In questa iridata primavera del 1928, Agrigento mette la sua più bella veste tessuta di aria e di luce, di suoni e di colori, o dalla dolce collina, su cui si stende ad anfiteatro, si affaccia e guarda coi mille occhi estasiati delle sue finestre razzanti nella valle dei templi, dove un miracolo si va compiendo.
Affiorano dalla terra, tra primule e zagare, mandorli e ulivi, le antiche are dei sacrifici, presso i templi di Demetra e dei Dioscuri; escono dallo sterro scavato di fresco il santuario arcaico di Cerere e le antiche muraglie della parte di oriente; brillano risorte le Colonne dell’ala di mezzogiorno del tempio di Ercole, slanciandosi nell’azzurro tenero del cielo a cui guardano con incantato stupore i telamoni del Giove, liberi dalle macerie.
Come la bella Persefone, che ritorna dai regni bui alle braccia di Demetra, dal sudario pesante della morte si scioglie tutta Agrigento, a cui ha confortato l’angoscia millenaria il lamento dell’Akragas che, scorrendo lucido a piè dell’altopiano coronato dell’austera linea de’ templi, va a congiungersi con l’Ipsas, per scaricarsi in mare nel punto in cui l’emporio accoglieva le navi di Tiro e di Sidone cariche di merci e stoffe preziose, e vide le triremi cartaginesi nell’eccidio supremo.
E l’illusione si crea.
La vita risorge tra capitelli e colonne, su le pietre corrose e le necropoli scoperchiate, tra i ginnasi e le agore sepolti, in mezzo a cui oscilla una palma isolata, o molleggia un banano splendente nell’aria cristallina.
Ma non d’illusione si tratta quest’anno.
Tra le sonanti rovine ritornerà Pindaro: l’Olimpia II con cui celebra Terone avrà la sua esecuzione corale e danzata con musica di Ettore Romagnoli.
Davvero Persefone incarnerà il mito della primavera che ritorna, dentro il tempio della Concordia, sotto l’ampia volta del cielo, nel silenzio della campagna addormentata.
Quello ch’è stato sempre un desiderio, ridestare, cioè, il passato tra le sparse reliquie, oggi si realizza.
Nella valle già fervono le prove. Nella limpida mattina un venticello, che arriva dal mare, si getta sulla fioritura dei mandorli i quali lasciano cadere i loro petali bianchi, come una lenta nevicata.
Teorie di fanciulle muovono sull’erba rugiadosa dei prati, come su campi elisii; spuntano tra le colonne del tempio di Giunone e scendono la china con anfore a mano e su le spalle. Le loro braccia tornite nella curva con cui circondano la testa per sorreggerle, sembrano anse purissime; sui loro bianchi ginocchi le vesti hanno palpiti leggeri.
L’inno alla vita va per l’aria, modulato, dalle fragranze dei giardini degli aranci scintillanti e dal sussurro dei pini ombrelliferi, che s’alzano, qua e là, con i cipressi scuri e appuntiti, sulla distesa massa degli alberi.
Ma dov’è il teatro per il Carro di Dioniso e per l’Alcesti ?
All’amore mistico del capitano Hardcastle, che non guarda
a danaro, pur di scoprirlo, nonostante le ricerche d’un giovane archeologo, Pirro Marconi, e l’impulso dato agli scavi dal governo di Benito Mussolini, il teatro non si è voluto ancora svelare.
Ma Ettore Romagnoli, ch’è presente a se stesso in ogni cosa, ha avuto il gesto creatore.
Per il carro di Dioniso e per l’Alcesti così come per il Mistero di Persefone, c’è il tempio della Concordia, collocato nel centro dell’armoniosa zona dei monumenti, con la città nuova a nord e a sud il mare.
Tra gli intercolunni e l’ampia gradinata occidentale, sull’ora del tramonto, si svolgerà l’azione dei due drammi. Gli spettatori piglieranno posto, in apposite tribune, nella vasta spianata sulla quale il tempio si affaccia.
lo penso che le rappresentazioni agrigentine saranno uniche nel loro genere, poiché per la prima volta, dopo millenni, si celebrerà un mistero e si canterà un’ode di Pindaro, quella a Terone, nella cui reggia fu il grande poeta tebano. E l’Alcesti, la tragedia dell’ospitalità, avrà un suo significato ideale nella città più ospitale della Sicilia.
La liberalità dell’opulento
Gellia dall’atle mense e dalle stalle
Sonore ove zampavano trecento
Bianche cavalle
(G. A. Cesareo: Canti di Pan « La valle dei tempii », Zanichelli, Bologna.).
In questi luoghi sacri alla morte, che trasforma la storia e crea le chimere, ritorneranno le genti antichissime, vi si aggireranno con passione inestinguibile, facendo sentire la loro presenza a quanti accorreranno a questa celebrazione, a questo miracoloso rinascere, che è l’inizio e l’augurio di feste ancora maggiori. Poiché, se il Giove sarà, anche in parte, ricostruito, com’è desiderio di Alex Hardcastle, chi potrà impedire che in un tempo non lontano Agrigento non possa anche rievocare il ritorno dei suoi figli vincitori da Pito o da Olìmpia ?
Ha l’agora fremente movevano al tempio tra grinni alti ne le quadrighe, belli si come dèi, e sopra il loro capo la strofe dì Pindaro alata splendeva, alzando il volo nei larghi azzurri cieli (Versi dell’Autore: Nica, Tip. Formica e Gaglio, Girgenti, 1919,).
Allora il saluto che Empedocle, nel principio delle « Purificazioni » rivolge agli agrigentini, non sarà più il frammento d’un poema scomparso con il popolo, di cui era la gloria, ma acquisterà valore attuale. Sarà l’affermazione della vita e immortale nella sua perpetua rinascita
O amici che l’urbe del biondo Akragante abitate
presso l’Acropoli alta, sol d’opere buone pensosi,
d’ospiti porti fedeli, ignari di tutto ch’è turpe,
salvete !
(trad. Ettore Brignone)
Gerlando Lentini, Italia Giardino del Mediterraneo, palermo 1936