensionati, certo più di quanto potesse essere la Sicilia meridionale. In un angolo della foto si leggeva una targa stradale con l’indicazione: “Mount Allegro”.

Malgrado gli ottant’anni compiuti, era sempre vivace e agile, e una sera sul tardi in casa di amici dove eravamo stati tutti invitati si esibì in un ballo solitario nel vecchio stile swing, che era stato dei suoi anni migliori. Tra i suoi idoli, insieme a F.D.Roosevelt c’era sicuramente anche Fred Astaire: ciò che in qualche modo sintetizzava il suo sentimento della vita seria e dignitosa quanto leggera e sàpida nello stesso tempo.

Dopo quella fugace visita a Philadelphia, non lo rividi più anche se tornò in Sicilia per ritirare il Premio Empedocle conferitogli nel 1984, e successivamente nel 1994 per un “incontro con l’autore” organizzatogli proprio ad Agrigento. Ebbi modo però di sentirlo per telefono nel 1995, dal provvisorio ritiro racalmutese del suo amico e collaboratore Ben Monreale, un altro scrittore americano figlio di siciliani. Ero andato a trovarlo una sera d’autunno, poco prima che decidesse di ritornarsene negli Stati Uniti, deluso forse anche lui dalla Sicilia trovata così diversa da quella favoleggiata nelle famiglie di immigrati,  e com’era naturale parlammo subito di Jerre. “Chiamiamolo al telefono”, mi disse Ben bruscamente, dopo aver guardato l’orologio. Ci salutammo con Jerre per telefono con la promessa di rivederci.

Dante Bernini

 

 

Jerre G.Mangione, figlio di immigrati provenienti di Agrigento, nacque a Rochester(N.Y.) nel 1909; conseguì il baccalaureato all’Universdità di Syracuse (N.Y.), e quindi si trasferì a New York city, lavorando per riviste e agenzie pubblicitarie. Nel 1936 venne in Italia Soggiornando per alcuni mesi in Sicilia, per lo più ad Agrigento dove frequentò, oltre ai suoi parenti, zii e cugini del padre Gaspare, diversi amici, fra i quali Alfonso Amoroso che gli rimase amico per sempre. Come fu per molti altri immigrati di seconda generazione, quella sorta di ritorno al paese di origine gli procurò più che altro delusioni e amarezze, soprattutto per le condizioni politiche dell’Italia assoggettata al regime fascista. Non aveva mai pensato di stabilirsi in Sicilia,ma il suo rientro inegli Stati Uniti fu pittosto una fuga da un passato che non rivestiva alcun fascino; quando, finita la guerra, volle tornare nel 1947 ancora una volta nell’isola degli avi, a verificare le sensazioni del primo viaggio, la situazione politicaa era totalmente cambiata, non così le condizioni economiche e soprattutto quelle culturali ormai largamente superate nello stesso ambiente dell’immigrazione italiana negli States. Osservò tutto e frequentò tutti coloro che gli capitò di incontrare, trasmise questa sua nuova esperienza nel volume “Reunion in Sicily”, che solo di recente (1992) è stato pubblicato in Italia da Sellerio.Scrisse romanzi, libri di memorie e infine ricerche antropologiche sull’immigrazione italiana, e in particolre siciliana, negli Stati Uniti. Con la moglie éPatricia pittrice di talento, visse da ultimo a Philadelphia insegnando letteratura (nel senso di scrittura) inglese alla Pennsylvania University, dove conseguì il titolo di professore emerito.

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